Relazione Smuraglia 

 


LAVORO, PREVIDENZA SOCIALE (11ª)

425ª Seduta

Presidenza del Presidente
SMURAGLIA




Indagine conoscitiva sulla sicurezza e l'igiene del lavoro, con particolare riferimento al recepimento delle indicazioni formulate nel documento approvato il 22 luglio 1997 al termine dell'indagine conoscitiva sulla stessa materia condotta congiuntamente con la Commissione lavoro pubblico e privato della Camera dei deputati.


Schema di documento conclusivo


1. Nel settembre 1999, la Commissione lavoro del Senato, a fronte dei gravi e ripetuti dati diffusi sulla stampa relativamente agli infortuni sul lavoro e soprattutto a quelli mortali, decise di svolgere un'indagine conoscitiva, di "monitoraggio" rispetto alle conclusioni dell'indagine conoscitiva sulla sicurezza svolta congiuntamente con la Commissione lavoro della Camera dei deputati nel 1997 e conclusa con un documento approvato il 22 luglio 1997. In sostanza, si era valutata, da parte di tutti i componenti della Commissione, l'opportunità di verificare quali e quante delle indicazioni conclusive contenute nel citato documento fossero state recepite ed avessero ricevuto attuazione ed a quali cause si dovesse il perdurare di un fenomeno così socialmente e umanamente grave, a livelli sostanzialmente immutati, almeno per ciò che attiene ai grandi numeri. La Commissione decideva inoltre di completare l'indagine con una missione in tre Paesi del nord Europa (Finlandia, Svezia, Danimarca) che secondo le più diffuse statistiche sono tra quelli a più basso indice di infortuni, rispetto al resto dell'Europa.
Avviata l'indagine, sulla base della prescritta autorizzazione da parte della Presidenza del Senato, venivano effettuate parecchie audizioni (Ministro del lavoro e Ministro della Sanità, coordinamento delle Regioni, confederazioni dei sindacati dei lavoratori, organizzazioni imprenditoriali, organizzazioni sindacali e imprenditoriali dei settori più esposti a rischio). Una delegazione della Commissione, composta dai Senatori Pelella, Manzi, Novi, Mulas, Zanoletti e dal Presidente Smuraglia, si recava quindi ad Helsinki, Stoccolma e Copenaghen, dove partecipava a numerosi incontri con organismi parlamentari e Ministeriali dei vari Paesi, Istituti di studio e di ricerca, organi di vigilanza, parti sociali, con esito assai proficuo e con l'acquisizione di materiali e di conoscenze estremamente utili per il lavoro della Commissione. Sui risultati del sopralluogo all'estero, riferiva il Presidente all'intera Commissione nella seduta del 25 novembre 1999, mentre una relazione più complessiva sull'intera indagine veniva svolta nella seduta del 15 dicembre 1999 e su di essa veniva poi aperta la discussione.


2. Va sottolineato, preliminarmente, che la Commissione lavoro non ha mai accettato l'ipotesi, tutt'altro che infrequente, di una sorta di archiviazione tacita dell'indagine svolta nel 1997 e delle sue conclusioni. Anzi, ben conoscendo quale sorte fosse occorsa ad altre inchieste parlamentari, al termine dell'indagine la Commissione si impegnò a continuare il lavoro sul tema della sicurezza ed a svolgere ripetuti monitoraggi sulla situazione. In effetti, a tale proposito si dette corso con diverse iniziative, fra le quali vanno ricordate l'audizione dei Ministri del lavoro e della Sanità e quella del coordinamento delle regioni, effettuate circa un anno dopo la presentazione della relazione, la raccolta e la pubblicazione di tutti gli atti di quella indagine in tre volumi, cui poi fu data notevole diffusione. La presentazione di tutto il lavoro svolto e delle relative pubblicazioni fu compiuta solennemente in Senato alla presenza dei Presidenti della Camera e del Senato, di diversi Ministri, delle parti sociali e di organizzazioni specializzate nel settore della sicurezza e igiene del lavoro.

Nel primo quadrimestre del 1999, la Commissione ha svolto un'altra indagine sull'adeguatezza qualitativa e quantitativa dei medici competenti, ai fini della piena attuazione del decreto legislativo 19 settembre 1994 n. 626, concludendola con l'approvazione di un documento in data 22 aprile 1999.
L'indagine che si conclude con il presente documento non è dunque che il momento finale (allo stato) di un'attività costante e assidua che la Commissione ha svolto e certamente continuerà a svolgere in futuro, nell'intento di contribuire efficacemente alla soluzione di un drammatico problema sociale ed umano.

3. Bisogna dire, prima di ogni altra cosa, che l'indagine ha confermato quello che appariva, sulla base dei dati ancora sommari, l'elemento più significativo, e precisamente la sostanziale immutabilità del quadro degli infortuni e delle malattie professionali. (Del resto, sul punto concordano le due ricerche più recenti sulla situazione in Italia, rispettivamente del CENSIS, nel 33° rapporto, per il 1999, e dell'EURISPES, nella scheda 14 "La (in)sicurezza del lavoro", in Italia 2000).

Invero, se si confrontano i più recenti dati forniti dall'INAIL con quelli contenuti nel documento conclusivo del luglio 1997, e addirittura per alcuni aspetti con quelli contenuti nel documento "Lama" al termine dell'inchiesta parlamentare conclusa nel 1989, si ha l'impressione che le variazioni delle cifre complessive siano in realtà poco rilevanti, a fronte della persistente gravità del fenomeno, che non consente ottimismi, anche se non è opportuno neppure indulgere ad allarmismi inutili.
Le ultime tabelle fornite dall'INAIL per il settore industria, commercio e terziario presentano un totale di infortuni denunciati nel 1999 pari a 872.092 (contro gli 886.052 del 1998, gli 884.963 del 1997, gli 873.022 del 1996). Con poche variazioni restiamo sempre al di sopra degli 850.000 infortuni denunciati all'anno; ai quali devono aggiungersi quelli del settore agricoltura (87.815 nel 1999 contro 96.904 nel 1998, 103.034 nel 1997 e 113.403 nel 1996): dunque, con un certo calo, non tale peraltro da mutare sensibilmente l'entità del fenomeno. Insomma, complessivamente si continua a sfiorare il milione di infortuni l'anno; e certamente il dato sarebbe di non poco superiore se si tenesse conto dei settori (ad esempio il settore pubblico) non afferenti all'INAIL e di tutto il sommerso, certamente non irrilevante.
Occorre poi considerare che i dati relativi al 1999 sono da considerare, per indicazione dello stesso INAIL, provvisori, essendo destinati a consolidarsi entro i primi due mesi del nuovo anno.
Ma il dato più grave resta pur sempre quello relativo agli infortuni mortali: 1201 nel 1999, contro 1436 nel 1998, 1404 nel 1997, 1331 nel 1996 (dati complessivi per tutti i settori assicurati con l'INAIL). Attendendo il consolidamento del dato relativo al 1999 ed anche ammettendo che esso resti immutato, con una lieve flessione rispetto agli anni precedenti, resta pur fermo il costante superamento del limite dei mille infortuni mortali all'anno, confermandosi dunque il dato ampiamente pubblicizzato dei tre infortuni mortali al giorno; che è dato di estrema gravità e tale da non consentire nessuna tregua o disimpegno nella lotta contro un simile fenomeno. Anche perché, se per quanto attiene agli infortuni siamo – tutto sommato - all'interno della media europea, la quantità di casi mortali ci colloca tra le posizioni peggiori, con una distanza abissale rispetto ai Paesi come quelli visitati dalla Commissione, in cui il dato è infinitamente più basso rispetto al nostro (naturalmente considerando non il numero totale, ma l'indice di frequenza, cioè il rapporto col numero dei lavoratori occupati e con le ore lavorate).

Quanto alle malattie professionali e da lavoro, si tratta di dati meno noti e spesso non approfonditi e che, tuttavia, hanno un loro rilievo dato che - se qui appare una diminuzione in qualche modo più sensibile - il complesso rimane rilevante, anche perché con il mutare dei processi tecnologici, con l'avanzare dell'innovazione e con l'impiego di sostanze e prodotti meno noti, è destinato ad aumentare il numero delle malattie definite dagli studiosi come "perdute" e di quelle definite come "patologie del futuro", che in realtà si rivelano attuali e presenti nella realtà di oggi e con maggiore gravità proprio per la loro insidiosità, per i tipi di latenza e spesso per la estrema gravità delle conseguenze. In effetti, se accade che alcuni tipi di malattie tendono a diminuire drasticamente anche perché sono stati vietati i prodotti e le sostanze che le cagionavano, ad esse si sostituiscono altre malattie meno note, il cui numero e la cui entità spesso appare, almeno ai dati disponibili, piuttosto rilevante; altrettanto spesso, esse si distinguono per gravità, come accade per i casi in cui patologie tumorali insorgono dopo molti anni dall'esposizione al rischio. Ad ogni modo, secondo le tabelle INAIL, nel 1999 le malattie denunciate sono state 24.073 contro 25.406 del 1998, 26.885 del 1997, 29.248 del 1996. C'è un dato che colpisce e precisamente quello relativo alle malattie non tabellate, ma ricollegabili con nesso di causalità alla prestazione di lavoro e che devono essere prese in considerazione, se provate, a seguito di una nota sentenza della Corte Costituzionale. Risulta, infatti, piuttosto elevato il numero delle malattie da lavoro denunciate e non riconosciute. Bisognerà approfondire in futuro anche questo aspetto, per capire quali siano le ragioni del fenomeno e come esso debba essere considerato.


