Dia:Beacon.
Il cimitero dei dinosauri Pietro Valle |
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Pietro
Valle visita Beacon, il museo d'arte contemporanea a nord di New York
dove la Dia Art Foundation ha collocato la più grande raccolta al mondo
di arte Minimal, Ambientale e Concettuale agli anni '60 ad oggi con
opere di enormi dimensioni. Ricavato in un manufatto industriale di
30.000 metri quadri, Dia:Beacon è un'operazione culturale spettacolare
ma ambigua. All'iniziale stupore per la qualità degli spazi e delle
opere, segue il dubbio se è necessario istituzionalizzare un'arte che
era fuoriuscita dai musei per affrontare l'ambiente. |
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Cubo
tutto luce bianco assoluto facce senza tracce nessun ricordo. Sempre
e soltanto aria grigia senza tempo chimera la luce che passa. Grigio
cenere cielo riflesso della terra riflesso del cielo. Sempre e soltanto
questa fissità immutabile sogno l'ora che passa. Samuel Beckett, Senza |
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Minimal,
Land Art, Concettuale: c'è bisogno di spazio per esporre la grande
arte ambientale degli anni '60 e '70. Non è spesso possibile
vedere una concentrazione di opere di questi movimenti a causa della
loro scala e sostanziale mancanza di mobilità. Un singolo museo
non riuscirebbe a contenerle tutte. Che fare? La Dia Art Foundation
di New York ha deciso di fare un passo in avanti e di concentrare una
summa dell'ultima grande ondata monumentale della storia dell'arte in
uno stesso luogo. Ha acquisito un edificio industriale di 30.000 metri
quadri lungo l'Hudson ad un'ora di treno a nord di New York, l'ha restaurato
e vi ha concentrato un'impressionante serie di opere di grande scala
di sua proprietà (storiche) o specificatamente commissionate
per l'occasione (recenti). Ecco nato Dia:Beacon, Riggio Galleries, probabilmente
il più grande spazio espositivo per il contemporaneo esistente
al mondo. La lista dei presenti rappresenta la summa dell'arte cool
degli ultimi trent'anni. Ci sono gli americani in gran quantità
(tra altri: Flavin, LeWitt, Judd, Serra, Smithson, Nauman, Heizer, De
Maria ma anche Warhol e Chamberlain) e gli artisti di altri paesi, soprattutto
tedeschi, sdoganati dal mercato che conta di New York (Beuys, Richter,
Darboven, Kawara). L'insieme non offre una testimonianza completa dei
movimenti di quegli anni (spicca la mancanza di Morris, Andre, Long
e, in più, la commistione tra pezzi storici e recenti è
ambigua) ma, tutto sommato, che cosa importa? L'occasione per contemplare
una tale vastità nello stesso luogo non è mai accaduta
e forse non accadrà mai più. |
[23apr2004]
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Esterno dell'edificio, uno stabilimento della fine degli anni '20, con il giardino ribassato progettato da Robert Irwin. L'idea di rinnovare un edificio manifatturiero e di riempirlo di opere richiama immediatamente il topos della produzione dell'arte: lo studio dell'artista nel loft industriale, il luogo cui New York ci ha abituato da decenni e che ora non esiste quasi più, travolto dalla commercializzazione che ha scippato gli spazi operativi agli artisti. La traslazione di quest'aura perduta fuori dei centri di scambio della città si accompagna, tuttavia, a un diffuso senso di già passato: Beacon è un gigantesco accumulo della grandeur minimalista ma essa ha perso ormai il suo impatto, riposa neutralizzata nel verde dell'Upstate, storicizzata per sempre. Una volta accettata questa condizione di cimitero dei dinosauri (in un certo senso realistica per quest'arte, ormai da anni istituzionalizzata), si potrebbe pensare che Dia:Beacon ambisce a diventare un grande museo di storia naturale dal taglio quasi ottocentesco. La questione però si complica perché l'organizzazione dell'edificio riflette ambizioni divergenti. Gli ambienti originali, illuminati da sterminate sequenze di sheds, erano troppo grandi per essere utilizzati. Sono stati quindi divisi