Matta-Clark
and Anarchitecture. Infinite letture per infiniti spettatori Sergio Mannino |
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Si
è recentemente conclusa alla Arthur Ross Architecture Gallery
di New York la mostra Gordon Matta-Clark and Anarchitecture: A Detective
Story, parte del programma di eventi, dedicati al lavoro dell'artista
americano, promosso dalla Graduate School of Architecture Planning and
Preservation (GSAPP) della Columbia University insieme al Canadian Centre
for Architecture, Montreal (CCA). Sergio Mannino ha seguito l'iniziativa. |
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Negli
ultimi trent'anni il curatore d'arte e di architettura è stato
di fondamentale importanza per capire gli andamenti di un mondo sempre
più frammentato e dispersivo. Egli ha analizzato una quantità
smisurata di "informazioni" provenienti dai più disparati
angoli del pianeta, da culture e discipline diverse e dai confini sempre
più confusi, le ha analizzate, assimilate e ripresentate con
una sua logica personale. Così facendo si è presentato
al pubblico con una propria filosofia ed una forte identità culturale,
politica e stilistica. |
[16apr2006] | |||
Splitting, 1974-75 - Gelatin-silver print collage 20"x30". Museum purchase: Elmer F. Pierson Fund, Terry and Sam Evans Fund. |
Negli
anni Ottanta Bonito Oliva affermava che il ruolo del curatore non era
più quello di mediatore tra il pubblico e l'artista, come era
stato in passato: questi è a tutti gli effetti un intellettuale
a caccia di idee, che si pone di fronte al pubblico a fianco e alla
pari dell'artista stesso. A conferma di questo, a volte è lo
stesso artista che si veste dei panni del curatore. I confini si fanno
sempre più labili e i ruoli traboccano da una figura all'altra.
Nel 1995 Brian Eno, in un'intervista a "Wired", scriveva: "Un artista oggi è un curatore. Un artista oggi è sempre più visto come una persona che collega delle cose [...] e dice: quello che mi appresto a fare è di focalizzare la tua attenzione su questa sequenza di cose. Se leggi la storia dell'arte fino a 25 o 30 anni fa, troverai che c'era una successione [...] come se una corona passasse giù attraverso le generazioni. Ma nel ventesimo secolo, invece di questa linea dritta, c'è improvvisamente un vasto campo di cose chiamate arte [...]. È difficile fare una semplice linea che connette queste cose. Ora, la risposta della prima arte moderna era: va bene, quello che facciamo è allargare la linea per includere un maggior numero di quelle cose che noi definiamo arte. Quindi c'è sempre una linea, ma è più larga. Ma quello che il pensiero Postmoderno suggerisce è il fatto che non c'è più una linea ma c'è un campo, un campo attraverso il quale persone differenti si rapportano in modo differente. Quindi non c'è più qualcosa che si chiama storia dell'arte ma ci sono più storie dell'arte. [...] Devi disegnare la tua linea. Questo è il motivo per cui il curatore, l'editore, il compilatore, l'antologista sono diventate figure così importanti. Sono persone il cui lavoro è quello di digerire cose e connetterle insieme." |
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Organizzare
una mostra significa quindi, secondo l'impostazione classica, presentare
lo studio di un gruppo di documenti o di opere secondo un filo logico
originale, ma pur sempre legato all'interpretazione di un singolo. Ma
se decidiamo di cambiare il ruolo del curatore -eliminando le sue interpretazioni
di documenti, disegni, appunti e fotografie- accettiamo che il lavoro
di un artista possa essere letto secondo sfaccettature diverse, forse
addirittura in infiniti modi, se infiniti sono gli spettatori. In questo
modo il pubblico si trova costretto a fare quel lavoro di connessione
degli elementi che il curatore gli aveva sempre proposto preconfezionato;
da spettatore passivo si trova a dover leggere, analizzare e infine
disegnare la propria linea di interpretazione degli eventi, filtrandola
con la propria esperienza personale. Proprio seguendo questa strada, l'Arthur Ross Architecture Gallery della Columbia University di New York ha presentato, dal 27 febbraio al 16 aprile 2006, la mostra Gordon Matta-Clark and Anarchitecture: a detective story, frutto della collaborazione tra Gwendolyn Owens, Philip Ursprung, Mirko Zardini e Mark Wigley. L'evento si propone di fare luce sul significato che la parola Anarchitettura aveva per Matta-Clark e il suo gruppo; sugli obiettivi, le speranze e gli interessi di questi artisti, e su come il loro lavoro si colleghi con quello che i singoli partecipanti avevano fatto fino a quel momento o avrebbero fatto in seguito. |
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Due delle 129 piccole schede in mostra. |
Una grande
bacheca al centro della stanza raccoglie parte dell'archivio di Matta-Clark,
o per lo meno i documenti più rappresentativi dell'esperienza
del gruppo: 129 piccole schede con altrettanti statement, vari
appunti, una serie di fotografie e alcuni schizzi, sempre di Matta-Clark,
che in qualche modo risultano legati al concetto di Anarchitettura.
