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Dopo Mosca Pietro Valle "Le strade di Mosca hanno un che di singolare: il villaggio russo gioca in esse a nascondino. Quando si oltrepassa une delle porte della città (sono per lo più munite di una cancellata di ferro battuto, ma non ne ho mai vista una chiusa), ci si trova come sul limitare di una grossa contrada. Ci si spalanca davanti, larga e spaziosa, la corte di una fattoria, oppure un villaggio; il terreno è ineguale, bambini corrono in slitta, tettoie per la legna e gli attrezzi ingombrano gli angoli, si levano alberi sparsi, scale di legno conferiscono al retro delle case, che dalla parte della strada hanno un aspetto cittadino, l'aria di una casa rurale. In queste corti ci sono spesso delle chiese, non diversamente che in una grossa piazza di paese. Così la strada si dilata a campagna. Né vi è alcuna città occidentale che nelle sue enormi piazze si presenti così paesanamente modesta, e appaia sempre inzuppata per le intemperie, per la neve che si scioglie o per la pioggia..." Walter Benjamin, Mosca, 1927 |
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1. CITTÀ DI VILLAGGI, CITTÀ DI ISOLE.
Dopo appena due giorni di insensata circolazione nell'infernale traffico di Mosca, proiettati su grandi autostrade urbane affollate di automobili, la frase di Walter Benjamin assume una presenza fisica. Mosca è una città di villaggi, di isole alla deriva, chiuse e introverse, che convivono fianco a fianco. Le strade arrivano sul perimetro di esse e la città si arresta, non ci sono attraversamenti. Dentro vige una logica autoctona, spesso casuale, marcata da sentieri accessibili ai soli iniziati, i residenti, gli unici che li comprendono. Questo non si applica solo a rimasugli di ruralità, ma a tutti gli insediamenti, anche i più urbani. Dietro a facciate monumentali, i complessi edilizi sembrano disperdersi nel vuoto. Isolati-giardini grandi come città si susseguono senza ordine. Le strade allineano collezioni di oggetti tenuti insieme da un perimetro, non da un tessuto edilizio. I quartieri seguono la logica del Cremlino, la fortezza murata che racchiude al suo interno una collezione di edifici-oggetti. I palazzi neoclassici sono basse ville sparse nel verde. Lo sviluppo tardo-ottocentesco è opulento ma non fa sistema, ogni edificio tende a riassumere in sé la città piuttosto che accorgersi di essa. Gli edifici dell'avanguardia Costruttivista, i pochi sopravvissuti, perseguono l'autonomia come credo sociale. L'architettura staliniana degli anni Trenta e Cinquanta è quella che tiene insieme la città, cerca di unificarla con sequenze di palazzi monumentali, troppo grandi per essere visti da vicino. Gli anelli di circonvallazione del Piano Regolatore del 1935 sono occasioni per creare nuovi assi e fuochi visivi, orizzonti lontani per proiettare nuove isole a distanza. I grattacieli delle sette sorelle mescolano le torri fiabesche del Cremlino con gli high-rise decò americani a produrre castelli immaginari. Anche il complesso dell'università sembra fluttuare a distanza come una fata morgana. Non ha basamento, i suoi fusti scanalati precipitano a terra e tutto l'edificato sembra svuotato dietro alla facciata monumentale. O forse opera segretamente dentro al suo recinto mentre tiene l'esterno a distanza. Nella dilatazione radiale della città, spuntano i grappoli di lame dei grattacieli residenziali prefabbricati degli anni Sessanta e Settanta, organizzati in Kvartali, Microrajoni e Rajoni, quartieri autonomi di dimensione sempre maggiore, dotati di servizi, indipendenti a tal punto che gli abitanti potrebbero non uscirne mai e capire che sono parte di una città. |
[13 aprile 2010] | |||
Mosca ottocentesca con inserimento di palazzo residenziale anni Trenta. Commercio di strada. |
