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Intervista a Dan Graham

Pietro Valle



[in english] Pietro Valle incontra Dan Graham nel suo studio a New York. In esclusiva per ARCH'IT, l'artista americano parla dei temi che ha esplorato durante la sua carriera: l'intersoggettività, lo specchio e il doppio, lo sfalsamento temporale nel video e nelle performances, le relazioni tra soggetto e oggetto nello spazio, gli edifici di vetro, l'alternanza tra trasparenza e riflessione nei suoi padiglioni, l'allegoria letta attraverso l'architettura, i sistemi di controllo, le forme comunicative effimere e la musica rock. Un'analisi a trecentosessanta gradi di un testimone inquieto del nostro tempo.




Dan Graham. Dia Art Foundation, 2000.
PIETRO VALLE: Cominciamo con il tema della dualità trasparenza/riflessione nei tuoi padiglioni, la dispersione del confine tra osservatore e osservato, un'idea presente anche nei tuoi video e nelle performances.

DAN GRAHAM: Mi interessa l'intersoggettività, esplorare come una persona, in un determinato momento, percepisca contemporaneamente sè stessa, guardi gli altri e sia osservata da questi. Quando avevo quattordici anni lessi L'Essere e il Nulla di Jean Paul Sartre e mi resi conto di come da piccoli sviluppiamo la nozione di Ego nel momento in cui ci sentiamo osservati da altre persone. Da giovane, diressi per un breve periodo una galleria d'arte, la John Daniels, in cui esposi agli inizi degli anni Sessanta alcune tra le prime sperimentazioni del Minimalismo. Di quell'arte si diceva che voleva operare secondo rapporti di oggettività e quindi, in opposizione, nel mio lavoro decisi di mostrare il punto di vista soggettivo dello spettatore. Inoltre mi interessava il rapporto tra la percezione di gruppo e quella di un singolo osservatore che contempla e ha il tempo per meditare.

Tuttavia non hai iniziato a lavorare su queste relazioni con interventi ambientali, bensì con performances e video.

[15may2002]
Ho cominciato con il video perché, quando insegnavo al Nova Scotia College of Art, questo tipo di strumentazione era facilmente accessibile agli studenti e inoltre, nel periodo in cui si sviluppò la video art, il filmare gli eventi era una pratica impiegata in molti curriculum educativi come, ad esempio, nelle facoltà di psicologia. Mi interessavano molto le terapie di gruppo che gli psicologi andavano sperimentando verso la fine degli anni Sessanta, come Instant Karma oppure Primal Scream. Quand'ero in Nova Scotia, feci un'opera chiamata Two Consciousness Projection(s) in cui c'era un monitor, una donna seduta che lo guardava e un uomo posto dietro ad esso che la filmava con una telecamera. L'uomo guardava la donna attraverso la telecamera, la donna l'immagine di sé stessa proiettata nel monitor. Chiesi a entrambi di descrivere simultaneamente quello che vedevano al pubblico che circondava la performance. Gli spettatori percepivano che la donna, la quale faceva uno sforzo per relazionarsi alla propria immagine, descriveva una situazione molto più prossima alla realtà dell'uomo che confrontava una presenza oggettiva, posta di fronte a lui. Creando un campo di interferenze asimmetrico, questo esperimento cercava di mettere in discussione il cliché che due persone, quando si incontrano, proiettano la propria coscienza l'una sull'altra.

A che punto prendesti in considerazione lo specchio?

Innanzitutto attraverso lo Strutturalismo. Mi interessavano Levi-Strauss e soprattutto Sartre e la sua idea della compenetrazione tra due ego. Inoltre c'erano tutta una serie di studi psicanalitici americani che analizzavano le relazioni tra schizofrenia e percezione.

La dualità tra trasparenza/vetro e riflessione/specchio è diventata il tema ricorrente del tuo lavoro. C'è un momento preciso in cui iniziasti questa ricerca o è una conseguenza quasi spontanea dei precedenti interessi sviluppati con le performances e i video?

Quando lavoravo con il video mi resi conto che esso, con lo slittamento temporale tra registrazione e proiezione e con la giustapposizione di spazi diversi, rimpiazzava in architettura il vetro della finestra prospettica rinascimentale e così cominciai a sovrapporre video, vetro e specchi. Inoltre il time delay del video permetteva di eliminare l'istantaneità della finestra prospettica bloccata sul tempo presente.

