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Architetture

NIO ARCHITECTEN. Sensing the Waves



L'intervento su di uno spazio museale, sia esso di ristrutturazione o di ampliamento, comporta irrimediabilmente la relazione con le premesse con cui sono stati concepiti gli spazi esistenti. Gli edifici espositivi su cui è stata operata la maggior parte degli interventi negli ultimi anni, appartengono di solito o alla tipologia del museo ottocentesco con una sequenza lineare di spazi specializzati o al "cubo bianco" modernista, contenitore opaco e neutrale senza particolare enfasi su una relazione privilegiata tra ambienti diversi. Quando poi si espone l'arte contemporanea, ormai liberata da una "cornice" prefissata da decenni di dibattito teorico, la cosa si complica ulteriormente, in quanto non vi è più un legame lineare tra opere e ambiente e quest'ultimo deve essere continuamente ridefinito.

[22may2007]
Tra gli interventi contemporanei sui musei sono emerse diverse attitudini:
- C'è chi ha cercato di ampliare atteggiamenti di esplorazione artistica al manufatto esistente, trattandolo come un gigantesco objet trouvé, ed estendendo nozioni di surrealtà e poverismo allo spazio espositivo stesso: è il caso del Palais De Tokyo di Lacaton-Vassal a Parigi (Ma anche del nuovo Quay-Branly di Jean Nouvel che cerca di costruire una versione contemporanea della wunderkammer per la sua rassegna etnografica).
- C'è chi approfondisce la natura del white cube sottoponendolo a sottili violazioni che ne minano la neutralità attraverso interventi sulla luce e sulla tettonica volti a stabilire un'interazione mediata con l'esterno: la ristrutturazione del Camden Arts Center a Londra di Tony Fretton e l'ampliamento del Museo Bojimans Van Beuningen di Paul Robbrecht e Hilde Daem a Rotterdam sono due casi di questa ricerca mediata e antispettacolare.
- C'è chi cerca di proiettare l'esposizione al di fuori del recinto esistente costruendo un paesaggio di spazi esterni e di involucri molteplici che rompono la monoliticità del museo: il recente ampliamento del Museo Nelson-Atkins a Kansas City di Steven Holl è un esempio di questo desiderio di disseminazione del museo che usa un'alternanza di padiglioni opalescenti e percorsi sotterranei per portare l'esposizione nel paesaggio senza che essa appartenga a una casa unica.
- C'è, alfine, chi accetta la natura di puro contenitore del museo e, senza discuterne la neutralità interna, lavora solamente sull'involucro caricandolo di valore immaginifico e facendolo diventare un'ulteriore icona della società dello spettacolo. Questa tendenza, iniziata dal Guggenheim a Bilbao, stacca decisamente l'involucro dagli spazi interni e lo libera dalla funzione di supporto espositivo (è un muro ad una faccia sola, quella esterna): esso può alternativamente diventare oggetto tecnologico (il museo high-tech), gesto organico (quanti Bilbao sono sorti negli ultimi anni...), supporto ipergrafico (i pattern di Herzog & De Meuron) o carrozzeria soft (come la Kunsthalle di Graz di Peter Cook e Colin Fournier). Questa tendenza è forse la più pericolosa in quanto spesso non distingue se dietro l'immagine esterna vi sia un impianto spaziale innovativo o un open space conformista che non aggiunge nulla alla ricerca sugli ambienti espositivi.



Il progetto di ampliamento del Centro per l'Arte Contemporanea Luigi Pecci a Prato di Maurice Nio, recentemente presentato al pubblico, sembrerebbe a prima vista appartenere a quest'ultima categoria. Fa sua una generale indifferenza per la natura degli interni (e degli spazi esistenti) che abbiamo visto in molti progetti contemporanei per dare massimo risalto all'involucro. La nuova addizione avvolge l'impianto esistente di Italo Gamberini con un gigantesco anello carrozzato da un involucro curvilineo color bronzo. Esso contiene al piano terra le funzioni ricettive aperte sull'esterno attraverso vetrate e racchiude le nuove gallerie espositive al primo piano nello spettacolare guscio brunito. La proposta si basa quindi su una serie di polarità (nuovo/esistente, interno/esterno, spazi espositivi chiusi/spazi pubblici aperti, involucro/esposizione) che non sembrano cercare mediazioni tra loro. L'anello sembrerebbe quindi una specie di maschera che nasconde, invece di risolvere, i problemi del museo esistente dietro ad un'immagine di consumo.