Moscova e Cremlino. Grazie alla dispersione dei singoli insediamenti, Mosca sembra ancora più vasta. L'immensa scala geografica della città non è riducibile a un'unità di misura, la frammentazione del costruito non confronta la campagna in modo definito. Mosca non ha nulla di europeo, è, semmai, una colonia urbanizzata dove tratti di natura casuale dominano ancora l'insieme. È, tuttavia, l'esatto contrario della città americana dove il reticolo jeffersoniano misurava l'estensione dell'abitato nel paesaggio. Qui la deriva delle isole è inframmezzata da uno spazio medioevale, un resto negativo che le distacca l'una dall'altra. Esso è rinvenibile non solo tra i quartieri ma anche all'interno di essi. Il territorio russo, con le sue grandi distanze, è quindi riportato in città, esso allontana i quartieri l'uno dall'altro e opera segretamente all'interno di essi creando il vuoto nel cuore delle comunità. La storia di Mosca è una storia di isole e di rimozioni, possibili grazie all'autonomia di quartieri incapaci di superare la frammentarietà dell'insieme. Insediamenti temporanei fluttuano attraverso i cambi di gerarchie politiche del Novecento rimanendo chiusi in se stessi. A Mosca o si guarda lontano o si è chiusi all'interno di un Locus-Solus. Non ci sono criteri di aggregazione ma poi essi avvengono comunque, nel vuoto dietro a un recinto. La città si coagula improvvisamente in fiere temporanee, passages commerciali, carnevali (per usare il termine di Michail Bachtin) colmi di una folla straripante. Così, nei sottopassi dei boulevard, fiorisce un commercio al minuto fatto di microscopici punti vendita costipati lungo le pareti che espongono una densità incredibile di merci in una superficie di pochi centimetri. Ogni villaggio, ogni isola, dunque si riveste e accoglie forme spontanee all'interno del suo perimetro. Le architetture stesse diventano microcittà: i club con gli auditorium e ristoranti al piano, i teatri con i loro giardini interni, gli hotel per turisti dotati di servizi autonomi, tutto è condensato all'interno di un'unica struttura. Viene da chiedersi se il collettivismo delle strutture sovietiche sia un'invenzione moderna o la continuazione di una pratica che ricostruisce il villaggio russo in ogni generazione della città. |
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2. CATTEDRALI DEL CREMLINO. La piazza delle cattedrali nel Cremlino presenta diverse versioni dello stesso impianto incompleto ripetuto in più edifici. Perché queste chiese non riescono a essere compiute? Perché devono moltiplicarsi con i medesimi scollamenti? Perché non c'è un solo edificio che integra le parti di cui è composto? Piazza delle Cattedrali, Cremlino. Le cattedrali della piazza sono una lo specchio dell'altra in una sorta di riflesso autoreferenziale. Sono ibride imitazioni di chiese più antiche, realizzate in un periodo più tardo da architetti italiani immigrati, e mostrano porzioni rinascimentali travestite da scrigni ortodossi. La pianta a croce greca è l'eccezione continua alla propria regola. È contenuta in un perimetro quadrato cui non corrisponde la sezione, divisa in coperture diverse (volta ad arco, a crociera, a cupola). Il buio all'interno crea un ambiente con pozzi verticali circoscritti da spessi pilastri. Questa foresta artificiale si arresta sul piano dell'iconostasi, barriera dorata punteggiata di immagini oscure che scompaiono nei riflessi dell'ottone sbalzato a bassorilievo. L'incongruenza proporzionale dello spazio è compensata dalla ricopertura pittorica di ogni centimetro di superficie parietale. L'architettura è tatuata e ogni immagine crea una propria nicchia visibile solo d'appresso nella penombra, contribuendo a rendere episodico lo spazio. Le immagini sono organizzate in fasce verticali, serie di storie come nastri avvolgenti, e ogni successivo livello vive in una dimensione che appare ultraterrena quando vista dal basso. La divisione delle aree narrative porta all'indifferenza della pittura nei