Di volta in volta, durante la mostra, alcuni artisti, curatori e critici
raccontano la propria interpretazione dell'opera e dell'esperienza dell'Anarchitecture
Group. Le loro interviste possono essere ascoltate attraverso dei piccoli
monitor con cuffia posti su una delle pareti della sala. In una stanza
adiacente, un grande calendario attende di essere riempito di quei fatti
ed episodi, al momento sconosciuti, di cui fossero eventualmente a conoscenza
i visitatori. Inizialmente formato all'inizio del 1973 da Matta-Clark, Suzanne Harris e Tina Girouard, al gruppo si aggiunsero in seguito Laurie Anderson, Jene Hinghstein, Bernard Kirschenbaum, Richard Landry e Richard Nonas. Jeffrey Lew e Carol Goodden, compagna di Gordon nei primi anni Settanta e cofondatrice del ristorante-opera FOOD, parteciparono agli incontri saltuariamente, ma senza per questo esserne meno coinvolti. Trattandosi di persone già tra loro molto vicine, i meeting sono ricordati dai protagonisti come appuntamenti molto informali e dettati soprattutto dalla voglia di scambiarsi idee ed esperienze. Si riunivano in bar, nei ristoranti o nei loft-studio di Soho, luogo dimenticato di una città decadente e in piena crisi. Gli incontri andarono avanti ad una cadenza bisettimanale per circa 3 mesi e poi, in modo molto più saltuario, fino al marzo del '74. Erano tutti artisti giovani, attivi soprattutto a New York e vicini tra loro, oltre che per amicizia, anche perchè spinti da una potente voglia di "cambiare il mondo" (Richard Nonas). "Parlavamo dello spazio, di come lo spazio e i luoghi sottomettessero la nostra vita emozionale. Sentivamo gli architetti parlare dello spazio e dei luoghi ma poi, nel loro lavoro non trovavamo mai espressi questi concetti; trovavamo bellissimi dettagli, facciate sensuali... ma non vedevamo mai alcuna forte dichiarazione di tipo spaziale. Questo era il nostro interesse: il fallimento dell'architettura, non la promessa dell'architettura. Comunque la nostra non era intesa come una critica verso l'architettura, era più sull'assenza di critica verso questi concetti nella nostra cultura" (Richard Nonas). |
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Viste dell'esposizione. |
Liberare lo spazio architettonico dai suoi vincoli fisici e funzionali è anche uno dei motivi che spinge Matta-Clark ad aprire alla luce la casa in New Jersey, il Pier 52 o l'edificio parigino. Il gruppo, e Gordon in particolare, sembrano interessati a come lo spazio possa condizionare la vita delle persone. In queste riflessioni, un ruolo importante potrebbe avere avuto un articolo di Robin Evans dal titolo "Towards Anarchitecture", uscito nel gennaio 1970 nella rivista dell'Architectural Association di Londra. Non ci è dato di sapere se il gruppo ne fosse a conoscenza, ma l'analisi di Evans su come lo spazio architettonico possa vincolare o veicolare, in senso negativo o positivo, le azioni umane sembra troppo attinente ai temi del gruppo per essere passata del tutto inosservata. |
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Il
loro intento era quindi molto più astratto del tentativo di suggerire
alternative alla costruzione di spazi ed edifici. "Eravamo più
interessati, da un punto di vista metaforico, a vuoti, gap, spazi abbandonati,
luoghi non sviluppati... per esempio i luoghi dove ti fermi ad allacciarti
le scarpe, luoghi che sono un'interruzione dei tuoi movimenti giornalieri".
