Documenta
XI: Flatform News Ada Venié |
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Documenta,
la più importante rassegna internazionale d'arte contemporanea, ha recentemente
concluso a Kassel la sua undicesima edizione diretta dal nigeriano-statunitense
Okwui Enwezor. Ada Venié, giovane critica d'arte contemporanea che inizia
con questo contributo la sua collaborazione ad "Artland", ne traccia
un bilancio consuntivo in cui emergono le contraddizioni tra le ambizioni
di ricognizione del mondo post-coloniale e l'evidenza delle opere in
mostra. |
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Documenta-Kassel,
con la sua cadenza quinquennale, dal 1955 testimonia i mutamenti della
ricerca artistica internazionale, debitamente selezionata da figure
di curatori autorevoli, che sono anche responsabili del taglio critico
e teorico della rassegna. È stato così per l'edizione del 1968 curata
da Arnold Bode che riepilogò gli anni della Pop Art, o quella storica
del 1972 di Harald Szeemann, che sottolineò il ruolo politico e sociale
degli artisti, fino all'edizione del 1977, che sancì l'avvento dei nuovi
media (video, fotografia) ma anche di forme espressive come le performance,
la body art che testimoniavano un'attitudine comune fra gli artisti
del periodo. Okwui Enwezor curatore responsabile di questa Documenta
XI, assieme al suo team di sei collaboratori, ha voluto che il dibattito
teorico, solitamente in coda o in itinere rispetto alla manifestazione,
fosse invece anticipato di un anno, da tutta una serie di incontri e
simposi (Platforms) discussi in varie località del mondo (Vienna, Berlino,
New Delhi, S. Lucia, Lagos). David Small. |
[13nov2002] | |||
I
temi di quelle piattaforme ("Democracy Unrealized", "Experiments with
Truth", "Creolitè and Creolization", "Under Siege"), si sarebbero poi
riversati sulla manifestazione finale (Documenta XI), concepita come
Platform 5, luogo del precipitato artistico e del dato visivo di quel
dibattito planetario. Fin qui tutto bene: temi à la page e politicamente
corretti, confronto interdisciplinare ed esteso ad ogni latitudine del
mondo. Ciononostante e a scapito di un impianto così strutturato, a
Documenta quest'anno si è avvertita la contraddizione tra la dimensione
teorica del progetto e la sua risultante espositiva, vale a dire tra
la volontà di affrontare il dibattito internazionale nella complessità
dei suoi temi sociali, politici, economici (le quattro Platforms),
ed un percorso espositivo, che in realtà traduce solo in piccola misura
quelle complesse istanze. Così, nonostante l'ambizioso progetto del
curatore, questa Documenta XI finisce per allinearsi alla consuetudine
delle grandi mostre di richiamo, in cui si abdica ad un effettivo controllo
sulla qualità e l'unica vera ricerca perseguita è quella del record
di affluenza, degli sponsor illuminati, della quantità di spazi da raddoppiare,
come nel caso del Binding-Brauerei, ex fabbrica della birra, riconvertita
in sede espositiva con l'effetto di macro-alveare per decine di white
cubes stipati d'arte. In questi casi, quando la vastità di un'operazione
e la mediocre qualità delle opere impedisce la messa a fuoco di un giudizio
definitivo, si ricorre all'escamotage offerto dalla definizione di 'complessità',
categoria neutrale, che però contiene la valenza positiva di una seria
problematizzazione. |
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William Kentridge. Asymptote. Fréderic Brouly Bouabré. Tania Bruguera. |
Ma
la 'complessità', politica o sociale che sia, è materia da maneggiare
con cura, soprattutto quando la si vorrebbe risolvere attraverso l'arte,
che notoriamente azzera sempre la sua efficacia in presenza di eccessiva
entropia. In questi casi l'arte perde ogni originalità, e questo non
per una semplice reazione al dato complesso, ma perché il livello della
politica e della società possono al massimo essere la sua cornice, non
il suo soggetto. Ogni qualvolta l'arte si avvicina troppo alla politica,
si fa didascalica o involontariamente strumentale al gioco sociologico.