Dove il progetto di Nio acquisisce interesse è invece nel suo schema distributivo il quale rompe le differenze che sembra affermare, instaurando una reciprocità e un'interazione tra gli spazi che rendono vitale il nuovo Pecci. Bisogna innanzitutto dire che l'ampliamento affronta uno dei più infelici spazi espositivi che siano mai stati creati. Il Pecci esistente è, infatti, una serie di contenitori segnati da un telaio metallico dipinto di rosso e sospesi su pilastri (una sorta di villaggio di palafitte tecnologiche) che sembrano stati raggruppati casualmente su di un'intersezione viaria ai margini di Prato. L'edificio ha un rapporto difficile con gli spazi esterni dove sono state poste diverse sculture di grande scala. La neutralità dei contenitori non permette una lettura dell'ingresso che è quasi nascosto sul retro e, soprattutto, sollevato da terra: un viadotto pedonale isolato è, infatti, l'unico accesso diretto. Chi si avventura alla ricerca di una via al livello terreno è continuamente rispedito a circolare attorno ai pilastri tra le asperità di un improbabile landscaping fatto di collinette verdi, auditori abbandonati e corti di servizio. Una volta conquistato l'accesso, nulla nella distribuzione spaziale stabilisce una gerarchia tra gli ambienti. Questi sono scatole rettangolari ordinate da un reticolo planimetrico isotropo e antidirezionale. Appaiono quindi come opzioni identiche e le mostre temporanee devono spesso fare ricorso ad una segnaletica spinta per stabilire un rapporto tra loro.

 






Tutto al Pecci sembra congiurare per allontanare la città e per separare gli ambienti l'uno dall'altro. L'intervento di Nio parte da un punto di vista radicale: non è possibile mediare con un impianto distributivo così sbagliato, la sua soluzione può avvenire solo spostandone i problemi all'esterno e ricreando un nuovo contesto per l'intero museo. Tale contesto è proprio il recinto ad anello. Esso stabilisce innanzitutto un rapporto con il terreno portando le funzioni ricettive a contatto con il giardino, aprendole con una vetrata continua verso la strada e segnando così l'ingresso nel punto più visibile per coloro che arrivano da Firenze. Riconosce poi la natura sospesa degli spazi espositivi portando le nuove gallerie per le mostre temporanee nell'involucro di rame superiore ma offrendo un chiaro punto per salire ad esse attraverso una scala posta in prossimità dell'ingresso in uno spazio a doppia altezza. Propone poi diverse modalità di circolazione attaccandosi alle gallerie esistenti alle due appendici dell'anello e nel punto centrale di esso.



Gli spazi di Gamberini sono così polarizzati verso un esterno a sé che le rompe a metà e, parallelamente, le attacca sul perimetro permettendo diverse configurazioni espositive. L'anello può alternativamente essere separato dagli spazi che cinge, diviso a metà o, in quello che sembra lo schema più interessante, funzionare insieme ad essi in toto o in più parti. La circolazione interna e la possibile compressione o dilatazione degli spazi per mostre diverse si configurano quindi come passaggi e reciproci affacci tra il vecchio e il nuovo che si guardano attraverso gli esterni che l'anello lascia tra sé e le gallerie esistenti.

 

Pianta del piano terreno.


Pianta del primo piano.


Pianta della copertura.


Prospetto ovest.

In questo continuo ri-orientamento tutti gli spazi sono proiettati al di fuori di sé, divengono parte di una dinamica che rompe con l'isolamento esistente e propone relazioni multiple a seconda dell'occasione espositiva. Sembra quasi che Nio proponga di riscoprire ogni volta il Pecci in modo diverso ponendoci in un punto di vista che è parallelamente interno ed esterno al museo. Tale proiezione continua coinvolge l'architettura in una logica dello sguardo che ben si adatta all'informalità delle esposizioni d'arte contemporanea le quali troveranno qui spazi e percorsi mai neutrali. Sia la circolarità dell'anello sia le penetrazioni nelle gallerie esistenti sono infatti prive di una gerarchia spaziale definitiva, non hanno centro né termine. La dinamica distributiva del progetto si pone in relazione dialettica con l'aspetto protettivo del recinto ad anello che sembra proteggere in modo quasi difensivo il museo dall'esterno. La struttura esistente si pone, nelle parole di Nio come "il palazzo imperiale di Tokyo, visibile a tutti, ma inaccessibile". Questo, tuttavia, aiuta a smitizzare la monoliticità dell'istituzione e a coinvolgerla in un gioco multiplo di interpretazioni. Il brutto edificio esistente è trattato come un objet trouvé (come nella prima delle attitudini d'intervento sui musei suddette) quasi fosse un oggetto prezioso da mettere in teca. Si può leggere questa paradossale monumentalizzazione come un ironico gioco di straniamento che prende una struttura modernista antirappresentativa e la rivela per quello che è: un'istituzione di potere che delimita e protegge dei beni, le opere d'arte.