4. Nel capitolo conclusivo del documento approvato nel luglio 1997, si elencavano una serie di priorità sul piano puramente operativo, mentre si fornivano precise indicazioni per diversi tipi di interventi e attività ritenuti necessari per compiere l'auspicato salto di qualità nell'opera di prevenzione.
Queste indicazioni, riprodotte per comodità nell'allegato………, hanno costituito la base delle audizioni e dell'intera indagine, essendo stati posti, ai singoli soggetti o organismi auditi, precisi quesiti relativi all'attuazione, nell'ambito delle rispettive competenze, delle misure indicate. Ora, bisogna riconoscere che dal 1997 in poi ci sono state novità, anche salienti sul piano dell'attività normativa e degli stessi comportamenti dei soggetti pubblici e privati, accanto ad inadeguatezze e inerzie che hanno parimenti inciso, queste ultime in senso negativo, sui risultati complessivi.

Gli effetti complessivi delle stesse "novità" non sono stati rilevanti in termini positivi, da un lato perché restano ancora troppi difetti nell'attività di prevenzione e permane troppo basso il livello complessivo della cultura della prevenzione, dall'altro perché alcune iniziative sono state assunte troppo di recente perché se ne possano raccogliere i frutti, dall'altro ancora perché ciò che sembra ancora mancare è quella strategia complessiva, quell'impegno generale e diffuso che era stato posto alla base delle conclusioni dell'indagine del 1997 come necessità assoluta ed imprescindibile per ottenere davvero dei risultati salienti e sensibili.

Resta fermo e consolidato infatti il convincimento che misure isolate, anche se positive, non sono sufficienti a combattere un fenomeno così serio, così come non sono tollerabili contraddittorietà, inerzia e lacune; si tratta di mettere in campo tutti gli strumenti, le azioni e le iniziative possibili, con un impegno comune che non lasci spazio ai pericoli di ogni attività lavorativa ed abbia connotati di attività globale, a tutto campo, ispirata ad un disegno strategico e contrassegnata da una forte e convinta cultura della prevenzione.
Ma per rendersi conto tangibilmente della situazione e del quadro complessivo e specifico delle risposte ottenute dalla Commissione nel corso dell'indagine, sarà utile approfondire i singoli aspetti dei quesiti formulati, in rapporto alle indicazioni conclusive della relazione del 1997.
Vale la pena di iniziare dai dati positivi, cioè di quanto di nuovo è stato fatto dopo il luglio 1997.

4.1. Anzitutto sotto il profilo normativo.

Ci sono stati diversi interventi normativi da parte del Ministro del lavoro e del Ministro della Santità, a completamento del sistema previsto dal decreto legislativo n 626 del 1994 e successive modifiche e del decreto legislativo n. 494 del 1996, nonché in attuazione di diverse direttive comunitarie.
Rinviando all'allegato…… per un quadro complessivo ed analitico dei provvedimenti adottati in questo periodo, si segnalano qui i più salienti e particolarmente la definizione delle modalità di attuazione del decreto 626/94 secondo le peculiari esigenze delle strutture penitenziarie, delle rappresentanze diplomatiche e consolari all'estero, delle Università, delle strutture scolastiche, del corpo della Guardia di Finanza. Assai rilevante è l'attuazione di altrettante direttive comunitarie per la sicurezza del lavoro marittimo e del lavoro portuale, del lavoro a bordo delle navi da pesca, per la protezione dei giovani, per l'uso di attrezzature di lavoro.

Degni di menzione anche alcuni provvedimenti solo apparentemente più specifici, quali il regolamento per la individuazione delle attività lavorative per le quali la vigilanza può essere esercitata anche dagli Ispettori del lavoro e il DPCM 5 dicembre 1997 per il coordinamento, a livello regionale, degli organismi operanti nella prevenzione e nella vigilanza. Fondamentale anche il decreto legislativo 19.11.1999, n. 528, con integrazioni e modifiche al decreto 494/96 per i cantieri temporanei e mobili. Vanno poi sottolineate con particolare rilievo alcune misure adottate in campo sanitario, con forte rilievo alla prevenzione, sicurezza e igiene degli ambienti di lavoro, dal piano sanitario nazionale per il triennio 1998-2000 (DPR 23.7.1998 n. 201) al riordino della disciplina in materia sanitaria (decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502), alle "norme per la razionalizzazione del servizio sanitario nazionale (decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229). Tutti provvedimenti in cui l'accento è posto con molta forza e reale spirito innovativo sulla prevenzione, sulla struttura dei dipartimenti di prevenzione, su un più corretto impiego del personale occupato nelle aziende sanitarie, per un'effettiva destinazione alla prevenzione di una quota del fondo sanitario nazionale, non inferiore al 5 per cento. Da segnalare, in modo particolare, l'articolo 7-octies introdotto col d.lgs 229 del 1999 ad integrazione del decreto 502 del 1992, per assicurare il coordinamento dell'attività di prevenzione nei luoghi di lavoro.

Degni di menzione anche i provvedimenti in materia di lavori pubblici e in particolare la legge 18 novembre 1998, n. 415 (cosiddetta "Merloni-ter"), che contiene importanti indicazioni in materia di prevenzione e sicurezza, ovviamente da porre in collegamento col decreto 494/96 e con le recenti integrazioni e modifiche.

Significativo, su un piano più generale e anche se destinato ad operare dalla prossima legislatura, il decreto legislativo 30.7.1999 n. 300 (riforma dell'organizzazione del Governo) che si segnala per l'unificazione delle attività di prevenzione e sicurezza nell'ambito del futuro Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali (tanto più rilevante in quanto il primo schema sottoposto al Parlamento era fondato su una pericolosa frantumazione di competenze, fortunatamente corretto in senso positivo nella stesura finale).

Non possono essere passate sotto silenzio, poi, le misure contenute nella materia di cui ci occupiamo nelle leggi finanziarie degli ultimi anni, da quella del 1998 (legge 23 dicembre 1998, n. 448) che all'articolo 3 subordina la concessione di incentivi alle imprese, fra l'altro, alla condizione che siano rispettate le prescrizioni di sicurezza; al "collegato ordinamentale" del 1999 (legge 17 maggio 1999 n. 144), che ribadisce, in sede di riordino degli incentivi, la necessità di non concederli a pioggia ma di subordinarli al rispetto delle prescrizioni sulla salute e sicurezza dei lavoratori, e prevede - inoltre - un sistema di norme a sostegno delle piccole e medie imprese che intendono impegnarsi in programmi di adeguamento alla normativa di sicurezza ed infine alla stessa finanziaria 2000, approvata con legge 23 dicembre 1999, n. 488.
Da rimarcare con viva soddisfazione il fatto che con la legge 144/99 sia stato finalmente accolto il suggerimento, ripetutamente formulato da questa Commissione, di accompagnare le previsioni sanzionatorie con le cosiddette "sanzioni positive", vale a dire con misure premiali e di sostegno in favore delle imprese (soprattutto quelle di modeste dimensioni e gli artigiani).
Del resto, sotto questo profilo si era pronunciato in termini molto netti e puntuali lo stesso Senato, approvando all'unanimità, in data 9 febbraio 1999, un ordine del giorno sottoscritto da diversi componenti della Commissione Lavoro a partire dal Presidente, che impegnava il Governo ad andare ancora oltre il sistema delineato nel collegato ordinamentale (L. 144/99), predisponendo un vero e proprio sistema premiale e di sostegno mediante finanziamento di programmi di adeguamento alle norme di sicurezza e igiene; concessione di IVA agevolata per le imprese che applichino normative di sicurezza; incentivazioni, con crediti agevolati, detrazioni fiscali ed altre misure di sostegno, alla sostituzione di materiali e macchinari obsoleti con apparecchi in regola con le norme di prevenzione (allegato …).
\In conclusione, può rilevarsi che c'è stato uno sforzo per completare ed estendere il quadro normativo, soprattutto a seguito di precisi interventi da parte del Ministro del lavoro e del Ministro della sanità, anche se come vedremo, non è poca né breve la strada che resta ancora da percorrere sul piano normativo.