Lo sapeva bene il team di curatori (che, infatti, contemplava anche
un sociologo ed un esperto di cinema) che, per ovviare a questi rischi,
ha optato per un lungo elenco di artisti, suddiviso secondo giuste percentuali
di esordienti, nomi consolidati e vecchie glorie, con un risultato espositivo
assai labirintico, stipato di video-nicchie, intervallato da sale dedicate
ai maestri, e da tutta una gradazione di opere-testimoniali di questa
conflittuale age of globalization. |
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Ma come mai allora, a distanza di un mese del mio viaggio a Kassel,
di tutti questi materiali ricordo solo il video di Kutlug Ataman, che
in fondo non mostrava le ingiustizie e i mali della società, ma delicatissimi
bulbi floreali e il mondo meraviglioso di una botanica monomaniaca?
E come mai ho gradito così tanto la materia solitamente un po' ostica
delle installazioni più concettuali (Thomas Hirschhorn, Luis Camnitzer,
Bodys Kingelez)? Forse il frastuono di troppi reportages e video-art-inquiry,
per contrasto, hanno fatto risaltare un inusitato aspetto di semplicità
scultorea anche nelle installazioni più ermetiche. Dalla cucina spettrale
di Mona Hatoum, all'incubo disco di Wyn Evans, fino ai racconti incongrui
di Mark Manders, ci si sente stranamente rassicurati dall'evidenza dei
materiali, da interventi nello spazio che ci ricordano una modalità
figlia della pratica scultorea e quindi più familiare di tutti quei
campioni di ricerche extra artistiche o para-giornalistiche che evocano
troppo da vicino l'estetica televisiva di CNN. |
Simparch. |
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Come dicevo, non mancano anche i tributi alla generazione
anni '60 (Hanne Darboven, On Kawara, Dieter Roth), così in voga di questi
tempi, e qualche spazio celebrativo ai maestri del passato come il pittore
americano Leon Golub, o l'onnipresente Louise Bourgeois. Tutti artisti
di cui non si discute la qualità, ma piuttosto la scelta di non dedicare
loro delle retrospettive a latere, così da toglierli da letture forzose
e dare maggior respiro al percorso espositivo. Eppure Okwui Enwezor
ci aveva fatto ben sperare con la mostra "The Short Century", dedicata
all'arte contemporanea africana e considerata da tutti un possibile
anticipo di quello spirito engagé che si sarebbe poi ritrovato anche
in questa Documenta XI. Inizialmente, infatti, era parso che i temi
delle 4 Platforms, avrebbero continuato questo progetto di riscatto
delle periferie del mondo, di cui auspicabilmente avremmo visto non
il volto miserando e sconfitto, ma tutta l'energia che attraversa queste
latitudini, nonostante la loro posizione marginale e la parziale esclusione
dai circuiti commerciali. |
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Pascale Marthine Tayou. Nulla da obiettare contro la presenza di artisti che testimoniano il triste diagramma della società contemporanea, discuto solo la mancata indagine su un livello veramente artistico di questi temi, i cui risvolti estetici non necessariamente discendono dalla cronaca, ma possono risultare per tangenza da un discorso più generale sulla modernità e sul significato che questo termine in rapporto alle emergenze della società civile. Esiste un postmoderno africano? Quale valore ricopre la modernità in territorio asiatico? Che significato dare alla sensibilità dei video-artisti mediorientali o al 'nuovo collettivismo' (vedi i gruppi: "The Atlas Group", "Asymptote", "Multiplicity", "Igloolik Isuma Production", "Huit Facettes")? E che valenza dare al gioco ironico con gli standard dell'estetica occidentale operato da molti artisti extracomunitari (surrealismo africano, neo-concettuale cinese, neo-dada colombiano)? Documenta non deve essere il riepilogo delle Biennali che stanno proliferando nel mondo, ma deve riappropriarsi di un suo ruolo che la diversifica come manifestazione di maggior progettualità, la cui scadenza quinquennale deve poter consentire un impianto teorico di maggior spessore. Ada Venié adavenie@hotmail.com |
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