riguardi dell'architettura e, paradossalmente, all'unificazione dello spazio attraverso la ricopertura di tutte le pareti, anche se localmente divise. La superficie muraria si divide in aureole di colore, come le mandorle nelle icone. Diventano un pattern, un tentativo incompiuto di mascheramento, una proliferazione di forme senza sfondo. Il colore è autonomo, vive separato dalle figure e dallo spazio, devia da tutto, sembra un parassita che ha aggredito le pareti, raffigura mondi ultraterreni attraverso aree circolari, sfere, bolle. Al loro interno figure umane allungate e brunite galleggiano nel pigmento, rimanendo discoste nella propria oscurità. Il tatuaggio della pittura muraria si autocancella rifacendosi, il restauro è avvenuto con continuità, più volte, ed ora è sospinto dalla promozione turistica. La ritintura delle pareti murarie non restituisce uno stato precedente ma diviene stravolgimento continuo che aggiunge nuove decorazioni a ogni ciclo. C'è una sorta di perversa vitalità del colore che attraversa l'architettura, la distrugge e poi la reinventa. Anche l'esterno è un montaggio di elementi incongrui. Ogni volta è coperta da un campanile con cipolla completamente indifferente allo spazio racchiuso, una pura decorazione urbana. San Basilio sulla Piazza Rossa è l'apoteosi della non-regola delle cattedrali. Una sommatoria di cappelle verticali è legata da un ambulatorio interposto che sembra aggiunto come un riempitivo tra edifici indipendenti. La gente si aggira nei suoi meandri interstiziali ma non sembra mai poter sostare nelle chiese, troppo strette per accogliere una comunità. Fuori i bulbi si irradiano turgidi e spiraliformi, dentro si precipita in pozzi senza fondo. Il campanile diviene qui una costruzione autonoma e abitata indipendente dalla chiesa, un'ulteriore disgiunzione. E quindi ovunque l'interno non coincide con l'esterno, la pianta con la sezione, lo spazio con la decorazione, la base con le cupole, l'edificio con il suo campanile. |
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3. LA CITTÀ DI POTMEKIN. La Mosca tardottocentesca è flamboyant all'esterno e orientale all'interno, si apre su gallerie e bazar separati dalla strada: sono mondi paralleli, parte di un'altra città protetta dal freddo. Gli stili Pan-Slavo e il Modern si mescolano nell'horror vacui di facciate segmentate in parti, terrazzate a livelli, avvolte in strati di decorazioni. C'è un'effusione di modanature, torri, volute, la coesione locale si accorda al distacco generale. All'interno, invece, gli spazi sono unitari e sezionano gli isolati con strade coperte, linee dirette. I magazzini GUM sembrano divisi in tanti edifici sulla Piazza Rossa, il bassorilievo aggredisce colonne, archi e finestre in una colata deforme. All'interno le leggerissime volte vetrate progettate dall'ingegner Schuchov tagliano gallerie sospese nel cielo con ponti e ballatoi, quasi una Metropolis a più livelli che non vuole toccare terra. Eclettismo e Ingegneria si incontrano nelle facce separate di un complesso bifronte, qui l'orpello non esclude la nudità della tecnica. Nella stazione di Jaroslav di Fedor Shekhtel, l'architettura diviene fisionomia: il fronte è un grande cappello sospeso su di una bocca-voragine che ingoia il flusso dei viaggiatori che vi entrano. La morbida entrata sormontata dalla piramide scura si pone in mezzo ad altri volumi asimmetrici densi di guglie e ricrea l'atmosfera di un villaggio russo con calcolato disordine. All'interno l'esuberanza si distende nella linearità di binari e delle volte parallele: si ha l'impressione di essersi lasciato indietro un altro mondo, le due parti non sembrano appartenere allo stesso insieme. Il teatro Ermitaz è una città giardino interna agli isolati della città, un sogno notturno nascosto allo sguardo delle strade. Un teatro-padiglione con più palcoscenici dispersi tra gli alberi, un café chantant