4.2. Un altro lato positivo, che è doveroso rilevare, è quello relativo a un rinnovato attivismo da parte dell'INAIL, volto a potenziare soprattutto la vocazione prevenzionale dell'istituto, che lo distingue sempre più nettamente rispetto a istituti, anche di altri paesi, caratterizzati esclusivamente dal sistema assicurativo e dunque di riparazione del danno. A prescindere dalla citata norma della legge 144/99, destinata a trovare attuazione specifica nel decreto legislativo di imminente emanazione, con la quale si destina una parte non irrilevante dei fondi dell'Istituto al sostegno delle piccole imprese che si adeguano alle norme di sicurezza, ciò che caratterizza questa fase nuova della vita dell'Istituto è la creazione di una rete di rapporti molto stretti col Ministro del lavoro, col Ministro della sanità e con l'organismo bilaterale nazionale CGIL, CISL e UIL e Confindustria. Esempi significativi si possono cogliere nei due più significativi protocolli stipulati dall'INAIL rispettivamente l'11 novembre 1999 col Ministro della sanità e il 13 luglio 1999 col l'O.B.N. Nel primo, l'impegno è a svolgere sinergicamente un'attività di prevenzione, cura e riabilitazione; nel secondo, a predisporre programmi comuni di prevenzione, costituendo un centro operativo nazionale e centri operativi periferici, per incrementare studi e ricerche, svolgere campagne informative e progettare azioni comuni in materia formativa (allegato…). Si tratta, come ognuno vede con facilità, di iniziative di grande importanza e sicuramente dotate di una forte carica innovativa rispetto al passato. Certamente, bisognerà attendere qualche tempo per coglierne i frutti e verificarne l'effettiva attuazione.

4.3. Un maggiore impegno si registra, soprattutto in epoca più recente, da parte del Ministro del lavoro nella lotta contro il lavoro nero, fenomeno grave di per sé ma certamente assai rilevante anche sotto il profilo della sicurezza del lavoro. Da un lato, si è cercato di migliorare ed estendere i sistemi destinati a favorire l'emersione del sommerso, con diversi interventi normativi; dall'altro, si è cercato di irrobustire l'attività di vigilanza, predisponendo a tale scopo anche strumenti d'intervento e d'iniziativa più coordinati ed efficaci (ad esempio la Task Force messa in campo dal Ministero del lavoro, che ha operato in alcune zone del paese, ottenendo risultati significativi, anche se lo strumento deve restare di carattere eccezionale ed anche se qualche volta il coordinamento con altri organismi della prevenzione e della vigilanza non è stato agevole). Comunque, le indicazioni fornite dal Ministro del lavoro nel corso dell'audizione e il forte impegno da lui assunto in questo campo delicatissimo costituiscono certamente una delle novità più significative di questo periodo, anch'essa, sperabilmente, destinata a fornire frutti positivi nel tempo, soprattutto se si riuscirà a realizzare una strategia che accompagni misure di emersione ad un migliore assetto del sistema repressivo.


4.4. Importante la decisione del Coordinamento delle Regioni di procedere a un monitoraggio approfondito dello stato di attuazione del decreto legislativo 626/94 e successive normative di sicurezza. Si tratta di un'iniziativa importante, non solo perché rivelatrice di un atteggiamento complessivo delle regioni più coerente e impegnato rispetto al passato, ma anche perché il monitoraggio potrà fornire indicazioni precise circa le iniziative e i comportamenti a livello delle singole regioni, essendo già note le notevoli disparità esistenti nel campo di cui ci occupiamo tra regioni che hanno cercato di svolgere un'azione decisa e regioni che si sono contraddistinte per atteggiamenti di ossequio meramente formale della disciplina normativa, se non in alcuni casi addirittura di inerzia.


4.5. Sul fronte delle parti sociali, si riscontrano luci ed ombre. Molte sono state le iniziative formative e informative assunte sia dalle organizzazioni imprenditoriali che dalle Confederazioni dei lavoratori; il reticolo dei RLS si è un po' esteso e così anche quello degli organismi paritetici di cui all'articolo 20 del decreto legislativo 626 del 1994; ma sull'adeguatezza e sulla funzionalità del sistema partecipativo c'è ancora molto da rilevare, e lo si vedrà più oltre quando si dedicherà specifica attenzione alle lacune e carenze ancora riscontrabili (e riscontrate dalla Commissione).

Quanto alla contrattazione collettiva, risultano stipulati diversi accordi e contratti collettivi in settori importanti. Fra di essi, vanno segnalati: il contratto collettivo per il settore metalmeccanico stipulato nel novembre 1999; il contratto collettivo per il settore dell'industria chimica del giugno 1998, i contratti integrativi per il personale della scuola statale, per i dipendenti da istituti gestiti da enti ecclesiastici, e per quelli delle scuole private a gestione laica; e infine l'accordo tra enti gestori di attività formative e organizzazioni sindacali di categoria (15 settembre 1997) per lo svolgimento di attività di formazione professionale specifica ai fini della sicurezza.

Il dato è sicuramente positivo, anche per il solo fatto che in settori importanti si dedichi spazio notevole, negli accordi, al campo della prevenzione e della sicurezza; il limite è costituito dal fatto che le innovazioni non sono molte e in alcuni casi ci si limita semplicemente a riprodurre le disposizioni più rilevanti del decreto 626/94. Tra le innovazioni, peraltro, si segnala la costituzione di osservatori comuni, l'istituzione di registri di dati biostatistici, di libretti sanitari, di rischio e di controllo personale sanitario, di registri dei dati ambientali e così via. Per altri settori importanti, sono in corso di conclusione le trattative per il rinnovo del contratto nazionale ed è già chiaro che una parte non indifferente sarà dedicata alla prevenzione e alla tutela.


4.6. Una delle novità più significative è costituita, lo si è già accennato, ad un recente maggior impegno del ministro del lavoro Salvi e del sottosegretario Caron in questo campo, con un rilancio di tutte le iniziative, sul piano normativo e su quello amministrativo. Si è già detto dell'emanazione dei diversi atti di competenza del Ministro del lavoro ovvero – su sua proposta - del Governo e si è accennato alla creazione della Task Force ed all'emanazione di diverse circolari in tema di vigilanza e di coordinamento. Ma il dato che più emerge è la predisposizione della cosiddetta "Carta 2000", presentata formalmente nel Convegno promosso dal Ministro del lavoro a Genova nei giorni 3-4-5 dicembre 1999. L'iniziativa è importante per vari motivi: anzitutto, perché essa è il frutto di intese tra Governo, Regioni e parti sociali; in secondo luogo, perché essa dà vita a precisi impegni definiti anche temporalmente; in terzo luogo, perché essa è stata contrassegnata dalla partecipazione al Governo come tale e dunque non solo di un Ministro per quanto attivo e impegnato sul problema; infine, perché il documento (Carta 2000) contiene indicazioni e direttive a tutto campo, sulla prevenzione, sugli appalti, sulla attuazione del piano sanitario, sulla formazione e sull'informazione, sul rafforzamento del ruolo dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, sul coordinamento delle attività della pubblica amministrazione in materia di condizioni di lavoro (all. ……).

Ovviamente, si tratta di un'iniziativa assai recente nel tempo e di cui bisognerà verificare la concreta attuazione. Tuttavia il dato è significativo già ora, per il rinnovato spirito con cui si affronta il problema e per l'approccio finalmente globale ad una tematica che non ha nulla di settoriale e può essere affrontata solo in un contesto complessivo e in un quadro completo e strategico di misure e iniziative. Semmai, si può constatare che si è cercato, giustamente, di creare un rapporto nuovo con le Regioni e le parti sociali, mentre assai minore attenzione è stata dedicata al pur essenziale rapporto col Parlamento. Una lacuna che dovrà essere colmata proprio ai fini di quella sinergia di cui si è parlato più volte ed anche perché difficilmente potrebbero essere raggiunti risultati effettivi se anche in Parlamento non si delineasse una strategia efficace e rapida di interventi, al di là di ogni steccato e in piena sintonia con gli impegni assunti a livello governativo. Ma su questo si tornerà più oltre.


5. Chi pensasse, leggendo il paragrafo che precede, a un atteggiamento di soddisfatto ottimismo, commetterebbe un grave errore. La Commissione ha motivo di essere soddisfatta per il fatto che alcune indicazioni contenute nella relazione del 1997 siano state recepite o siano in via di recepimento; ed è stato giusto dare atto degli aspetti positivi sopraelencati. Ma si era detto all'inizio che il quadro fornisce anche ombre, e sono molte. E questa è una delle ragioni (accanto al dato temporale: le iniziative più rilevanti sono di data assai recente e quindi non potranno esprimere effetti se non a distanza di tempo) che spiegano perché i dati sugli infortuni e le malattie restino sostanzialmente al livello inaccettabile cui si è fatto riferimento nella prima parte della relazione.