da partizioni. Vi sono perciò due tipi di spazi: delle grandi navate longitudinali che attraversano tutto il fabbricato e delle stanze chiuse che, quasi all'opposto, formano dei cul-de-sac isolati. Entrambe cercano di neutralizzare un percorso unitario: le navate tagliano velocemente l'intero museo e poi il visitatore, opportunamente fornito di mappa per orientarsi, deve tornare indietro per non perdere dei cluster di spazi isolati che ha saltato lungo la strada; le stanzette formano dei mondi a sé che cercano di isolarsi dal resto. Per quanto si sia cercata la diversificazione all'interno della bianca neutralità dell'interno, un effetto mnemonico d'insieme si viene inevitabilmente a creare passando e ripassando (involontariamente) per gli stessi ambienti. In ciò emerge un'altro desiderio inespresso di Beacon: quello di negare lo status di grande museo e voler sembrare una somma di gallerie d'arte che si visitano una alla volta. Vengono in mente quei gallery buildings che raggruppano diverse mostre e che si visitano a Chelsea (e si visitavano una volta a Soho e al Village) durante i giorni delle inaugurazioni: sono mondi simili ma vogliono coesistere paralleli. In ciò Beacon è nuovamente nostalgico: vuole evocare un sabato pomeriggio alle openings ma le riproduce in un ambiente artefatto. |
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Richard Serra, l'unico lavoro che produce tensione spaziale. Dan Flavin, isolato nelle navate. |
Sol LeWitt, in una delle piccole stanze. Questa organizzazione spaziale riflette l'ambigua posizione della Dia, fondazione basata nel mondo delle gallerie (e che beneficia proprio del sistema delle openings e dei season shows) ma che vuole differenziarsi da essi senza però diventare un museo istituzionale. Questa ritrosia a sporcarsi le mani col mercato (ipocrita) ma anche a definire una linea culturale univoca è presente anche a Beacon. L'idea di riprodurre l'effetto cumulativo delle gallerie fa emergere una doppia conseguenza: Beacon non è solo l'ultimo museo dell'ultima grande arte ma anche l'ultimo white cube, il celebrato vuoto neutrale reso famoso proprio dall'arte Minimal e Concettuale nel periodo d'oro delle gallerie di New York negli anni '60. Quest'arte aveva bisogno di muri che la racchiudevano per mostrare la sua tensione ambientale che presto sarebbe esplosa con la fuoriuscita dagli ambienti deputati alle mostre. Dia:Beacon riproduce quest'isolamento all'ennesima potenza e, infatti, le piccole stanze sono molto più riuscite delle grandi navate che, con il loro fuori-scala, distruggono anche le opere più forti. Mentre in alcune delle prime si può ritrovare una dimensione dialettica tra opera e ambiente (i pezzi di Serra sono troppo grandi per la stanza in cui sono posti ma il loro spingere lo spettatore contro i muri è molto più efficace della neutralità), le navate sono disastrose: i pezzi pavimentali di De Maria scompaiono nel vuoto e Flavin deve essere suddiviso con i suoi neon montati su incongrui pannelli posti nel centro del grande corridoio (come si può distruggere più efficacemente l'alone spaziale di queste opere di luce?). |
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Bruce Nauman, le sue istallazioni sono tutte nello scantinato. La progettazione della ristrutturazione di Beacon è stata affidata a un'inedita coppia artista-architetti, Robert Irwin e Open Office Architects, il primo è un bravo artista ambientale californiano ma non è certo incisivo nei suoi interventi di grande scala (vedi, ad esempio, il giardino del Getty con Richard Meier, un po' decorativo); i secondi sono dei corretti designers specializzati in impeccabili ristrutturazioni. Il risultato è ambiguo: Beacon vorrebbe essere un'occupazione spaziale che non tocca l'involucro esistente (evitando tuttavia l'espressionismo trash che mostra l'edificio in rovina come avviene nel Palais De Tokyo a Parigi) ma, allo stesso tempo, lo ripulisce di ogni accidente con una minuzia quasi maniacale. Si