C'era in ciò una critica dell'apertura della finestra prospettica rinascimentale e del suo impianto gerarchico tra osservatore, piano di proiezione e oggetto?

Dan Graham (Urbana, Illinois, USA 1942) è una delle principali figure della tendenza concettuale emersa alla fine degli anni Sessanta a New York. Una grande mostra retrospettiva dell'opera di Graham dal 1965 a oggi sta viaggiando l'Europa e aprirà al Kiasma di Helsinki in maggio dopo aver viaggiato al Museu de Arte Contemporanea de Serralves a Oporto, al Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris e al Kroller-Müller a Otterlo. Oltre a essere stato presente in varie mostre in Italia, Dan Graham ha recentemente realizzato un padiglione di vetro, Bisected Two-Way Mirror Triangle, nel parco d'arte del collezionista Egidio Marzona a Villa di Verzegnis in provincia di Udine.


Bisected two way mirror triangle, 1998.
Certo, cercavo di uscire dal fuoco fisso, dal punto di fuga. Con il video, quando ti muovi nello spazio, non hai bisogno di ancorare le cose a punti fissi, nella prospettiva invece sì. Inoltre, il time delay è legato agli stati di allucinazione provocati dalle droghe in cui tu reinserisci nel presente quello che hai appena fatto muovendoti in una sorta di spazio-tempo mentale. Successivamente cominciai a interessarmi alla teoria di Walter Benjamin del tempo appena trascorso e cercai di relazionare il passato prossimo al presente attraverso il video.

Parli della teoria di Benjamin di esplorare le manifestazioni culturali appena trascorse elaborata in Parigi, Capitale del XIX secolo?

Sì, del suo interesse per le forme effimere scomparse quasi istantaneamente e della loro influenza sul presente, come nella canzone dei Rolling Stones Yesterday Papers: "Chi vuole i giornali di ieri?" Benjamin dice che i giornali di ieri sono importanti. Basta guardarsi intorno: nelle forme culturali odierne ci sono tutta una serie di revival, il neo-anni Cinquanta, il neo-anni Settanta in cui si dimenticano completamente gli anni che stiamo vivendo.


Bisected two way mirror triangle, 1998.

Cosa pensi della teoria di Benjamin della vetrina commerciale dei passages parigini, dove l'immagine riflessa dello spettatore si sovrappone a quella della merce esposta provocando un identificazione?

Sono molto interessato a quest'idea. Quando feci l'opera Public Space/Two Audiences per Arte-Ambiente a Venezia nel 1976, mi resi conto che la Biennale funzionava come le esposizioni universali dell'Ottocento: ci sono le diverse nazioni e un padiglione per ogni paese che mostra i suoi due o tre artisti principali. Invece dei prodotti commerciali, qui hai il mondo dell'arte che diventa merce esposta. Quello che volevo fare era mettere lo spettatore nella posizione della merce e così creai una stanza rettangolare e la divisi in due con una parete di vetro isolata acusticamente. Sullo sfondo di una delle due metà vi era un piano interamente di specchio, mentre dall'altra parte c'era un semplice muro bianco. Se entravi e ti trovavi solo, era come essere all'interno dell'arte Minimalista ma appena c'era più di una persona, il pubblico da un lato del vetro diveniva l'immagine riflessa di quello dall'altra parte. Le persone che entravano nella metà con lo sfondo specchiante potevano volgersi verso di esso e guardare se stesse riflesse mentre contemporaneamente interagivano sia con le persone dal loro lato che con quelle dall'altra parte; alternativamente potevano voltarsi e guardare il pubblico oltre il vetro verso il muro bianco senza vedere il proprio doppio. Le persone poste nell'ambiente con il muro bianco guardavano prevalentemente verso lo specchio vedendo se stesse riflesse in lontananza al di là di coloro che stavano dall'altra parte. Tuttavia, a coloro che stavano dalla parte del muro bianco, il vetro divisorio rimandava anche un'immagine riflessa fantasma creando un doppio rispecchiamento oltre allo spaesamento generato dalla continua inversione tra chi è osservatore e chi è osservato. Mi resi inoltre conto che questo apparato avrebbe funzionato benissimo a Venezia perchè gli italiani sono molto retorici e quindi i due gruppi, isolati acusticamente l'uno dall'altro, avrebbero cercato di comunicare visivamente con gesti.

Dunque troviamo l'impiego dello spazio pubblico come teatro sociale.