Infatti, come si rileverà di qui in avanti, l'elenco di ciò che non va, di ciò che manca, delle lacune, delle incoerenze, delle contraddittorietà, delle inerzie è assai più lungo rispetto a quello relativo alle innovazioni positive; e poiché si tratta di carenze che vengono da lontano, è chiaro che esse sono destinate a spiegare effetti negativi ancora a lungo, se non verrà impresso un ritmo ancora più accelerato alle iniziative positive, se non si porrà riparo almeno alle lacune più vistose, se infine non si troverà il modo di mettere in campo efficacemente una strategia globale, che metta in risalto l'aspirazione ad una vera cultura della prevenzione oltre che della legalità.


5.1. Cominciando dagli aspetti normativi, se si è provveduto a colmare alcune gravi lacune, è altrettanto evidente che ampio (troppo) è il novero dei provvedimenti che ancora attendono di essere emanati. Per l'elenco complessivo si rinvia all'allegato…… Tuttavia non ci si può esimere dal rilevare fin d'ora: a) che alcuni dei decreti da emanare erano previsti dal decreto 277/91 (ad es. il registro dei tumori, previsto dall'art. 36) e dunque fanno registrare, ad oggi, qualcosa come 8 anni e mezzo di ritardo; b) che altri decreti erano previsti dal decreto 626 del 1994 e quindi sono già in forte ritardo; e tra essi ce ne sono alcuni (ad es. l'atto di indirizzo e coordinamento per assicurare omogeneità di comportamenti su tutto il territorio nazionale previsto dall'articolo 25) ritenuti di essenziale importanza e per i quali – all'atto della emanazione - bisognerà tener conto del contenuto dell'articolo 7 del decreto legislativo 10 giugno 1999, n. 229 che - nel frattempo - ha previsto con l'articolo 7-octies l'emanazione di indirizzi soprattutto per le attività di vigilanza; c) che alcuni dei provvedimenti in ritardo sono decreti interministeriali, il che rivela ancora una volta la difficoltà di intese tra i vari ministeri e spesso anche con altri organismi (Regioni, parti sociali) che in alcuni casi devono essere coinvolti nell'iter formativo del provvedimento; d) che ci sono regolamenti previsti dalla normativa sugli appalti, ma che attengono a problemi relativi alla sicurezza, attesi da tempo e che non potranno non essere raccordati con le recenti misure correttive e integrative del decreto cantieri.

Un problema che è degno di particolare menzione è quello relativo al riordino complessivo del quadro normativo, ai fini della chiarezza, della semplificazione e dell'adeguamento del sistema alle particolari caratteristiche del sistema produttivo del nostro Paese. Le Regioni hanno fortemente auspicato l'emanazione del Testo Unico, sul quale è da tempo in corso l'esame al Parlamento; la Carta 2000 sottolinea la stessa esigenza, con particolare vigore; nessuno, né organi ministeriali, né parti sociali, contesta la necessità di disporre, appunto, di un testo unico rispondente ai citati requisiti, ma di fatto il disegno di legge (o meglio i disegni di legge perché ce ne sono due, dei quali uno è stato assorbito dall'altro solo in ragione della sua minore ampiezza, ma sarà comunque tenuto presente nell'ulteriore discussione) approvato in Commissione lavoro del Senato in data 22 giugno 1999 e trasmesso all'aula, è stato calendarizzato nel luglio 1999, ha fatto anche in seguito qualche rapida apparizione nel programma dei lavori dell'Aula, ma a tutt'oggi non ha compiuto nessun passo avanti. Anzi, allo stato non è neppure oggetto di calendarizzazione. E non è decisivo il fatto che siano stati presentati, per l'Aula, numerosi emendamenti, perché altrettanti ne furono presentati ed esaminati (e in buona parte accolti) in Commissione, senza particolari problemi. Ma poi, se una esigenza è comunemente sentita, sarebbe ragionevole farvi fronte anche a costo di impegnare qualche seduta di Aula.
Peraltro, è singolare la sorte che è stata riservata anche in sede parlamentare ad altri provvedimenti in materia di sicurezza. Il Senato ha approvato il 27 maggio 1998 un provvedimento per la tutela del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza; ma il provvedimento solo da poco è passato dalla Commissione lavoro della Camera all'esame dell'Aula. Altro provvedimento, sui videoterminali, approvato dal Senato il 1° ottobre 1997 per adempiere ad alcune contestazioni che provenivano dalla U.E., approvato dalla Commissione lavoro della Camera nello stesso testo, è da 22 mesi in attesa della relazione tecnica da parte del Ministero del tesoro circa l'eventuale previsione di maggiori oneri per la pubblica amministrazione.

Il Senato ha lavorato e sta lavorando ad altri provvedimenti che contengono norme importanti in materia di sicurezza (lavori atipici, telelavoro, soci lavoratori di cooperative, figure professionali della sicurezza). Ma se ad essi sarà riservata in prosieguo la stessa sorte di quelli suindicati, ci saranno ulteriori motivi di seria preoccupazione circa il reale impegno complessivo in questa materia.


5.2. Sul piano amministrativo, la situazione complessiva non è migliore.

Accanto ad aspetti clamorosamente negativi (ad esempio la proroga per l'attuazione di misure di sicurezza negli edifici scolastici concessa dall'articolo 15 della legge 3 agosto 1999, n. 265, addirittura fino al 31 dicembre 2004; e si trattava di misure per la cui adozione il termine originario era da tempo trascorso), ce ne sono altri che, se pur meno clamorosi, tuttavia sono contrassegnati da un notevole indice di gravità. Basti pensare ai seguenti aspetti che verranno elencati sommariamente ma sono tutti significativi:

a) il processo di aziendalizzazione delle ASL, come ha riconosciuto la sottosegretaria alla Sanità, ha prodotto conseguenze negative nel campo della prevenzione, poiché è proprio questo il settore che ha pagato il prezzo più alto. I dipartimenti di prevenzione hanno una quota di personale inferiore all'1 per cento del totale del personale alle dipendenze delle ASL. Si tratta di una situazione seria, che non consente lo svolgimento di un'opera di prevenzione e di vigilanza adeguata e alla quale deve essere posto rimedio con estrema sollecitudine. Il decreto legislativo 229 del 1999 impone una vera ristrutturazione al dipartimento di prevenzione, esaltandone tutte le potenzialità. Ma è chiaro che, per colmare il grave divario suindicato, ci vorrà un forte impegno non solo degli organi centrali ma anche e soprattutto delle Regioni. Il problema non è tanto quello delle disponibilità finanziarie, quanto della loro concreta destinazione; e in questo senso è preziosa l'indicazione del coordinamento delle Regioni, che c'è solo da sperare venga recepita e attuata in tutte le sedi.


b) Nonostante la varie misure adottate dal Ministero del lavoro e nonostante l'assunzione di 400 unità ispettive, il servizio degli Ispettori del lavoro è tuttora in forte carenza di organico, tant'è che lo stesso Ministero auspicava che la legge finanziaria consentisse l'assunzione di altre mille unità; il che peraltro non è avvenuto, per ragioni di bilancio. Il risultato, anche qui, è che ai numerosi compiti che gli sono assegnati, l'Ispettorato del lavoro non riesce a far fronte; e si tratta di cosa non da poco se si considera che agli Ispettorati è devoluto il compito di vigilare sull'osservanza delle leggi sul lavoro e – per la parte relativa alla sicurezza - il compito di assicurare la vigilanza, assieme alle ASL, sul settore edilizio e in particolare sui cantieri, vale a dire sul settore in cui si verifica il maggior numero di infortuni mortali. Se si considera che nell'ambito della vigilanza sul rispetto delle norme del lavoro c'è tutta la partita relativa al sommerso, si avrà un quadro davvero preoccupante per la sua inadeguatezza.


c) Fra gli organi preposti alla vigilanza, dovrebbe essere assicurato il coordinamento. Ma esso, come è emerso dall'indagine, funziona poco e male. Resistono ancora pregiudizi, convinzioni sbagliate, sovrapposizioni, conflitti di competenza. Non sempre si fa chiarezza neppure da parte degli organi centrali, tant'è che lo stesso impiego della task-force, per altri versi dimostratosi utile, diventa talvolta fonte di sovrapposizioni, se non si adottano le necessarie cautele, e non si dettano disposizioni chiare, ispirate al contenuto dell'articolo 23 del decreto 626 del 1994.

Inoltre, è da rilevare che la mancata attuazione dell'articolo 25 del decreto legislativo 626, che doveva assicurare criteri di omogeneità di comportamenti su tutto il territorio nazionale, produce effetti fortemente negativi, anche perché le disparità interpretative e applicative, a seconda degli organi che in concreto sono chiamati a svolgere la vigilanza nei singoli casi, vengono vissute dalle imprese, anche psicologicamente, con insofferenza e con l'impressione, in alcuni casi, di essere eccessivamente penalizzate.
D'altro lato, non pochi degli auditi hanno affermato che i coordinamenti regionali previsti dal DPCM 5 dicembre 1997, in alcune regioni non sono stati neppure costituiti e in altre sono stati istituiti solo sulla carta.
Lo stesso fatto che le organizzazioni sindacali non facciano parte di questi organismi e comunque non vengano neppure consultate, crea ulteriori problemi, non tanto e solo di insoddisfazione quanto e soprattutto di inefficienza. Si allega una tabella fornita dal coordinamento delle Regioni (all……..) circa i comitati di coordinamento a livello regionale; è facile constatare dalla semplice lettura quali e quanti siano i ritardi, le lacune nell'attuazione di un provvedimento così importante come il citato DPCM; ma ancora più grave appare la situazione se si tiene conto dell'opinione, riferita da più fonti, secondo la quale il funzionamento è spesso burocratico e virtuale, anche là dove sembrerebbe, dai dati formali, che sia stata data tempestiva attuazione alle precise indicazioni del decreto.