(1) "Molte delle cose che ho fatto che hanno un'implicazione architettonica sono in realtà sulla non-architettura, su qualcosa che è un'alternativa a quello che normalmente è considerato architettura" (Gordon Matta-Clark). Il lavoro di Matta-Clark può essere inteso come un tentativo di trasformazione dell'architettura in qualcos'altro, in un oggetto che ha qualità e funzioni diverse da quelle che, per convenzione, sono normalmente attribuite all'architettura. Big-go-ne By 1/9 THS, 1974, collezione Sergio Casoli. Un esperimento che va in una direzione analoga avviene, tra il '71 e il '72, in Minnesota dove Gianni Pettena realizza le Ice House I e II ricoprendo due case residenziali anonime, come Matta-Clark, con uno strato di ghiaccio. "L'operazione esplora le possibilità di interruzione o sfasamento della funzionalità architettonica. Gianni Pettena, diversamente da Matta-Clark che prelevava dei materiali dall'interno degli edifici, conserva l'integrità della costruzione. Ma, che si tratti di Matta-Clark o di Pettena, è la funzione dell'abitare che è ormai resa impossibile; lo spazio è irrimediabilmente de-costruito. (2) In ambedue i casi l'architettura è sdoppiata, si è introdotta una imprevista specularità tra la sua materialità e la sua costruzione fenomenica." (3) Alla fine dell'esperienza americana, nel 1973, Pettena pubblica L'Anarchitetto, portrait of the artist as a young architect, sottolineando il confine ormai labile tra l'arte e l'architettura. Il libro viene presentato a New York nel 1973, ma pur essendo certi che i due conoscessero il lavoro reciproco, non è sicuro che Gordon avesse letto il libro dell'architetto italiano. Sembra evidente comunque, anche alla luce dell'articolo di Evans, che un certo interesse verso lo spazio e il significato dell'architettura, fossero espressione di una elaborazione culturale senza confini. |
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Gordon Matta-Clark, Office Baroque, 1977. © Florent Bex en MuHKA. |
Gordon Matta-Clark era estremamente critico nei confronti degli edifici
di Kahn per il loro aspetto monumentale e per la loro assenza di ambiguità,
anche se li ammirava per il modo in cui veniva trattata la luce. Ma
scegliere un edificio abbandonato, entrarvi muniti di motoseghe capaci
di tagliare qualsiasi materiale, portare via varie porzioni di muri
e solai, lasciandole intatte con tutti gli strati di materiale che vi
si trovano, e infine andarsene lasciando l'edificio al suo naturale
declino, è un atto che ha del monumentale almeno quanto gli edifici
di Kahn. La monumentalità di Matta-Clark non rappresenta però
quella classica di un edificio che ha la pretesa di resistere alla storia
con tutta la sua imponenza e pesantezza fisica, come in Kahn, ma si
realizza attraverso la sua scomparsa, attraverso i suoi vuoti, come
un poetico omaggio a chi vi aveva vissuto. |
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Anche
se tutti gli edifici in cui Matta-Clark ha operato sono ormai scomparsi,
l'artista ha lavorato con cura affinché di essi rimanesse per
sempre una pubblica traccia attraverso immagini, filmati, disegni, collage
fotografici, appunti e soprattutto frammenti. "Tagliare come
un atto di conservazione. Tagliare un edificio anonimo vuol dire preservarlo
per sempre, e con esso la vita delle persone che vi hanno vissuto"
(Richard Nonas). Il periodo dell'Anarchitecture Group si concluse con una mostra in forma anonima presso la Galleria 112 Green Street, dove vennero esposte una serie di immagini e alcuni brevi scritti somma di tutte le discussioni e riflessioni dei mesi precedenti: l'immagine di un treno deragliato, una serie di 3 tombe di diverse dimensioni una accanto all'altra, una casa in legno trasportata su una barca lungo un fiume, un'impronta lunare e via di seguito. L'unica traccia di questa mostra è la pubblicazione di una doppia pagina sul numero di "Flash Art" del giugno '74. Nessuna recensione appare sulle riviste dell'epoca, né viene effettuata una documentazione fotografica dell'evento. La mostra è la prima e l'ultima apparizione pubblica dell'Anarchitecture Group e probabilmente da quel momento in poi i suoi componenti non si sono più incontrati come gruppo. Il loro lavoro prosegue però negli anni successivi nello stesso spirito, tanto che Richard Nonas arriva a definire il concetto di Anarchitettura come "la somma dei lavori di tutti i componenti del gruppo divisa per 8". Gordon Matta-Clark, Conical Intersect, 1975, 27-29 rue Beaubourg, Paris. |
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Nel
1977 il gallerista di Matta-Clark in Texas riceve una lettera di Frank
Gehry, interessato all'acquisto di una fotografia o di un'opera di Gordon.