con grandi tettoie per sedersi all'ombra, un club-ristorante con vista sul verde, compongono una microcomunità affacciata su di una radura segreta. Lunghe cancellate su strada e filari d'alberi nascondono l'ampiezza del luogo allo sguardo del passante, solo una volta entrati ci si rende conto che qui ci si può anche perdere. Anche la natura, può essere coinvolta nel gioco della differenza tra la facciata e i mondi nascosti dietro alle sue quinte. E quindi la strada ammalia con la sua opulenza ma anche respinge. Bisogna volere entrare, bisogna sapere che cosa c'è dietro la superficie, bisogna essere disposti a cambiare registro. Fedor Shektel, Stazione di Jaroslav 1902-04. Questa città brilla di nuova vita dopo la fine del Comunismo ed è conquistata dal potere economico che recinta spazi e negozi esclusivi al suo interno, accessibili a chi può spendere. I loro ingressi sono sorvegliati da robusti buttafuori: la soglia architettonica si fa corpo in carne e ossa e Mosca moltiplica l'ossessione del controllo ereditata Comunismo proiettandola nel futuro liberista. Lo spettacolo pre-rivoluzionario, il teatro di varietà, ha ripreso a girare, e incornicia il turbo-capitalismo. Non tutti possono oltrepassare l'ingresso e molti rimangono fuori con solo una metà della grande Mosca belle époque. |
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Ivan Golosov, Club Zuev 1927-29. Konstantin Melnikov, casa studio Melnikov 1927-29. |
4. ROVINE DELL'AVANGUARDIA. Lo scarto tra l'ideale e la realtà è la misura della presenza del Costruttivismo a Mosca. In un brevissimo arco di quattro anni (1927-31) si brucia il più grande esperimento della storia delle avanguardie, il sogno di una nuova società, subito soppresso dalla repressione staliniana e dal suo richiamo all'ordine. Il Costruttivismo è sperimentazione spaziale-formale che confligge con i limiti della costruzione, spesso tradizionale, incapace di supportare le sue proiezioni dinamiche. Konstantin Melnikov, Club Rusakov 1927-29. La geometria dei suoi edifici è assoluta, i materiali edilizi no e allora le forme devono essere costruite come scenografie, mascherate dagli intonaci. Fragili sin dall'inizio, queste strutture appaiono oggi come rovine della tecnologia, della leggerezza, del dinamismo cinetico, della trasparenza. La loro apertura spaziale promuoveva un'idea di interazione degli spazi, di più percorsi tra loro, di molteplici usi degli stessi ambienti, del ruolo dell'edificio come condensatore sociale, capace di includere in sé tutte le forme del quotidiano di massa. Tutti i club di quartiere e di fabbrica, una delle nuove tipologie post-rivoluzionarie, proponevano la moltiplicazione dei percorsi e l'uso flessibile degli spazi ma questo non ha trovato gradimento. Una delle caratteristiche comuni degli edifici visitati a Mosca è la censura dell'apertura originaria: nel Club Rusakov di Melnikov le rampe esterne che raggiungevano la sommità degli auditori sono bloccate, nel Club Zuaev di Golosov la trasparenza degli auditorium verso l'esterno è tamponata, il ballatoio aperto del Narkomfin di Ginzburg e Milinis è chiuso ora da assi di legno. La forma spaziale interattiva che attraversava gli spazi è ridotta a un andito tra compartimenti stagni. I giunti tra le forme sono labili, le diverse costruzioni emergono dallo sgretolamento degli esterni, i percorsi sono interrotti, la flessibilità negata, l'utopia sociale riportata a tanti rifugi nella privacy, il funzionalismo sostituito da altri usi. E se la caratteristica del Costruttivismo fosse l'impossibilità di reggere la realtà, la continua arresa al tempo? E se il suo sogno fosse un volo fragile, come tutto il Moderno? E se la quantità onirica dell'avanguardia fosse misurata solo attraverso la realtà materiale che la consuma? L'utopia realizzata è un magnifico perdente. L'elementarismo delle forme invecchia male, impoverisce