Two adjacent pavilions, 1978-81.
Esatto! In seguito sviluppai dei padiglioni completamente vetrati perché pensavo che quest'opera era troppo facile, diventava una scenografia e il muro richiamava troppo il "cubo bianco" neutrale del museo. Così decisi di liberarmi della parete e di trasformarla in una finestra aperta.

Public Space/Two Audiences aveva un unico diaframma, una sola interfaccia, mentre i padiglioni di vetro ne hanno molteplici.

Volevo integrare lo spazio esterno nel dialogo visivo e, liberatomi del muro, feci Alterations to a Suburban House e i primi Two-Way Mirror Pavilions, cercando di proiettarmi sul paesaggio circostante.

Molti dei tuoi padiglioni impiegano angoli non ortogonali tra i vari fronti cosicché i rispecchiamenti o le aperture sono assolutamente imprevedibili. Lo spettatore è disorientato e non sa mai esattamente se ritroverà la propria immagine o quella degli altri. Che ragioni ci sono dietro a questa strategia dello straniamento spaziale? È emersa sin dagli inizi nel tuo lavoro o è un'elaborazione recente?

La topologia fu uno dei maggiori interessi degli artisti che precedettero il Minimalismo alla fine degli anni Sessanta e anch'io ne fui influenzato nei miei primi video e performances. Mi attraeva la continuità tra opposti, l'idea di una condizione che approssimava il nastro di Moebius. Per esempio, feci un video intitolato Past Future Split Attention in cui, a due persone che si conoscevano, vennero date istruzioni: una poteva solamente predire il futuro dell'altra mentre questa, contemporaneamente, doveva riferire il passato di colui che gli stava di fronte. Se uno prospettava qualcosa di negativo sul futuro dell'altro, questi probabilmente diceva cose molto spiacevoli sui trascorsi del suo interlocutore e così le due persone erano indissolubilmente legate in un incessante loop di passato, presente e futuro. Se così era per il tempo, nei miei padiglioni mi orientai verso configurazioni curve e anamorfiche, tentando di trasformare lo spazio Minimalista in Barocco. In questo percorso di ricerca, cominciai ad interessarmi anche agli edifici progettati per ospitare uffici. Si può dire che il mio lavoro imiti e contemporaneamente critichi l'uso del curtain-wall nei grattacieli direzionali. Negli anni Novanta, le facciate di questi edifici sono diventate progressivamente più curvilinee e riflettenti, avvicinandosi a una sensibilità Barocca.

Nei tuoi scritti degli anni Settanta, sei stato tra i primi a evidenziare come la trasparenza dei curtain-wall nei grattacieli dell'International Style sia un apparato retorico. Hai denunciato come la loro apparente apertura visiva nasconda in realtà un'opacità dei meccanismi di potere che si celano dietro le facciate, generando così uno sguardo differenziato per chi guarda da fuori e chi si nasconde dentro.

Penso di essere stato influenzato dall'attacco che Robert Venturi sferrò all'estetica di Mies van der Rohe in quegli anni. Tuttavia, più approfondivo le ragioni di questa critica, più scoprivo la bellezza dell'ottica di Mies. Così tentai di far interagire Mies e Venturi, due opposti. Alterations to a Suburban House è una combinazione della Casa Farnsworth e dell'inflessione della facciata verso gli edifici circostanti presente nei primi edifici di Venturi, nonché del suo uso del tipo della casa unifamiliare suburbana.


Two way mirror hedge labyrinth, 1991.

Hai fatto anche un progetto intitolato Video Projections Outside Home in cui hai giustapposto a una villetta suburbana un grande schermo video che proietta nella strada le immagini televisive che vengono guardate nella casa. Come vedi l'interazione tra architettura e video? Di solito li troviamo sotto forma di telecamere a circuito chiuso in vari spazi pubblici.

La sorveglianza attraverso il video divenne molto importante negli atri e nelle plazas coperte degli edifici corporate negli anni Ottanta dove potevi trovare la ricostruzione di un idillico paesaggio arcadico racchiuso in una serra e controllato da telecamere. L'idea era quella di rendere il centro delle città sicuro come i quartieri suburbani e il modo per ottenere questo era attraverso l'impiego di una rete segreta di sguardi generati dai circuiti chiusi. Oltre ai giardini d'inverno, le grandi industrie e le società finanziarie adottarono alla fine degli anni Settanta il vetro a riflessione differenziata (Two-Way Mirror Glass: specchiante da un lato e trasparente dall'altro) nei curtain-wall perché cercavano, riflettendo il cielo, di relazionarsi all'ecologia in un momento in cui venivano criticate per la distruzione della natura. Tutto ciò creava in realtà una situazione di controllo visivo per cui coloro che erano all'interno potevano sorvegliare chi era fuori senza essere visti e chi rimaneva per strada vedeva solo un'immagine riflessa di sé.