Va poi rilevato che è opinione pressoché concorde che tutti gli organi di vigilanza agiscano in base ad input esterni od occasionali, piuttosto che sulla base di una precisa programmazione, correlata alle particolari rischiosità di alcuni settori, oppure all'allarme derivante dalla maggiore incidenza locale o settoriale del fenomeno degli infortuni o da una maggiore presenza di malattie e soprattutto di quelle non tabellate.

d) Si è cercato, del tutto inutilmente, di raggiungere qualche certezza anche solo statistica sul livello di funzionamento e di efficacia dell'istituto della prescrizione, opportunamente introdotto con il decreto legislativo 758 del 1984.

Il Ministero del lavoro ha fornito solo i dati in suo possesso (5.024 prescrizioni, ottemperate in 3.952 casi e non ottemperate in 542); il Ministro della Sanità ha riferito di 19.226 prescrizioni impartite nel 1997; il coordinamento delle Regioni ha riferito di 50.000 prescrizioni nel 1996; nessun dato appare in possesso del Ministro della Giustizia, idoneo a dar conto del numero di prescrizioni che non hanno avuto esito positivo in sede amministrativa e sono sfociate in un procedimento penale.

Se questa limitatezza e contradditorietà dei dati si riscontra a riguardo di un istituto considerato positivamente da tutti e destinato a mitigare i connotati della semplice repressione, a favore piuttosto della regolarizzazione e dell'adempimento a breve scadenza, c'è da essere davvero preoccupati. Si tratta infatti di una possibilità che viene offerta agli inadempienti di mettersi in regola col semplice pagamento di una limitata sanzione amministrativa; dunque di un sistema fortemente ed efficacemente prevenzionale, da tenere sotto controllo proprio per consentirne un funzionamento ottimale.

In più è assolutamente pacifico per tutti che il sistema della prescrizione presuppone una notevole professionalità dell'organo di vigilanza proprio perché implica un forte margine di discrezionalità (nella scelta dei tempi e delle modalità); e, si può aggiungere, occorrono precisi indirizzi e criteri omogenei, per evitare disparità di trattamento. Ma se gli organici e le dotazioni degli organi di vigilanza risentono delle lacune di cui si è già detto e se continua a mancare l'indicazione, dal centro, di criteri omogenei, è chiaro che l'istituto non può riuscire ad esplicare tutte le sue potenzialità.

Infine i dati della giustizia sarebbero di estrema importanza perché – secondo la legge - tutte le notizie delle prescrizioni impartite dovrebbero essere trasmesse all'Autorità giudiziaria, sia pure restando poi sospeso l'esercizio dell'azione penale; e successivamente alla stessa Autorità giudiziaria dovrebbe essere comunicato l'adempimento o il non adempimento della prescrizione. Se questi dati fossero raccolti e fossero disponibili, si avrebbe finalmente un quadro completo e su di esso si potrebbe riflettere e confrontarsi seriamente, anche per adottare eventuali accorgimenti e misure per rendere più funzionale l'istituto. Ma va detto che occorrerebbe disporre di dati precisi anche sul prosieguo dei casi sottoposti a prescrizione, con esito negativo in sede amministrativa: in quali e quanti casi viene esercitata l'azione penale e con quale esito? Analoghi dati occorrerebbero per quanto riguarda le pendenze di procedimenti e l'esito di questi procedimenti penali relativi a infortuni e quindi a reati di lesioni colpose e di omicidio colposo: purtroppo, l'impostazione statistica del Ministero della Giustizia e delle zone periferiche non consente di distinguere all'interno dell'unica voce relativa ai reati colposi. Se si avessero tutti questi elementi, questo servirebbe anche per sfatare il mito di una legislazione troppo repressiva e magari per raccogliere l'indicazione proveniente da varie parti, nelle audizioni, secondo la quale sarebbero più efficaci sanzioni interdittive rispetto a quelle di tipo tradizionale.

Occorre peraltro aggiungere un'ulteriore considerazione sul punto. Il sistema di prevenzione e di vigilanza, come impostato attualmente, sembra dotato di maggiore efficacia per ciò che attiene al controllo sulle macchine, sugli impianti, sui prodotti, sugli ambienti di lavoro. Ma molti hanno posto in evidenza che il problema non è solo la sicurezza sotto questi profili, ma anche quello dell'organizzazione del lavoro, delle pause, dei ritmi, della qualificazione professionale, della formazione e della informazione degli addetti. Su questo piano, l'inadeguatezza del sistema è evidente. E dunque su questi elementi grava il forte sospetto di essere tra le cause più rilevanti della perdurante gravità del fenomeno degli infortuni e delle malattie da lavoro.


e) Il giudizio complessivo che emerge dall'indagine è che il livello di osservanza delle norme di sicurezza è ancora troppo basso. E' vero che molte aziende di maggiori dimensioni hanno recepito le idee di fondo del decreto 626 del 1994 almeno per gli aspetti principali; ma questa situazione è rovesciata completamente quando si passa alle aziende di modeste dimensioni e agli artigiani. In questi settori, in cui l'osservanza dei decreti del 1955 e 1956 è sempre stata assai modesta, si è continuato anche dopo il D.lgs 626/94 ad ottemperare scarsamente; e ciò non è dovuto solo a ragioni economiche, ma anche a un deficit culturale, che finora non si è riusciti a superare, anche perché a questi livelli le informazioni non arrivano o arrivano poco, i controlli operano meno, la partecipazione è spesso assente. Accade così che molti adempimenti siano compiuti in modo burocratico e senza convinzione; ed altri vengano del tutto elusi.
Va aggiunto a tutto questo che anche per le aziende di maggiori dimensioni si presenta un problema di altra natura: le aziende tendono ad osservare le norme di sicurezza per il proprio personale, ma poi decentrano molti lavori ad imprese minori e talora poco affidabili; ed è lì che accadono gli infortuni, che quindi escono dal dato statistico delle grandi imprese ma solo per arricchire quello relativo alle imprese appaltatrici. Per di più il ruolo che spetterebbe al committente in materia di sicurezza è troppo spesso disatteso ovvero svolto con rassegnazione burocratica. E ciò non solo da parte dei privati ma anche da parte dei grandi committenti pubblici, che hanno, secondo le organizzazioni sindacali del settore, responsabilità molto serie. Significativo, in tal senso, l'esposto presentato dalle organizzazioni sindacali dell'edilizia (Fillea-CGIL, Filca-CISL e Feneal-UIL) secondo il quale da una ricerca effettuata su 200 bandi di gara pubblicati in dieci città campione, risulta che solo la metà dei bandi censiti (49,5 per cento) riporta l'indicazione dell'importo destinato alla sicurezza. Se le cose stanno così, è chiaro che ben poco c'è da attendersi nell'edilizia, dalla pur importante disciplina prevista dal decreto 494 del 1996, dal provvedimento integrativo e correttivo adottato nel novembre 1999 col decreto 528 e dalla stessa legge 415/98, più volte ricordata.


f) Da tutte le audizioni è emerso – ancora una volta - lo stretto collegamento tra inosservanze delle norme di sicurezza e lavoro sommerso. Questo fenomeno, in alcuni settori, è di particolare gravità ed è tale da incrementare il numero degli infortuni e delle malattie da lavoro non controllabili. Fra l'altro, se non si predispongono rimedi veramente efficaci, continua l'alterazione della concorrenza fra le imprese e il rischio di espulsione dal mercato proprio di quelle più serie ed osservanti. Si è già detto delle misure poste in atto da leggi recenti e da iniziative mirate del Ministro del lavoro. Ma il fatto che le Regioni, le organizzazioni sindacali dei lavoratori e l'ANCE concordino sulla persistenza e gravità del fenomeno soprattutto nel Mezzogiorno (ma non solo) dimostra che occorre ancora intensificare gli sforzi e moltiplicare gli strumenti, per ricondurre il fenomeno entro livelli che non vorremmo definire fisiologici ma che fossero almeno assai più contenuti rispetto alla gravissima situazione attuale.
E' chiaro, peraltro, che non bastano né gli interventi a favore dell'emersione né quelli di natura puramente repressiva. Bisogna considerare la necessità di spezzare il vincolo, quanto meno di silenzio, che si crea tra chi specula sul lavoro nero e chi è costretto a subire pur di lavorare. Occorre intensificare quindi gli interventi di carattere economico-sociale e quelli di riordino del sistema dell'immigrazione, visto che molti di questi fenomeni riguardano ormai lavoratori che provengono da altri Paesi (e non solo da quelli del terzo mondo, ma anche da quelli di Paesi più vicini a noi, dei Paesi Balcanici e dell'Est europeo).

g) Una particolare attenzione è stata dedicata, nel corso dell'indagine, alla linea partecipativa che emerge dai provvedimenti di attuazione delle direttive comunitarie, a partire dal decreto 626 del 1994.
Ma anche in questo caso, i dati non sono confortanti, perché è del tutto evidente che quella linea stenta ancora a decollare e a diventare davvero diffusa ed efficace.

