La
Conquista dell'Inutile di Werner Herzog Pietro Valle |
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"Come
la folle rabbia di un cane, che si ostina ad azzannare la zampa
di un capriolo ormai morto e insiste a scuotere e a tirare con
forza la selvaggina abbattuta, al punto che il cacciatore rinuncia
ad ogni tentativo di calmarlo, una visione si era radicata dentro
di me: l'immagine di un grande battello a vapore su una montagna – la
barca che si trascina tra i fumi grazie alla sua stessa forza,
risalendo un ripido pendio nel cuore della giungla e, in mezzo
a una natura che annienta senza distinzione i deboli e i forti,
la voce di Caruso, che riduce al silenzio il dolore e il clamore
degli animali nella foresta amazzonica e smorza il canto degli
uccelli. O meglio: le grida degli uccelli, perché in questa
terra, incompiuta e abbandonata da Dio nella sua ira, gli uccelli
non cantano, gridano di dolore, e colossali alberi intricati si
artigliano l'uno con l'altro come in una gigantomachia, da orizzonte
a orizzonte, tra le esalazioni di una creazione che qui non si è ancora
conclusa. Trasudando nebbia, spossati, si ergono in questo mondo
irreale – e io, come nella strofa di una poesia in una lingua
sconosciuta che non capisco, mi ritrovo a provare un profondo terrore." Prologo a La Conquista dell'Inutile |
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Il
film Fitzcarraldo, Palma d'Oro al Festival di Cannes nel 1982, è una
delle più incredibili produzioni della storia del cinema.
Il film, con la regia di Werner Herzog, narra la storia del magnate
del caucciù Brian Sweeney Fitzgerald detto Fitzcarraldo (interpretato
da Klaus Kinski) che, all'inizio del secolo scorso, si propone l'assurda
impresa di portare l'opera lirica nella foresta amazzonica. A bordo
del suo vascello, Fitzcarraldo risale la giungla lungo i fiumi e
quando non può più proseguire, trae il vascello a terra
e lo issa su per una montagna per oltrepassare i rilievi che lo possano
portare ad un ulteriore rio navigabile verso il sito dove vuole costruire
un nuovo teatro. L'impresa della nave che risale il declivio trainata
da centinaia di indios con argani e corde su una piattaforma di tronchi
mentre da un fonografo rimbomba la musica di Caruso, fu fisicamente
realizzata da Herzog senza finzioni sceniche con un dispendio di
energie che non ha precedenti nella storia del cinema. La coincidenza di realtà e rappresentazione non è, d'altronde, una novità nella carriera del regista di Monaco, uno dei protagonisti del Nuovo Cinema Tedesco degli anni '70 insieme a Fassbinder, Wenders, Schlöndorff e Klüge. In un anelito a misurare il fattore di verità dei suoi film, Herzog è solito compiere imprese estreme rifiutando qualsiasi mediazione. Prima di Fitzcarraldo aveva già attraversato l'Amazzonia per girare Aguirre, Furore di Dio, dove il conquistador Kinski conduce un manipolo di disperati al suicidio collettivo nella ricerca dell'Eldorado, e aveva usato il malato di mente Bruno S. come protagonista de La Ballata di Stroszek e dell'Enigma di Kaspar Hauser, entrambi ritratti di disadattati isolati dal conformismo della società. In seguito Herzog scalerà L'Himalaya, sorvolerà i pozzi di petrolio in fiamme dopo guerra nell'Iraq e compirà altre avventure del genere per non perdere il contatto con la realtà. Anche in film dagli scenari più ordinari. Herzog, non si risparmia lo stupore della fisicità, cercando un incontro che travalica i confini della fiction narrata. La rivista inglese Granta ha recentemente pubblicato il memorandum dell'addestratore di animali olandese Maarten 't Hart (1) che narra la storia dell'approvvigionamento di 10.000 topi vivi per girare la scena della città colpita dalla peste nel Nosferatu di Herzog. Nell'occasione, il regista chiuse una porzione del centro storico di Delft e liberò i topi per le strade con l'intento di filmare la città invasa dai portatori del morbo, provocando incredibili problemi di sicurezza. Herzog non risparmia se stesso neanche al di fuori del lavoro filmico: nel 1982 pubblicò un diario, Sentieri di Ghiaccio, in cui narrava il proprio viaggio a piedi da Monaco a Parigi attraverso una gelida Europa invernale per andare a visitare Lotte Eisner, la mitica autrice de Lo Schermo Demoniaco, che giaceva in fin di vita. In quel testo Herzog sfidava la propria resistenza fisica camminando nel gelo, dormendo in case penetrate abusivamente e mettendo a repentaglio la