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ZAHA
HADID. The Architecture Foundation |
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SHE'GOT
THE CITY. (ZAHA A LONDRA). C'è riuscita. Alla fine la regina
è riuscita ad imporsi anche nella sua patria adottiva, ed in
grande stile. Dopo il boccone amaro del Cardiff Opera Bay e l'incerto
futuro del Thames Habitable Bridge, stavolta sembra proprio che Zaha
riesca a costruire a Londra. Southbank, giusto in prossimità
della Tate Modern. Sede dell'Architecture Foundation. |
[14feb2005] | ||||
Un
edificio di piccole dimensioni, 640 metri quadri (pochi se paragonati
alla colossale ristrutturazione di Herzog & de Meuron), ma di grande
prestigio, sia per la collocazione che per la destinazione d'uso. L'Architecture
Foundation è una organizzazione indipendente nata nel 1991 per
"promuovere l'educazione, la partecipazione pubblica e la qualità
in architettura e urban design per mezzo di mostre, eventi e iniziative
progettuali". Il bando di concorso per la nuova sede è appunto
una di queste iniziative; dai circa 200 partecipanti alla prima fase
sono stati selezionati 8 studi (oltre a Zaha Hadid Architects: AOC,
Caruso St John, Foreign Office Architects, Graft, Lacaton and Vassal,
MVRDV e Bernard Tschumi). Il progetto vincitore si discosta decisamente
da quanto lo studio ci ha abituato a vedere negli ultimi anni: niente
linee sinuose, niente superfici complesse, ma un segno netto, materico,
un solido elemento strutturale che da solo definisce le linee dell'edificio;
volendo cercare delle analogie formali vengono in mente alcuni progetti
della metà degli anni '90, in particolare il BluePrint Pavillon.
La massa materica di questo "costolone" strutturale parte
da terra, si impenna e ridiscende delineando lo spazio con angoli precisi
e taglienti che avvolgono lo spazio centrale dell'atrio, definito per
contrasto da superfici trasparenti. |
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È attorno al rapporto dicotomico tra queste due parti che si gioca tutto il progetto: l'elemento strutturale diviene una sorta di portale che garantisce innanzitutto una completa permeabilità fisica e visiva dell'atrio, cuore pulsante del centro e destinato ad accogliere mostre ed eventi di vario tipo, che viene così enfatizzato nel suo essere "spazio pubblico", aperto alla città, espansione dei percorsi pedonali. È questo con tutta probabilità uno dei requisiti base che la commissione giudicatrice ha ritenuto caratteristica imprescindibile della futura sede della Fondazione: essa deve rispecchiare il carattere di apertura e diffusione della cultura architettonica, principio fondamentale dell'Architecture Foundation. Il ruolo del "concrete ribbon" non si esaurisce però con l'analogia al portale. All'interno della sua imponente sezione è stato infatti ricavato un percorso a "loop" che dallo spazio dell'atrio consente di salire ai piani superiori, dove oltre ai vari uffici ha sede un open space di ridotte dimensioni ma in grado comunque di accogliere eventuali esposizioni ed una cafeteria che affaccia sul grande atrio centrale del piano terra, offrendone una vista inconsueta ed estremamente sugggestiva. La dicotomia di cui sopra risulta quindi solo apparente: in realtà il "pieno" ed il "vuoto" sono uniti fisicamente e percettivamente in un continuum spaziale dal percorso all'interno del "costolone". |
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Le
prospettive dall'alto evidenziano inoltre come sia la sagoma della struttura,
sia i tagli dinamici sulla sommità delle sue ali contribuiscano
a "giocare" con la luce naturale, nell'atrio e negli spazi
interni. Al di là del suoi vari "ruoli" architettonici
l'aspetto più evidente della massa strutturale è comunque
quello di configurarsi come una icona urbana, un gesto architettonico
eclatante che esalta il concetto di "avvolgere" uno spazio
pubblico. Da questo punto di vista vengono in mente possibili analogie
con un altro progetto di Zaha, anche questo degli anni '90, seppur concluso
ed inaugurato meno di due anni fa: il Center for Contemporary Arts di
Cincinnati. Là il concetto era lo "urban carpet", un
lembo di suolo urbano che si stacca da terra e si eleva, offrendo un
inconsueto appoggio ai volumi del museo (se il suolo diviene verticale
i volumi non vi "poggiano" sopra, ma se ne distaccano come
mensole); stavolta abbiamo a che fare con un portale che diviene esso
stesso volume chiuso ed avvolge, senza concluderlo, uno spazio pubblico.
Un modo inconsueto di leggere lo spazio urbano. Questo è probabilmente
il segno distintivo della produzione di Zaha Hadid: non (o non solo)
esplorazione formale, ma ricerca di una lettura ed una interpretazione
alternativa, trasversale al consueto. "In assenza di quell'elemento
di incertezza e di quella sensazione di intraprendere un viaggio verso
l'ignoto non può esserci progresso" (Zaha Hadid, 2002). Maurizio Meossi mail@spinplus.co.uk |
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