Cominciando dai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, si riscontra anche qui una notevole carenza e talora contraddittorietà dei dati. Secondo la Confindustria, i RLS sarebbero aumentati rispetto al 1997 del 20% circa raggiungendo il livello di 16 o 17 mila unità. Le organizzazioni sindacali dei lavoratori non dispongono di dati sicuri ma presumono che i RLS siano di più anche se riconoscono che ci sono tuttora ampie lacune.

Due considerazioni trovano tutti concordi: la prima è che il numero dei RLS tende a diminuire man mano che si scende verso il Sud; la seconda è che la stessa tendenza si verifica man mano che si passa dalla imprese di maggiori dimensioni alle piccole imprese e all'artigianato. Persistono difficoltà peculiari nel settore edile, proprio per la temporaneità dei cantieri. E resta estremamente difficile la costituzione di rappresentanze dei lavoratori a livello di bacino o comunque a livello territoriale, quando si tratta di piccole imprese. Insomma, questa figura incontra maggiori difficoltà proprio dove è più forte è il rischio: e in questa grave contraddizione sta uno dei motivi di preoccupazione, perché si tratta di un fattore grave di ritardo nell'attuazione concreta della normativa di sicurezza. Inoltre, dove esiste il RLS non sempre il suo compito è facile, sia per l'isolamento in cui spesso viene a trovarsi, sia per la concezione che non poche imprese hanno del suo ruolo e della stessa filosofia partecipativa.

Da un indagine presentata dalla segreteria nazionale FIM-CISL, FIOM-CGIL e UIL-UIL sulla base di una ricerca compiuta a campione su 24 unità produttive per un totale di 30.000 addetti, emerge che nel 22% delle aziende i RLS non sono stati neppure informati della valutazione del rischio, mentre nel 48% sono stati informati solo dopo la realizzazione del documento; dal che si deduce, secondo l'inchiesta in esame, che c'è un 70% di realtà produttive lontane dal modello partecipativo previsto dal decreto 626/94. Dalla stessa ricerca si evidenzia che nel 4% delle aziende selezionate i RLS sono stati informati preventivamente ma non coinvolti; nel 13% dei casi i RLS sono stati consultati ed hanno espresso un parere, mentre solo in un altro 13% hanno partecipato attivamente alla stesura del documento, formulando proposte ed indicando soluzioni. Ovviamente, la portata della ricerca è relativa perché è troppo limitato l'ambito preso in considerazione; tuttavia se si considera che il campione esaminato sarebbe rappresentativo dell'intero settore della siderurgia e metallurgia non ferrosa in Italia, l'indicazione appare sufficiente per convalidare l'assunto complessivo da cui si è partiti più sopra.

Sono state inoltre segnalate difficoltà e problemi per l'effettivo esercizio del proprio ruolo da parte del RLS; esiste un problema relativo alla consegna o messa a disposizione del documento di valutazione dei rischi, sotto il profilo della necessità –secondo le imprese - di tutela del segreto industriale. In conclusione, è emersa dall'indagine non solo l'esigenza del completamento del reticolo dei RLS, ma anche quella della garanzia della piena ed efficace attuazione dei principi di partecipazione contenuti nel decreto 626/94. E questo è un problema da tener presente sia sotto il profilo della normativa (Regioni, organizzazioni sindacali e la stessa Carta 2000 auspicano che il Parlamento provveda ad approvare disposizioni di maggior tutela dei RLS) sia sotto quello culturale, posto che la filosofia partecipativa deve essere digerita e compresa da tutti e non può essere semplicemente imposta.


h) Sempre sul terreno della partecipazione, dati non rassicuranti sono emersi anche a riguardo degli organismi paritetici di cui all'art. 20 del decreto 626/94. Si tratta di un istituto assai importante non solo per ciò che attiene alla formazione dei lavoratori o per il compito conciliativo o di soluzione di controversie di cui al comma 1 dell'art. 20, ma anche per le sue capacità espansive, che ne fanno uno dei fondamenti, appunto, della partecipazione.

Ma anche in questo caso, si confrontano dati diversi fra loro (allegato …..); e comunque la Confindustria assume che la situazione è immutata rispetto al 1997; il che è certamente negativo perché dovrebbe trattarsi, invece, di un istituto in espansione. Ciò che è certo è che ci sono problemi per l'insediamento degli organismi paritetici nella pubblica amministrazione, vistose lacune nel sud e nel settore della cooperazione. Soprattutto colpisce il fatto che ci sono organismi paritetici ben funzionanti nell'edilizia, dove peraltro c'è una maggior tradizione a riguardo, anche in virtù di una più avanzata contrattazione collettiva, e in alcuni altri settori, mentre in altri campi anche gli organismi formalmente costituiti languono, non si sa bene se per mancanza di risorse o per mancanza di convinzione.
Oltre tutto mancano – nonostante qualche lodevole sforzo - coordinamenti nazionali, soprattutto per ciò che attiene alle attività formative. Da varie parti si è fatto notare che dovrebbe trattarsi di un centro di iniziativa e di propulsione, ma non è così; e l'obiettivo appare ancora lontano da raggiungere.
Importante, sotto questo profilo, il protocollo ricordato più sopra tra Organismo paritetico nazionale e INAIL. Ma a prescindere dal fatto che gli impegni assunti nei protocolli non debbono restare sulla carta (e in questo caso c'è da confidare che non sarà così), resta fermo che non basta e che i sostegni istituzionali dovranno essere irrobustiti anche per ciò che attiene alle risorse, se si vogliono ottenere risultati davvero soddisfacenti.

i) Sulle attività formative, ci sono dati positivi e dati negativi. Positivi nel senso che Ministri e associazioni, imprenditoriali e sindacali, hanno documentato una quantità notevole di iniziative assunte. Negativi, nel senso che esse appaiono ancora insufficienti e comunque spesso scollegate fra loro. E' evidente che occorre investire assai di più in formazione, coordinare gli sforzi e le iniziative, garantire un aggiornamento continuo, assicurare la formazione dei formatori, e così via. Allo stato, si ha l'impressione di un certo dispendio di energie con una notevole sproporzione rispetto ai risultati.

D'altronde, è evidente che anche le iniziative più positive e significative, se restano isolate, rischiano di consumarsi nel tempo e di perdere di mordente. Le Regioni, nel loro complesso, hanno fatto registrare un notevole slancio; al quale deve però seguire, per loro stessa ammissione, una fase più riflessiva e concreta, nella quale si definiscano meglio i criteri e gli standard che garantiscano l'effettiva preparazione degli addetti, e si assicuri un reale coordinamento delle iniziative. Lo stesso vale anche per le parti sociali, che certamente hanno fatto parecchie cose in questo campo, ma non possono certo accontentarsi. Anche su questo terreno, un'opera di continuo monitoraggio si impone, proprio con la finalità di adottare iniziative e interventi eventualmente anche correttivi che tendano ad un continuo miglioramento del quadro complessivo.

La qualità professionale degli addetti, a tutti i livelli, è un elemento fondamentale ai fini della prevenzione. Al Senato, si sta discutendo attorno ad alcune figure professionali della sicurezza, nell'intento di definirne più compiutamente i requisiti e di garantirne la professionalità; in quel contesto, si discute anche attorno all'aggiornamento continuo di varie figure, tra cui il medico competente. E' sperabile che la discussione prosegua col contributo di tutti ed approdi a risultati appaganti, nella convinzione che fare sicurezza e soprattutto prevenzione richiede professionalità adeguate e processi di formazione continua davvero in grado seguire le modifiche e le innovazione dei sistemi produttivi.

l) Infine, nel documento del 1997 si era concentrata molta attenzione sull'opera di informazione e di sensibilizzazione diffusa, per la formazione di una cultura della prevenzione.

Su questo piano, a prescindere dalle più recenti iniziative e in particolare dai protocolli INAIL e da CARTA 2000, non si è fatto granché. Non c'è stata una grande campagna di informazione, durevole e continuativa; non c'è stata l'introduzione di elementi di sicurezza tra le materie delle scuole di ogni grado; poco si è fatto per sensibilizzare l'opinione pubblica e creare una sensibilità diffusa attorno a questi problemi.
Permane l'attenzione della stampa quando accadono fatti particolarmente gravi; ma poi tutto si spegne nella quotidianità.