l'essenziale. Se, tuttavia, non ci fosse quell'essenziale, quella sintesi geometrica, forse non sapremmo che cosa si nasconde dietro l'apparenza distratta del quotidiano, non sapremmo cosa sono l'astrazione, la tipologia, il funzionalismo, la forma dinamica come presenza nel mondo fisico, come sfida ai suoi limiti. M. Ginzburg, I. Milinis, Dom Kommuna Narkomfin 1928-30. Il Costruttivismo è indifferente alla gravità negli sbalzi, nei percorsi, nel montaggio elementarista di volumi primari senza alcuna forma tettonica che esprima le forze costruttive. La sua idea spaziale-formale non ha peso e va dal linearismo più crudo (Narkomfin) agli eccessi più avvolgenti (casa Melnikov). Non c'è limite di intenti se non nel sogno, questi edifici sono frammenti di un utopia totale, sampler di un ordine cosmico. Trasversali rispetto a tutto, possono estendersi all'infinito ma anche ridursi a capsule alla deriva nel flusso della città. L'autonomia dell'architettura Costruttivista è allo stesso tempo geografica e microscopica, è il vento che soffia e le spore portate da esso. Il suo voluto rifiuto di un riferimento terreno ne garantisce il fuori-scala o il senza-scala: tra i due non c'è differenza perché l'idea rivoluzionaria è intransigente, il suo principio è confliggere per forza con la realtà. Il suo ordine si esprime con lettere e numeri astratti. Il Club Rusakov ha uno, tre o sette auditorium nella stessa sala, uno spazio moltiplicato che implode la complessità all'interno mentre proietta auditorium nel cielo. |
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La poesia del triangolo e del trapezio ritaglia un teatro, una piazza, una sala riunioni e un'arena per giochi nello stesso luogo. Il Club Zuaev fa attraversare un cilindro di vetro all'interno di cubo opaco, perforandolo con una scala a spirale che diviene parte del panorama urbano. Al suo interno, due teatri, bar e spazi comuni compongono una crociera urbana in rotta verso l'infinito. Il Narkomfin è un altro tipo di transatlantico, lineare nella sua estensione, proiettivo in diagonale grazie ai suoi ballatoi a tripla portata che portano a più livelli da una singola strada aerea. Abitare è salire e scendere in alloggi come navicelle autonome servite dall'edificio-viadotto. La linearità è stratificata, ha più dimensioni: il ballatoio moltiplica la strada, il terreno comune libera capsule autonome, libere di affacciarsi altrove. Il padiglione sul tetto del Narkomfin con le stanze per ideali "lavoratori ospiti" è una nuova colonia alla conquista dello spazio libero, uno squatter verticale sul tetto della città. Nella casa di Melnikov, unica residenza privata di un movimento collettivista, l'involucro-diaframma nega qualsiasi uso o limite: descrive un'orbita libera nel cuore della città. L'architetto è lasciato solo a fluttuare in un firmamento di stelle esagonali, la casa è astronave fuori e spazio siderale dentro. |
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5. UNA STORIA ALTERNATIVA DELL'ARTE RUSSA. La rimessa per autobus Leyland di Konstantin Melnikov del 1926-27 è un capolavoro di formalismo funzionale: un enorme magazzino di 8.500 metri quadri con tetto a capanna è impostato planimetricamente su un reticolo romboidale per permettere a 104 autobus di entrare e uscire contemporaneamente senza fare marcia indietro. L'interno è caratterizzato da una struttura metallica reticolare che copre una luce unica di quasi 50 metri con travi sghembe allineate con l'ordine antiortogonale di tutto lo spazio. L'involucro è invece un muro in mattoni interrotto dai portali d'ingresso, anch'essi angolati e arricchiti da oculi circolari e da una segnaletica con grafica agit-prop. Dopo anni di disuso, l'edificio ha avuto nuova vita come Garage of Contemporary Art, una nuova scintillante galleria gestita dalla ex-fotomodella Daria Zhukova e donatole dal fidanzato Roman Abramovich, il