pensi che l'edificio non ha illuminazione artificiale ed è aperto fino alle quattro di pomeriggio per fare vedere le opere solamente con la luce naturale che filtra dagli sheds. Nello sbilanciamento tra incunaboli e grandi vuoti, Dia è una gigantesca rappresentazione di un certo mondo dell'arte, quello di New York, fatto di lofts, gallerie white cube e ambizioni alternative. Tutto è tuttavia livellato sul registro del monumentale, non su quello del concettuale e il luogo nell'insieme risulta inevitabilmente istituzionale. Anche le stanze più isolate non sono create dagli artisti ma allestite da un'astratta entità curatoriale: manca la tensione tra opera e spazio espositivo che Beacon vorrebbe evocare. Pochi, infatti, sono gli ambienti con opere bidimensionali a muro che si salvano: la stanza con i grandi pannelli grigi di Gerard Richter, il bianco su bianco di Robert Ryman e la serie di ombre colorate di Warhol. Nel livellare diversi artisti ai formati dei suoi tipi di stanze, Beacon penalizza soprattutto gli artisti concettuali, la cui opera è spazzata via dal confronto con i lavori di grande scala. Emerge prepotentemente come questo tipo di arte fosse fortemente legata alla situazione spazio-temporale specifica, alla sensibilità dell'artista a modificare l'ambiente con un lavoro paziente e sottile. Come possono personaggi come On Kawara o Lawrence Weiner essere equiparati a Serra o Judd? Sembra incredibile ma qui avviene. |
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Nel
riportare i grandi protagonisti dei movimenti degli anni '60 e '70 al
cubo bianco da dove avevano iniziato, Beacon nega anche il loro sviluppo
successivo e li tratta solo come classici da apprezzare in un contesto
già conosciuto e sicuro. In fondo, diversi artisti partiti dal
Minimalismo, sono approdati al paesaggio e al dialogo con luoghi più
complessi del puro ambiente espositivo modernista. Si pensi solo all'evoluzione
dell'opera degli artisti americani a contatto con il contesto storicamente
stratificato dell'Europa in parchi d'arte o esposizioni come Documenta
o Sonsbeek (un esempio tra tutti, è il lavoro di Sol LeWitt in Italia).
Dia:Beacon nega tutto questo ed erige un monumento alla via americana
all'arte con atteggiamento, tutto sommato, isolazionista. "Questa è
la grande dimensione", anzi: "Questa è l'ultima occasione per allestire
la grande dimensione" sembra dire Beacon. In questo atteggiamento vi
è l'eco di tutta una tradizione americana che fugge nell'individualismo,
nella frontiera, nel creare il vuoto attorno a sé. Questo isolarsi
nel paesaggio monumentale ha significati sinistri nel contesto contemporaneo.
Da un lato ricalca la politica americana dopo l'undici settembre con
il suo rifiuto di un dialogo internazionale. Dall'altro sembra ignorare
che la condizione artistica contemporanea è completamente cambiata e
non è più legata al cubo bianco, alla grande scala e all'egemonia di
New York sul mercato dell'arte. Oggi, con il multiculturalismo, i mezzi
di comunicazione immateriali e una scena artistica trasversale, operazioni
come Beacon risultano interessanti (soprattutto per offrire l'occasione
di vedere tali opere) ma anacronistiche. Vi è, inoltre, un'altra contraddizione:
gli americani hanno lasciato il Minimalismo negli anni '60 e non se
ne sono più occupati, sono gli europei che l'hanno rivalutato e ricontestualizzato
soprattutto negli ultimi dieci anni. Come mai New York ora si arroga
il diritto di riaffermarlo come cosa propria non condivisibile? Pietro Valle pietrovalle@hotmail.com |
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Le immagini che accompagnano questo scritto sono poche e non granché. A Dia:Beacon è vietato fare fotografie. Queste sono state scattate di nascosto con una macchinetta di cartone sfuggendo ai guardasala che controllano gli ambienti del museo. Per una migliore documentazione, si rimanda al sito www.diabeacon.org. [PV] | ||||
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