Questa trasformazione rimpiazzava completamente la trasparenza Miesiana con un'opacità a un'unica direzione.

In questo senso i miei padiglioni sono utopici perché permettono di vedere la trasparenza e la riflessione contemporaneamente da entrambi i lati delle pareti. Uso il vetro a riflessione differenziata con cui oggi si può controllare la percentuale di rispecchiamento su entrambi i lati e spesso, se ci sono sdoppiamenti multipli, mantengo la riflessività bassa in modo da mescolarla con la trasparenza. Tuttavia il rapporto tra le due dipende anche dalle condizioni del cielo e della luce esterna, anzi cambia continuamente e questo crea una condizione di paesaggio delle mie architetture. Il Padiglione di Barcellona di Mies è qualcosa di simile, è un'analogia paesaggistica. Mies si riferisce alla tradizione del giardino pittoresco inglese, a un percorso continuamente mutevole. Quando uno cammina all'interno del padiglione vede la propria immagine riflessa nei piani di pietra lucida, nelle superfici vetrate, nella vasca d'acqua.


Bisected two way mirror triangle, 1998.
Il paesaggio sembra interessarti sempre di più. Tuttavia c'è una differenza tra il landscaping, inteso come produzione di aree specializzate nella cultura suburbana (spesso zone cuscinetto segreganti) e il paesaggio che tu cerchi di dischiudere con i tuoi padiglioni.

Nel mio Two-Way Mirror Hedge Labyrinth combino i muri di siepe che trovi nei labirinti dei giardini barocchi con il vetro degli edifici a uffici. Quel padiglione appartiene alla casa di un collezionista e la siepe continua la recinzione del giardino esistente. La siepe è diventata ormai un mezzo di definizione del confine tra pubblico e privato nella cultura residenziale unifamiliare. Io cerco di mescolare elementi della città giardino con quelli del centro terziario ma in modo diverso dalle hall dei grattacieli che imprigionano il verde al loro interno.

Come consideri la tradizione pittoresca del giardino anglosassone e quella barocca?

Il giardino inglese era un'allegoria filosofica e politica. Quando ho iniziato a costruire strutture nel paesaggio con i Two Adjacent Pavilions, ero interessato all'allegoria filosofica: i due padiglioni erano come due ego che si riflettono l'uno nell'altro. Erano stati costruiti per Documenta a Kassel ed erano relazionati ad un edificio barocco, la sede della mostra. Li avevo riferiti ad Amalienburg, il padiglione costruito da Francois Cuvilliés a Monaco e parte del complesso di Nymphenburg. La cosa più interessante di questo casino di caccia era la sala degli specchi dove le finestre proiettavano l'esterno sui pannelli riflettenti interni che così moltiplicavano entrambi gli ambienti. C'erano delle foglie argentate che decoravano gli specchi: quando il re arrivava, le finestre venivano aperte e la luce li tingeva di riflessi dorati. Questo simboleggiava la capacità del re di tramutare l'argento in oro. Allo stesso modo, le facciate riflettenti dei grattacieli trasformano il vetro in un'immagine del cielo. Sono entrambi rappresentazioni di potere e io sono particolarmente interessato a queste forme allegoriche.

L'architettura recente sembra aver riscoperto l'Arte Concettuale e Postminimalista. Cosa pensi dell'appropriazione di idee e temi di quel periodo?

  Rem Koolhaas usa il vetro a riflessione differenziata e le telecamere con il time delay nei camerini del suo negozio di Prada su Broadway. Quello che sta facendo è un theme park dell'arte degli anni Ottanta riducendola a decorazione d'interni. Tematizza tutto, fa come Disney. In ciò è molto vicino a Philip Johnson: crea facciate per il potere economico che appropriano idee provenienti da altri contesti e autori. È un perfetto architetto capitalista, molto più intelligente di Johnson ma ugualmente interessato al potere.

Inversamente, certa arte recente fa riferimento all'architettura.

Non ne vedo molta. Probabilmente mi interesso più all'architettura in sé che agli artisti che la citano.

Tra i progettisti contemporanei, chi ti ha colpito?