propria incolumità. Il trascorso diveniva misura della sua capacità di penetrare le cose la quale si trasformava in magnifica ossessione che travolge tutto con sé. Oggi, sulla stessa linea, esce in traduzione italiana La Conquista dell'Inutile (Oscar Mondadori, pp. 347 con traduzione di Monica Pesetti e Anna Ruchat), diario dell'impresa di Fitzcarraldo e luminoso esempio di esplorazione dell'estremo visto da un occhio contemporaneo. Il libro, scritto con impressionante autocoscienza, narra vicende che hanno a dir poco dell'incredibile. Il film è un'impresa durata più di tre anni tra il 1979 e il 1982, che porta ad impiantare un campo nella giungla ai confini tra Perù ed Ecuador dove sono impiegate centinaia di persone. Le riprese passano attraverso terribili crisi: la mancanza di fondi, le ribellioni degli Indios, le difficoltà di sopravvivenza nella terribile natura amazzonica, il rifare le riprese per due volte (in quanto gli attori della prima versione abbandonano il set e Herzog si trova a ricominciare tutto da capo). Su tutto emerge visionaria la vicenda della costruzione della nave di Fitzcarraldo e il suo issarsi e calarsi attraverso una montagna nella foresta. Solo l'ossessiva determinazione di Herzog resiste al destino che sembra travolgere ogni cosa. Non sono, tuttavia, gli eventi a caratterizzare del libro ma il viaggio interiore del regista che, posto di fronte alle difficoltà di realizzare la propria visione, giunge a mettersi in discussione come artista e come persona con una lucidità che ha pochi paralleli. La critica ha spesso visto nelle imprese di Herzog una forma di superomismo che mette alla prova la propria volontà di potenza e un retaggio romantico di panico ricongiungimento con la natura. Pur non mancando questi elementi di radicamento nella tradizione della cultura tedesca, La Conquista dell'Inutile fa emergere importanti temi legati alla figurazione nel contemporaneo e alla capacità d'incidenza del progetto creativo nel reale. Dalle pagine del libro emerge come sia limitativo leggere Herzog dal solo punto di vista dell'esteriorità spettacolare delle sue imprese. Esse sono semmai un simulacro (in pieno stile postmoderno) che riveste, nascondendoli, aspetti più profondi, facendoli affiorare solo gradatamente nel corso del racconto. Un primo tema è sicuramente quello della rappresentazione filmica, tradizionalmente vista come finzione, che qui, nella giungla costruisce la realtà, facendola deflagrare in tutta la sua fisicità, inerzia e, in fondo, inadeguatezza a adattarsi alla narrazione voluta. Il film pianifica la realtà non per piegarla ma per attraversarla e misurarne la non rispondenza a qualsiasi progetto assoluto. Non ci troviamo davanti a una gesamtkunstwerk (opera d'arte totale) che sfida l'impossibile per ricongiungere vita e rappresentazione, quello è forse l'inutile citato dal titolo del libro. L'importante è il trascorso in una realtà intensificata generata dal tentativo di materializzare un sogno il quale ad un certo punto perde importanza in sé e diventa strumento critico capace di penetrare la vita ben più di qualsiasi presunta oggettività. La finzione dell'opera lirica nella giungla diventa quindi più pesante della realtà stessa, è una cartina di tornasole che libera energie nascoste. Il percorso creativo, sembra dire Herzog, accetta l'impossibile attraverso la realizzazione pratica di un progetto assurdo (la nave che scala la montagna) senza risparmiare mezzi, sprechi e conflitti. Il suo fine non è l'evento in sé (alla fine del libro, l'arrivo della nave sul versante opposto della montagna è liquidato in poche frasi, per Herzog "tutto quello che ho da dire e che io vi ho preso parte") ma l'esplorazione dei fattori in gioco. Nel corso del libro, attraverso le crisi che provoca, la realizzazione del film rivela le contraddizioni del ruolo del regista con la sua presunta capacità di suggestione (messa a dura prova dal tentativo di costruire una scena impossibile), fa emergere la dipendenza del lavoro creativo dal potere economico che lo sostiene (bellissime, nel libro, le pagine che narrano il rapporto di Herzog con i produttori attraverso i successivi fallimenti del film), affronta i difficili rapporti economici tra l'occidente e gli indios, emarginati dai meccanismi della postcolonializzazione (nel racconto del campo nella giungla si susseguono ribellioni, ammutinamenti, epidemie e altri simili fatti). Tra tutti, emerge il tema