Gehry è attento a tutto quello che avviene nel mondo dell'arte
e la sua architettura si colloca già in uno stadio intermedio
tra architettura e scultura. L'anno successivo Gehry acquista una casa
tradizionale degli anni Venti a Santa Monica ed effettua un'operazione
che ha delle similarità sorprendenti con l'opera di Matta-Clark.
Gehry taglia alcune porzioni della casa e le riassembla mescolandole
con materiali industriali. L'operazione, se da un lato sottolinea lo
stretto legame che unisce arte e architettura, dall'altro apre alla
possibilità che il lavoro di Matta-Clark venga trasformato in
un elemento stilistico, di fatto annientandone la forza. Gordon Matta-Clark Splitting, 1974. L'interesse di Gehry e di tutti coloro che seguiranno negli anni immediatamente successivi, insieme a quello rinnovato di una nuova generazione di giovani architetti, pone il rischio che delle sue opere venga letta soltanto la componente estetica e formale, tralasciando tutti i significati che ogni taglio racchiude. Questo perché "quello che [i giovani] cercano nell'Anarchitettura è tecnica architettonica o uno stile che è anti-convenzionale e anti-tradizionale. Con questa definizione Rem Koolhaas fa anarchitettura, [...] Frank Gehry fa anarchitettura" (Richard Nonas), chiunque rompa con il passato fa anarchitettura. Ma l'anarchitettura è la critica verso ogni dogma, verso ogni convenzione o certezza, verso ogni modo di vedere che sia univoco e assoluto. Essa è in continua evoluzione e quello che il gruppo contestava nel '73 non è certamente quello che contesterebbe oggi. Analizzare troppo a fondo l'opera dell'Anarchitecture Group può, in qualche modo, ucciderne l'anima stessa, perché ne uccide l'ambiguità e la carica polemica. Il timore è quello di "portare via ciò che di speciale c'è in quel lavoro, se sei troppo ossessionato con la qualità esatta di quell'oggetto" (Mark Wigley). Esporre l'archivio di un artista significa in qualche modo svelarne i segreti e i pensieri più profondi e, nel fare questo, il rischio di annullarne o ridurne il valore è indubbiamente grande, soprattutto se si tenta di fornire, come un detective, una spiegazione a tutto, cercare un colpevole e una verità. Ma se la connessione degli elementi viene fatta, come in questa mostra, da persone diverse e produce risultati differenti (com'è naturale che avvenga dal momento che la vita di una persona non può essere mai interpretata in un modo univoco), allora le letture saranno innumerevoli e le connessioni intricatissime. Una fitta rete di analogie, dubbi, riferimenti, contraddizioni e diversità riporterà tutto a quel limbo sfumato e inspiegabile che è l'esistenza umana. Sergio Mannino sergiomannino@hotmail.com |
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NOTE 1. Pamela Lee, Object to be destroyed. The work of Gordon Matta-Clark, The MIT Press, 2001, pag. 105. 2. Cfr. James Wines, Green Architecture, Taschen, 2000. 3. Marie-Ange Brayer, "Lettura del paesaggio nell'opera di Gianni Pettena", in Gianni Pettena, HYX, 2002. |
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Sergio Mannino (Firenze, 1969) si laurea in Architettura presso l'Università di Firenze con Remo Buti ed Ettore Sottsass progettando una serie di case monofamiliari a Varsavia. Insegna nel corso di Arredamento di Remo Buti dove ha l'opportunità di approfondire i temi dell'architettura degli interni e del design. Partecipa a diversi concorsi di architettura e di design e nel 2000 vince, insieme a Lucia Gori, il "Concorso di idee per il recupero dell'area ex-Longinotti" a Firenze. Nel 2002 presenta la sua prima personale presso la Galleria Postdesign di Milano, esponendo 9 mobili e 100 acquerelli. Il suo speciale interesse per la coesistenza di diverse culture e tradizioni nella societa' contemporanea, lo porta a fondare, insieme a Francesco Bruni e Federica Vannucchi il gruppo PLYM Studio, con il quale ha realizzato diversi concorsi e ricerche teoriche. Attualmente vive a New York, dove si occupa di architettura, design e grafica come partner di Studio63. | ||||