D'altronde se è vero ciò che si è detto al punto 5.2.e è perfino la cultura della legalità ad essere ancora carente.
Resta poi il fatto che, nella media, i giudizi di convenienza o puramente economici continuano a prevalere su quelli di più ampia prospettiva, come risulta dalle stesse difficoltà che incontrano gli studi e le ricerche in tema di rapporti tra costi e benefici. Se qualche passo avanti si è fatto sul piano collettivo e generale (molti sono stati impressionati dal dato relativo ai costi annui che solo l'INAIL affronta per la riparazione dei danni: sono ben 55.000 miliardi, ai quali dovrebbero aggiungersene non pochi altri se si tenesse conto dell'intero scenario), è più difficile far capire anche ai singoli che la prevenzione è un vantaggio perfino sul piano economico, anche a livello di singole imprese, perché se ne giovano la competitività, la pace aziendale, la stessa produttività.

Resta dunque il grave problema della cultura della prevenzione che –anche a considerare quanto si è appreso da altri Paesi- continua a restare il nostro vero punto debole.


6. Per quanto riguarda il confronto con la situazione esistente nei tre Paesi presi in considerazione dalla Commissione (Finlandia, Svezia, Danimarca), con un'apposita missione in loco, mentre per ciò che attiene alle risultanze analitiche dell'indagine si rinvia alla relazione svolta dal Presidente della Commissione nella seduta del 25 novembre 1999 e ai due dossier che raccolgono le audizioni svolte all'estero e una sintesi dei principali provvedimenti in materia di sicurezza e igiene, in vigore in quei Paesi, vanno fatte in questa sede alcune rapide e sommarie considerazioni, anche a fini comparativi e soprattutto per trarre da quelle esperienze opportune indicazioni e suggerimenti.

Non si può non evidenziare che la situazione riscontrata nei Paesi visitati è molto diversa rispetto a quella italiana, con riferimento non tanto al numero complessivo degli incidenti e delle malattie, che ovviamente dipende dal diverso numero di occupati, quanto e soprattutto dall'indice di frequenza, risultante dal rapporto tra infortuni mortali e numero di occupati e di ore lavorate.

Si è avuta conferma del fatto che in questi Paesi l'indice di frequenza soprattutto per gli infortuni mortali, è notevolmente inferiore al nostro e tra i più bassi in Europa, anche se occorre rilevare che si tratta di valutazioni relative, dal momento che i sistemi di rilevazione sono diversi e che talvolta è difficile stabilire definizioni univocamente accettate.

In particolare, in alcuni di questi Paesi è difficile distinguere gli infortuni dalle malattie. Non è un problema di conoscenza ma di innovazioni derivanti dal progresso tecnologico. Rispetto agli infortuni tradizionali, come le cadute dall'alto, le ferite o mutilazioni causate dal cattivo funzionamento delle macchine, si aggiungono altre tipologie di rischio, per cui risulta difficile distinguere statisticamente gli infortuni dalle malattie. Basti pensare che, in molti casi, dai ritmi e dalle modalità dell'organizzazione del lavoro si fa derivare una delle cause principali dello stress che, a prescindere dal fatto che venga definito come infortunio o malattia, rappresenta a tutti gli effetti un fattore di disadattamento sul lavoro. In ognuno dei paesi visitati si riscontra una diminuzione notevole delle malattie professionali tabellate, anche perché alcuni dei prodotti che provocavano certe malattie sono stati messi al bando in quegli stessi paesi, come del resto anche nel nostro; tende a crescere, invece, il novero delle malattie correlate al lavoro, per le quali non esiste una tabella fissa e quindi spetta al lavoratore l'onere di dimostrare il nesso di causalità. Le indagini e le ricerche predominanti in quei paesi si rivolgono soprattutto al fenomeno dello stress, inteso non solo come affaticamento ma anche come disadattamento al lavoro e cattivo rapporto con esso; (un problema che investe anche le progressioni di carriera), e al problema della dequalificazione, dai quali derivano disturbi psicologici rilevanti. Tra le cause di malattia viene denunciato il sovraccarico di lavoro, inteso non tanto dal punto di vista quantitativo, come orario di lavoro espletato, quanto come rapporto insoddisfacente e non equilibrato tra i tempi di vita e quelli di lavoro. E' importante sottolineare come in diversi di quei Paesi si investano notevoli fondi in settori di ricerca relativi all'impiego di tecnologie avanzate. Un fronte di ricerca, peraltro, mai fine a sé stesso, ma strettamente correlato alla pratica applicazione ed al sistema di vigilanza, che anzi proprio dai risultati degli studi e delle indagini trae i fondamentali input per la necessaria programmazione degli interventi.
Un altro dato significativo concerne i rapporti tra le parti sociali, che tradizionalmente, in quei Paesi hanno un'importanza fondamentale e si son sempre basati su filosofie di tipo partecipativo, che peraltro vanno sempre intese in senso effettivo e in duplice direzione. Tant'è che si considera normale e non conflittuale il fatto che in alcuni Paesi (ad esempio la Svezia) il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza abbia il potere di sospendere le lavorazioni quando si verifichino particolari situazioni di rischio.
E' emerso anche un forte avanzamento nella riflessione relativa ai rapporti costi-benefici della prevenzione. E' ormai diffusa la convinzione che la prevenzione costa meno della riparazione postuma dei danni e ciò non solo a livello di economia generale, ma anche a livello di singole imprese, agli effetti della produttività, delle buone relazioni industriali, della pace aziendale e della stessa presenza assidua al lavoro.
Sul piano normativo, esistono differenze notevoli rispetto ai nostri sistemi, non tanto per ciò che attiene al contenuto quanto per le caratteristiche stesse della produzione legislativa. Infatti, per ciò che attiene al contenuto, le differenze non possono essere sostanziali visto che si tratta di paesi aderenti all'U.E e dunque tenuti a rispettarne le direttive (e in effetti, è risultato che è assai basso il numero delle contestazioni da parte dell'U.E e ancor di più lo è il numero delle procedure per infrazione). Per ciò che attiene alla forma, invece, la tradizione dei Paesi scandinavi è in qualche modo più elastica della nostra. Il sistema è fondato su una o più leggi fondamentali sull'ambiente di lavoro ( in genere, una legge-quadro) e su una serie di atti apparentemente amministrativi, ma in realtà, per buona parte, dotati di forza precettiva; a questi, poi, si accompagnano di frequente altri atti, di indirizzo prevalentemente tecnico. La caratteristica flessibilità di questo sistema non deve peraltro trarre in inganno sulla base di un confronto sommario con la nostra legislazione (per la quale si è già detto che occorre un riordino e la riorganizzazione in un testo unico). In realtà, se alla legge fondamentale svedese, tanto per fare un esempio, si aggiungono i provvedimenti di settore (circa centocinquanta), che contengono sia la parte precettiva che quella tecnica, la differenza quantitativa con il nostro sistema normativo diminuisce sensibilmente, fino a diventare quasi evanescente. E' vero, comunque, che alcune differenze si riscontrano per quanto riguarda l'apparato sanzionatorio che in quel sistema normativo appare più contenuto e spesso limitato a sanzioni di tipo pecuniario. E' chiaro che in questi sistemi si punta soprattutto sulla prevenzione e su una diffusa cultura della legalità, che induce ad adempiere agli obblighi di sicurezza anche al di là di interventi repressivi. Non è vero, tuttavia, che manchino sanzioni di natura penale, perché esse, nei citati limiti, sono previste in tutti i paesi, sia pure come estrema ratio. Un esempio per tutti: la legge finlandese sulla salute e sicurezza del lavoro rinvia, per le sanzioni penali relative ai reati di omicidio o lesioni colpose per infortunio, agli articoli 8-11 del codice penale, mentre per quanto attiene ai reati di pericolo, rinvia al capitolo 21, articolo 13, sempre del codice penale. Per tutte le altre violazioni in materia di sicurezza la pena è prevista sempre nel codice penale, capitolo 27, articolo 1. Dunque, se differenze ci sono, esse attengono alla tipologia delle sanzioni, ma non al fatto che esse non siano di natura penale, come talora si vorrebbe sostenere.

Ma poi, al di là di ogni apparenza, bisogna tener conto del fatto che nei Paesi scandinavi vigono sanzioni "morali", non scritte, assai più pesanti, nel senso che il giudizio di disvalore sociale che consegue a determinati comportamenti inosservanti in materia di sicurezza e igiene del lavoro produce effetti anche tangibili, sul piano della concorrenza, della stessa maggiore vigilanza e talora perfino sul piano della assistenza (negata), da parte delle associazioni imprenditoriali di categoria ove si tratti di aziende che sistematicamente eludono i precetti di legge.