Mi interessa il lavoro di Shigeru Ban e il suo riproporre una dimensione ecologica in architettura. Si occupa della riqualificazione di aree degradate, dell'integrazione della natura nelle abitazioni del centro città. Ci sono dei riferimenti ai primi lavori di Emilio Ambasz ma, mentre questi creava una rappresentazione post-Superstudio, Ban è un vero architetto che costruisce. Inoltre si relaziona a un'ingegneria leggera come quella di Frei Otto e riusa i materiali di scarto in modo creativo. Mi piace anche il lavoro di Itsuko Hasegawa che si definisce una landscape architect e tuttavia usa materiali industriali e sintetici per creare paesaggi.

E l'uso del computer nell'architettura recente?

Penso che molta architettura generata con il computer sia superficiale e distante dalla realtà. Tutti si preoccupano delle rappresentazioni o, se sono strutture costruite, del fatto che appaiano belle sulle pagine delle riviste. Quando ho fatto il catalogo del mio padiglione alla Dia Art Foundation, ho preferito fare un video invece che fotografie. Il video, oltre a mostrare punti di vista continuamente mutevoli, parlava di New York negli anni Settanta e Ottanta perché il padiglione alla Dia combina elementi di entrambi i decenni, i primi spazi alternativi e le lobby dei centri finanziari. Volevo integrare questi due periodi come già trascorsi in senso Benjaminiano e così il video parlava del passato recente di New York. Oltretutto, il padiglione alla Dia, Two-Way Mirror Cylinder Inside Cube, relaziona la maglia ortogonale della planimetria di New York, lo spazio a trecentosessanta gradi delle torri dell'acqua sui tetti, la percezione corporea di chi cammina, la linea dell'orizzonte e il cielo.


Two way mirror cylinder inside cube, 1991.

Quando pubblicasti Homes for America nel 1966, eri tra i primi a focalizzare l'attenzione sugli spazi della periferia, sui non-luoghi, invisibili e di scarto, temi questi che negli ultimi anni hanno attirato l'attenzione di architetti e urbanisti. Che intenzioni avevi allora e come le vedi alla luce del tempo trascorso?

Sono cresciuto nel New Jersey e sono sempre stato interessato agli insediamenti seriali. Quando avevo la John Daniels Gallery fui tra i primi a organizzare una mostra di Sol LeWitt e mi resi conto che quello che Sol stava (ri)facendo era la maglia ortogonale di New York. In quel periodo lavorava da I.M. Pei e quindi reiterava nell'arte la geometria dell'architettura modernista. Nello spesso periodo, lessi anche un articolo di Donald Judd su Arts Magazine che parlava dell'impianto urbano di Kansas City che era basato su un piano urbanistico della fine dell'Ottocento. In seguito Judd si trasferì nel New Jersey e mi accorsi che anche lui usava materiali delle facciate suburbane nonché procedure derivate dalla lettura delle città. Mi chiesi quindi perché non potevo fotografare tutto ciò, la suburbia, il vero materiale originale. Nel 1966 stavo anche leggendo La Modificazione di Michel Butor, il capolavoro del Nouveau Roman francese, che parlava della città come di un labirinto. Tutto ciò era molto più interessante del cubo bianco delle gallerie e mi resi conto che potevo relazionare l'arte all'impianto delle città e dei suburbs. Questo è il segreto dell'arte Minimalista che non viene mai menzionato e che è stato soppresso dai suoi stessi autori: la pianta della città. Relazionarsi al tessuto urbano è anche il segreto della buona architettura. Tafuri ha scritto un'acuta critica del singolo edificio che sorge da solo come un'utopia che si oppone a tutte le altre architetture e finisce per diventare un oggetto di consumo.


Two way mirror cylinder inside cube, 1991.

Negli ultimi anni ti sei concentrato prevalentemente sui padiglioni o hai lavorato a qualche altra forma di intervento artistico?