Tale duplice isolamento è, tuttavia, apparente ed esso è rovesciato una volta entrati: l'anello propone una promenade variegata che rompe le differenze affermate precedentemente. I percorsi fanno vedere i diversi spazi, attraversano l'esterno e l'interno costruendo un paesaggio di molteplici contenitori aperti che sembra più in sintonia con la strategia di disseminazione (quella di Holl al Nelson-Atkins) che con quella dell'involucro monolitico. In questa opposizione tra immagine e dinamica spaziale, il progetto di Nio può essere anche letto come un monito a penetrare dietro alle apparenze, a usare il museo non come contenitore di consumo ma come spazio pubblico interattivo capace di rompere le differenze e di smitizzare le istituzioni (e, bisogna dirlo, Il Pecci avrebbe proprio bisogno di un intervento di svecchiamento anche nella strategia curatoriale se vuole proporsi come la più importante istituzione d'arte contemporanea in Italia...). Speriamo che la scelta spaziale proposta dal progetto possa affiancarsi ad una parallela programmazione espositiva che inviti ad esplorare gli spazi, vecchi e nuovi, con occhi ogni volta nuovi. È questa la strategia della sorpresa suggerita dal progetto; è questa la condizione per fare vivere un museo nel tempo.

Pietro Valle
pietrovalle@hotmail.com
NIO ARCHITECTEN. Sensing the Waves

Progetto di estensione e di rifunzionalizzazione del Centro per l'Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato.

progettista:
Maurice Nio (NIO architecten)

design team:
Joan Almekinders, Emanuela Guerrucci, Maurice Nio, Giuseppe Vultaggio

analisi geologiche:
Controlli Sicurezza Ambientale sas, Damiano Franzoni - relazione geologica di fattibilità

sicurezza
Studio Tecnico dott. Ing. Dante Di Carlo - parere di conformità antincendio

strutture
Ingenieursbureau Zonneveld

costo
€ 9.000.000

dimensioni
superficie totale: 2934,7 m2
piano terra: 1044,7 m2
primo piano: 1890 m2

tempi
progetto: 2006
inizio dei lavori: 2007
termine dei lavori: 2010
Maurice Nio (1959) si è laureato cum laude come architetto nel 1988 presso la Facoltà di Architettura della University of Technology di Delft con il progetto per una villa per Michael Jackson, il più singolare progetto di tesi di quell'anno. Tale progetto è stato di vitale importanza per la formazione del suo modo di lavorare ibrido. Attraverso un misto di processi mentali al tempo stesso mitologici e pragmatici, di strategie di progetto criptiche e allo stesso tempo completamente trasparenti, egli ha realizzato progetti con BDG Architekten Ingenieurs (1991-1996), come ad esempio l'enorme inceneritore di rifiuti aviTwente. Con VHP stedebouwkundigen + architekten + landschapsarchitekten (1997-1999) ha realizzato il Zuidtangent, la più estesa linea di trasporto pubblico ad alta qualità in Europa. Dal 1 gennaio del 2000 egli opera con il proprio studio NIO architecten e attualmente sta lavorando per lo shopping center più bello del mondo e per la più oscura casa galleggiante in Olanda. Maurice Nio ha tenuto molte conferenze nel suo Paese e all'estero, ma ha deciso che non gli interessa più insegnare nelle scuole d'arte, nelle accademie, nelle università. Vuole invece progettare libri, o realizzare la sua ottava produzione video, oppure scrivere ancora articoli su sviluppo urbano, architettura, film, video, televisione, fotografia o danza. I suoi libri You Have the Right to Remain Silent (1998) e Unseen I Slipped Away (2004), così come la mostra SNAKE SPACE, sono stati un successo.
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