Non è irrilevante, d'altronde, l'alto indice di osservanza dei precetti che caratterizza, in questo e in altri campi, i Paesi del nord Europa. Vige infatti un sistema analogo a quello esistente in Italia per la "prescrizione"; ma il tasso di adeguamento è assai più elevato e ben più rari sono i casi in cui la persistente inadempienza sbocca in un procedimento penale.

Infine, è emerso che il sistema di vigilanza è assai consistente e robusto, affidato ad organi qualificati professionalmente e dotati dei mezzi e degli strumenti necessari; ma ciò che più importa è che prevale il concetto di programmazione degli interventi, in relazione ai risultati degli studi, delle ricerche e dei dati relativi sia ai settori più a rischio sia alla maggiore incidenza di infortuni e malattie.
Un quadro ben diverso, dunque, rispetto ad un Paese come il nostro in cui la programmazione per gli interventi di vigilanza è praticamente assente.

Da quanto si è sinteticamente rilevato, emergono con chiarezza i fondamenti dei sistemi di prevenzione e sicurezza nei Paesi scandinavi: un ampio spazio dedicato alla ricerca applicata, soprattutto in relazione alle innovazioni tecnologiche; un'attenzione particolare dedicata ai problemi dell'organizzazione del lavoro, in aggiunta all'attenta considerazione dei fattori tradizionali di rischio; un sistema normativo elastico ma complessivamente efficace, corrispondente appieno alle direttive comunitarie; un forte rilievo delle relazioni industriali, con una filosofia partecipativa basata sulla diffusa convinzione e il forte impegno reciproco delle parti sociali; un sistema di vigilanza correlato agli studi e alle ricerche e fondato soprattutto sulla programmazione, anche nel medio e lungo periodo; una diffusa convinzione che la prevenzione costa meno della riparazione dei danni; una notevole diffusione della cultura della prevenzione e della stessa legalità; un forte radicamento nella coscienza sociale di un severo giudizio di disvalore nei confronti di chi non rispetta le norme in materia di sicurezza e provoca danni alla salute degli individui.

Sono tutti elementi che, da soli, giustificano la forte diversità dei dati tra quei Paesi e il nostro, che spiegano la bassa incidenza degli infortuni mortali ed esaltano la ricerca continua di mezzi per correggere i difetti e migliorare la situazione complessiva. A questo punto, rilevare che troppi dei citati presupposti sono ancora carenti in Italia e che sarebbe di estrema importanza che dalle citate esperienze si traessero precise indicazioni per i comportamenti dei soggetti pubblici e privati e dell'intera collettività, appare addirittura superfluo. Se si voleva scoprire il "segreto" dei Paesi a più basso indice di infortuni, il risultato è stato ottenuto; di esso bisognerebbe riuscire a far tesoro, non meno che dell'importante indicazione che scaturisce dal fatto che raramente quei Paesi si dichiarano soddisfatti ed anzi si ritengono impegnati a migliorare per il futuro la qualità e le condizioni di lavoro.


7. Tutte le considerazioni che precedono consentono di pervenire ad alcune osservazioni conclusive.
Sostanzialmente, tutto ciò che si è acquisito conferma gli orientamenti adottati nel 1997, quando la strada maestra per un deciso abbattimento del numero degli infortuni e delle malattie del lavoro era stata indicata nel rafforzamento della cultura della legalità e della prevenzione, sostenuta da una coerente programmazione ed attuazione di interventi da parte dei soggetti pubblici, ispirata a una linea veramente strategica e accompagnata da un pieno e convinto adempimento degli obblighi di legge, in materia di sicurezza e igiene, da parte dei soggetti privati.

Come dimostra anche l'esperienza dei Paesi del Nord Europa, la linea della partecipazione di tutti i soggetti costituisce un elemento importante della politica di prevenzione, ma deve essere accompagnata e sostenuta da un quadro normativo chiaro ed efficace e dall'adozione da parte di tutti i soggetti delle misure di sicurezza necessarie.

Va rilevato, alla luce di tutto quanto si è analiticamente esposto, che in quest'ultimo triennio ci sono stati interventi e iniziative assai positive, nel senso indicato dalle considerazioni finali della relazione del 1997. Va osservato peraltro, che a queste luci - che vanno apprezzate e sostenute - si contrappongono ancora troppe ombre, troppe carenze, troppi ritardi, sia da parte dei soggetti pubblici che da parte dei soggetti privati.
Se queste carenze non verranno rapidamente colmate (ed è auspicabile che a questo fine contribuiscano anche gli aspetti positivi ricordati più sopra) e se non si riuscirà a delineare un quadro globale, impegnato, programmato di interventi e di iniziative, saremo costretti, purtroppo, a prendere atto, ancora, di dati significativamente negativi sul piano umano e sul piano economico-sociale.
La Commissione non ritiene di elencare nuovamente le misure che devono essere adottate e i ritardi che debbono essere colmati. Leggendo il documento conclusivo delle indagini, ognuno degli interessati individuerà agevolmente quali compiti gli competono e quale impegno ulteriore gli sia richiesto. Quello che è certo è che se di questo non ci si renderà conto e non si cercherà di porre immediatamente rimedio alle lacune, si rischierà la vanificazione delle numerose iniziative positive che più sopra sono state registrate e considerate con favore.

Comunque, è certo che nessuno – neppure chi ha impresso un andamento positivo e attento alle proprie funzioni e all'assolvimento dei propri compiti, nel Parlamento e nel Governo – può considerarsi soddisfatto. Le iniziative già avviate, soprattutto nel 1999, devono essere portate a compimento; il sistema normativo deve essere entro breve tempo ricondotto a unità e razionalità, pur nel quadro di una necessaria semplificazione e di un complessivo adeguamento alle caratteristiche del sistema produttivo italiano; la vigilanza deve essere potenziata e deve concentrare i suoi sforzi nella direzione della prevenzione, considerando la repressione come l'estremo rimedio, indispensabile peraltro nei confronti di chi si ostina a disattendere gli obblighi di legge; le relazioni fra le parti sociali sul tema della sicurezza devono svilupparsi appieno, secondo una filosofia partecipativa che tanto maggiori risultati potrà dare quanto più risponderà a convinzioni profonde ed a comportamenti coerenti da parte di tutti; la formazione degli addetti alla sicurezza deve essere garantita fino a raggiungere il maggior livello professionale possibile, accompagnandosi ad aggiornamenti costanti e alla formazione continua che le innovazioni richiedono; coloro (soprattutto piccole imprese ed artigiani) che vogliono seriamente adempiere agli obblighi di sicurezza debbono essere aiutati, sostenuti e assistiti, con finanziamenti, con assistenza, con informazioni, insomma con tutti gli strumenti disponibili, oltre a quelli già posti in atto.

Bisogna infine realizzare quella campagna di informazione, di circolazione dei dati, di elaborazione e di ricerca che più volte è stata considerata come essenziale ma che finora non è riuscita a decollare.
Ciò implica anche sensibilizzazione e informazione dei cittadini ad un problema connotato da estrema rilevanza sociale, partendo dalla scuola e dagli organi d'informazione e di comunicazione; ma significa anche concentrare gli sforzi sulla ricerca per poter disporre di strumenti anche tecnicamente più idonei a realizzare maggiori livelli di sicurezza e di igiene.

Insomma, il grande problema resta ancora quello della cultura della prevenzione. Certamente, è fondamentale anche la cultura della legalità, nel senso del pieno e convinto rispetto delle norme e degli impegni assunti anche nelle sedi contrattuali; in un campo così delicato, essa non può risolversi nel solo timore delle sanzioni, ma deve diventare il convinto fondamento dell'azione quotidiana e dei comportamenti, singoli e collettivi. Solo su queste basi si potrà finalmente costruire quella cultura della prevenzione, che sembra ancor oggi un obiettivo troppo lontano e troppo difficile da raggiungere.
Anche per tutti questi fini, la Commissione diffonderà il documento conclusivo a tutti i soggetti interessati e in qualche modo coinvolti nel problema complessivo della prevenzione e nell'impegno contro gli infortuni e le malattie da lavoro; ma assumerà nel contempo ogni altra iniziativa che appaia idonea a richiamare l'attenzione sulle singole questioni individuate nel corso delle indagini ed a promuovere una riflessione sempre più ampia e sempre meno episodica sulla complessiva questione nella sicurezza e dell'igiene del lavoro.

Soprattutto, la Commissione continuerà nell'opera di monitoraggio, alla quale si è dedicata più volte - anche con l'indagine che con questo documento si conclude -, consapevole di non poter incidere direttamente sui comportamenti e sulle coscienze, ma confidando sulla forza morale che può derivare da un appello del Parlamento a tutti gli organi pubblici ed ai soggetti privati, affinché si riesca finalmente a compiere un grande salto di qualità che riesca a porre fine ad una catena di morti e di invalidità che non può essere tollerata in un paese civile.



N.B. Il presente schema viene pubblicato senza allegati, per motivi di spazio.



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