Yin-Yang, 1997.
Ho recentemente progettato due piscine. Una andrà in un edificio di Steven Holl, un dormitorio al Massachussets Institute of Technology: si chiama Yin/Yang ed ha per la parte femminile, lo Yin, una superficie d'acqua e per l'altra, lo Yang, una distesa di ghiaia bianca, un po' come un giardino zen senza le pietre. Una parete curva di vetro a forma di "S", il simbolo dello Yin/Yang, divide le due aree e il tutto vuole essere una parodia della New Age. I vetri curvi permetteranno incredibili effetti ottici: ce ne saranno ben due: un semicerchio che contiene l'area con la ghiaia e il suddetto divisorio sinuoso. Le persone potranno entrare nel recinto tra le due curve e camminare sulla ghiaia; saranno circondate da effetti anamorfici sia all'interno che all'esterno. Ho anche fatto Swimming Pool/Fish Pond una piscina integrata con un acquario. Ci sono un recinto circolare e una parete curva, entrambi di vetro specchiante. Quest'ultima divide un'area più grande per la piscina dal rimanente per i pesci. Una rampa obliqua di legno permette ai nuotatori l'accesso al bordo della piscina e al trampolino: sotto di essa c'è un caffè in cui gli spettatori possono guardare attraverso il vetro e sovrapporre i nuotatori, i pesci e la propria immagine riflessa dal divisorio convesso.

Oltre all'architettura, fai ancora video?


Public space-2 audiences, 1976.
Oggi le tecnologie sono troppo costose. Lavoravo con il video quando potevo creare il time delay operando su nastri con un equipaggiamento analogico. Con il digitale, tutto è diventato prezioso e specialistico. Mi piaceva il video quando era nuovo e amatoriale: infatti mi considero più un artista dilettante che un vero professionista.

L'immediatezza permessa dalle prime telecamere, quelle dei film casalinghi, ebbe un effetto liberatorio per molti artisti negli anni Sessanta. Oggigiorno il video ritorna ad essere esclusivo perché è completamente manipolato dalla post-produzione.

Si occupa dello spettacolo e l'artista, invece di produrre lo spettacolo, dovrebbe smontarlo.

Parliamo del tuo interesse per la musica popolare. Tu sei stato un critico che ha scritto recensioni su argomenti diversissimi che vanno da Dean Martin al Country, dal Punk alla New Wave. Che cosa ha a vedere tutto questo con la ricerca visiva e sociale?

Quando facevo gli interventi artistici sulle riviste commerciali mi interessavano le forme comunicative istantanee, che trattavano di cliché e che potevano essere scartate una volta usate: forme brevi, forme pop.

Questo ti ha avvicinato alla musica popolare?

La musica influenza il tuo pensiero: Sol LeWitt si è interessato alla classica, io ho avuto idee ascoltando i Kinks e il Rock ‘n' Roll ma anche compositori come Steve Reich e Terry Riley.

Qual è la tua opinione sulla musica Minimalista?


Swimming pool-fish pond, 1997.
Steve Reich è stato tra i primi a usare il time delay nella musica: ha approfondito certe idee di Terry Riley usando mezzi meccanici molto semplici per ottenere effetti come il phasing con registrazioni sfalsate temporalmente. Quello che mi piace dei primi lavori di Steve e di La Monte Young è che relazionavano il suono all'interiorità degli spettatori e all'ambiente architettonico: erano situazionisti. Pendulum Music, il pezzo di Steve con i microfoni che oscillavano dal soffitto è stato molto importante ma anche La Monte Young creava segnali sonori che emergevano dai muri: avevi l'impressione di essere contemporaneamente dentro l'architettura e all'interno della tua testa. I primi Minimalisti volevano relazionare il tempo interiore del corpo, la mente e l'ambiente.

Che relazione ha tutto questo con il Rock?

Un certo Rock a New York è stato molto influenzato da Steve Reich: The Feelies, Television, Sonic Youth. La struttura ripetitiva e gli sfasamenti sono simili, non ci sono sostanziali differenze. Tra due ore mi vedo con Kim Gordon, la bassista dei Sonic Youth. Mi piacciono i suoi articoli e voglio incontrarla per spiegarle come comunicare le sue idee attraverso la scrittura. Kim ha scritto alcune delle più belle recensioni sulla nuova arte prima di unirsi ai Sonic Youth. A un certo punto io ho pubblicato un articolo intitolato New Wave Feminism sul rock suonato dalle donne; lei ha risposto con Male Bonding and Trash Drugs, un testo sul cameratismo maschile nei gruppi musicali. Ha poi pubblicato su Artforum le prime recensioni di artisti come Mike Kelley, Raymond Pettibon, Tony Oursler, Jeff Wall e Glenn Branca.

Questi scritti sono raccolti in qualche pubblicazione?

No, sono sparsi su vari giornali.

Forse tu potresti curarne una raccolta.

Io non ho potere ma loro, i Sonic Youth, hanno potere: il potere del successo.
> ARTLAND

la sezione Artland è curata da
Elena Carlini e Pietro Valle


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