miliardario quarantenne famoso per le sue fortune internazionali. Konstantin Melnikov, rimessa per autobus Leyland 1926-27. Ilya Kabakov, Red Wagon, installato nella rimessa Leyland di K. Melnikov. La vicenda del garage ha tutti i connotati glamour della storia di successo della nuova Russia neo-capitalista e lo schieramento di buttafuori in doppiopetto nero all'ingresso della galleria ne è l'ovvio corollario. Dopo la perquisizione d'obbligo e il pagamento del biglietto ci si trova però spiazzati di fronte alla qualità dell'operazione espositiva che è in corso, una vera sorpresa. Di scena è un'installazione di Ilya Kabakov, il maggiore artista concettuale russo, che da anni lavora con la moglie Emilia come illustre emigré a New York. Per il suo ritorno a Mosca, Kabakov ha riscritto la storia della pittura russa del Novecento come se la grande stagione dell'astrattismo di Malevich e Kandinsky non fosse mai esistita e il tema dell'assoluto nell'arte sorgesse all'interno del Realismo come una sorta di processo di sospensione dell'immagine pittorica. Kabakov si è inventato tre pittori fittizi vissuti in tre periodi storici, il tardo Ottocento, gli anni Trenta e il post-Perestrojka, esibendone le opere (naturalmente tutte da lui inventate) e immaginandosi un'ideale trasmissione delle idee tra loro. La finzione è assolutamente spiazzante: i grandi quadri dei tre sono esposti con un rigoroso allestimento da museo tradizionale e si attraversano diverse sale prima di accorgersi che si sta osservando l'opera di un'unica regia. Charles Rosenthal, il primo della genealogia, è il pittore del grande realismo ottocentesco con scene agresti di contadini, soldati e borghesi della belle époque: sembra di trovarsi all'interno della Galleria Tretjakov visitata pochi giorni prima. Un giorno, durante una pausa dove lascia un tratto di tela bianca su parte di un quadro, Rosental scopre un universo vuoto dietro alla superficie pittorica che gli si rivela come il vero substrato dell'arte, una sorta di infinito aniconico. Da allora, grazie a questa scoperta casuale, Rosenthal inizia a produrre quadri con parti non finite, aree bianche intoccate dal pennello che denunciano, a lato della più realistica rappresentazione, l'origine della pittura. Ilya Kabakov (il secondo, omonimo dell'artista) consolida il non-finito, durante la sua carriera di pittore di partito a servizio del Realismo Staliniano con rappresentazioni di genere di operai e colcosiane. Nei suoi quadri, il formato della rappresentazione non coincide con quello della tela: sono presenti contorni incompiuti o finestre bianche. È come se all'interno del quadro potesse sempre aprirsi il grande vuoto della superficie pittorica. Tutto ciò è però qui pianificato come se questa assenza fosse una forma di esibizione del processo di formazione dell'immagine del proletariato. Igor Spivak, il terzo artista, opera durante gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Anch'egli impiega la frammentazione delle immagini che raffigurano il quotidiano e si presenta come cantore di un mondo perduto, quello della Russia Sovietica, ormai al tramonto. La Ostalgia dei suoi quadri raduna scene di genere dei decenni precedenti come cartoline tra fasce di tela bianca che le pongono in serie ma anche le separano. Alla fine di questo percorso, i tramezzi espositivi si interrompono e il garage appare in tutta la sua ampiezza. Al centro dello spazio vuoto vi è il Red Wagon, una piccola struttura di legno che ricorda i padiglioni agit-prop Costruttivisti all'interno della quale si può osservare un panorama dipinto con operai al lavoro in un cantiere ascoltando musichette di propaganda d'epoca in una sorta di summa dell'utopia sovietica. |