della capacità dell'artista di raccontare il vero: esiste un valore documentario, si chiede Herzog? La risposta sembra passare attraverso l'artificio di una costruzione sommamente fittizia, di un'iperrealtà che provoca il quotidiano. Il progetto deve accettare il confronto con l'assurdo per chiarire (o no) i propri intenti. Non c'è infatti garanzia di riuscita, nessun risultato è scontato. Durante l'intero racconto, Herzog non pare preoccupato della narrazione del film, cancella e cambia le scene basandosi sui fatti avvenuti e sugli attori sopravvissuti alle riprese. La sfida per lui è un'altra, è lo sguardo su se stesso, è il chiarimento del proprio progetto artistico materializzato nell'incontro con la giungla e nell'impresa della nave. La sfida è vedere il mondo, liberato da vincoli e presente in tutta la sua violenza, con lo sguardo innocente di chi lo accoglie senza mediazioni, mettendo addirittura a repentaglio se stessi nella ricerca di un dialogo. In ciò, La Conquista dell'Inutile è affine a quella meravigliosa sequenza de L'Enigma di Kaspar Hauser in cui il trovatello, tenuto imprigionato in una grotta fino all'età di trent'anni, emerge alla superficie e guarda il mondo per la prima volta. In dieci minuti di puro cinema -i prati e gli alberi distorti dalla troppa violenza della luce- Herzog aveva già sintetizzato il tema della sua carriera, la ricerca di uno sguardo. Ricerca sommamente elusiva, perché la mediazione della civilizzazione rende impossibile ritrovare quell'innocenza e quindi il film descrive un desiderio incessante che non arriva mai, una perdita continua. Il tempo scorre lento e a ritroso, sembra sempre tornare indietro. Le cose si consumano pesantemente nell'insopportabile umidità amazzonica e devono essere costantemente ricreate. C'è un rigoglioso dispendio di vitalità, di sforzi, di sensualità che attraversa le pagine de La Conquista dell'Inutile. Pochi libri come questo (neppure lo stesso film Fitzcarraldo) hanno descritto lo spreco di energia che il perseguire un progetto comporta. Le successive crisi della vicenda narrata fanno capire che bisogna passarci attraverso per capirne il senso. Herzog sembra volere liberare l'imprevisto, pianifica la potenziale sconfitta della sua missione. Per questo egli è nemico del virtuale, dell'artefatto, di tutto ciò che è gestito da una posizione di distanza dal reale. Rifiutandosi di ridurre il mondo attorno a sé, non gli rimane che intensificarlo. Il suo diviene un viaggio nell'assurdo che si confronta con un antagonista, la giungla, come abisso e muro invalicabile. Herzog non si addentra in essa, non si perde, la guarda a distanza. Non c'è qui un Kurtz da trovare come in Cuore di Tenebra, nel profondo nulla aspetta se non qualcosa che l'autore può creare, che egli sa già. Scompare la proiezione di sé sull'altro e la sua ricerca, vi è solo confronto e avvolgimento. Herzog si perde nei segni che la giungla lascia sulla civilizzazione, le poche capanne del campo, i mezzi per issare la nave. Il libro abbonda di descrizioni di dettagli marcescenti e di insane efflorescenze (le piante e gli animali sembrano qui impazziti). Lo sguardo non può distanziare o creare un panorama, può solo costruirsi attraverso la perdita di potere. Esso rimane perennemente estraneo. Se la costruzione di uno sguardo è quindi l'intento, esso passa attraverso l'estraneità alle cose come prezzo della sfida di averle avvicinate fino all'eccesso. Herzog non è un romantico che costruisce una versione eroica della propria esistenza ma un osservatore contemporaneo che usa l'estraneità (dal luogo, dalle persone, dai fatti) come elemento di descrizione di una presenza comunque alienata. In questo è simile ad illustri sconfitti che non hanno trovato le parole, il Lenz di Georg Büchner o il Lord Chandos di Hofmannsthal. Il linguaggio (visivo o scritto) non è capace di afferrare le cose e allora l'autore le piega per costruire parole altre, spezzoni che hanno tutta l'intensità della realtà ma non riusciranno mai a coglierla per quella che è. Non rimane quindi che portare la lirica nella giungla su un battello e, con esso, scalare le montagne. Se qualsiasi virtualità fosse riportata alla vita con un tour del force come quello che mette in gioco Herzog, non avremmo fiducia nelle rappresentazioni ma solo in quello che esse provocano. Pietro Valle pietrovalle@hotmail.com |
[20apr2007] | |||
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