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Con un percorso labirintico che riscrive l'arte del Novecento, Kabakov ha reinventato la scoperta dello spirituale dell'arte (e la sua necessità nell'animo russo) senza la forma astratta. Il Realismo come simbolismo del quotidiano, come ideologia politica, come forma della tradizione: in qualunque forma si espliciti, esso contiene il non colore, il bianco, la grande aura che avvolge le figure. Il non-finito di Rosenthal, Kabakov e Spivak è come il colore delle mandorle delle icone o il nero di Malevich, propone un'idea di arte totale. Solo che lo fa senza dotarsi di un linguaggio definito ma attraverso un processo di denuncia del farsi della pittura: l'inconcluso rivela l'artificio. La grande tradizione modernista è rovesciata da Kabakov proponendo una Process Art che può risiedere anche nella figurazione più retrograda e ideologizzata. In questo vi è una critica alla classica opposizione tra astrazione e figura, tra Simbolismo e Realismo, tra arte di partito e arte degenerata: tutti i temi che hanno caratterizzato l'arte russa del Novecento con le sue purghe ideologiche. Vi è anche un monito: nell'arte i significanti e i significati sono assolutamente mobili ed è forse giunta l'ora di sbalzarli da contrapposizioni artefatte. Qui si compenetrano senza sosta. |
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6. STALINIANA. Il Moderno può esistere senza linguaggio modernista? La domanda posta da Kabakov nell'arte trova una risposta nella città staliniana degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta. Non esiste qui più la forma assoluta del Costruttivismo ma rimane il funzionalismo nascosto dietro a un consolidato linguaggio Classico e monumentale. Negli anni Trenta, le idee dell'avanguardia sulla collettivizzazione degli spazi sono realizzate sistematicamente come testo nascosto dietro a una maschera tradizionalista. È questa la scoperta della Mosca staliniana: la grande scala delle sue operazioni trascina addirittura il linguaggio classicista in una nuova dimensione mai prima avuta. La Grande Mosca del Piano Regolatore del 1935 compone un disegno fatto di grandi assi radiali e successivi anelli di circonvallazione segnati da incroci con architetture monumentali. I punti focali sono il termine logico di sequenze riconoscibili, grandi cortine viarie che accompagnano l'attraversamento. Il piano rimane l'ultimo e il più riuscito tentativo di unificare, anche se forzatamente, la città dei villaggi. Le sette sorelle, i grattacieli al termine delle strade radiali, e i corridoi di palazzi monumentali sono esercizi di permutazione di elementi classici su quinte urbane. Colonne, pilastri, cornici, timpani, conci rustici sono componenti di una catena di produzione seriale. Il Classicismo fa un salto di scala rispetto al tardo Ottocento e si moltiplica in verticale. Diviene antitettonico e decorativo ma pur sempre produttivista. Il dichiararsi dei componenti stilistici come smaccatamente falsi, istituzionalizza il kitsch quale strategia dell'immagine urbana. Nelle residenze collettive, il social condenser delle avanguardie diventa palazzo del popolo, una gigantesca quinta lineare che unifica interi tratti della città precedente nascondendola dietro a una scenografia. Attraversare gli androni di questi palazzi e trovarvi nascosto un pezzo di città medievale nella corte retrostante è un'esperienza di surreale spiazzamento urbano. Eppure così avviene nella centralissima Ulica Tverskaja: gli architetti staliniani hanno costruito la prima e unica architettura russa che si lega alla strada ma la strada se la sono dovuta inventare ex-novo, come un oggetto che sostituisce tutto quello che c'era prima. Il popolo abita il palazzo e il palazzo si moltiplica in cento caseggiati allineati come sentinelle su bulvarji e prospekt. I kvartali, interi isolati abitati dotati di servizi, sono microcittà autonome, come il Cremlino, come i monasteri, come le utopiche comunità delle avanguardie. Ora, tuttavia, non galleggiano più in una città sfilacciata, ma si legano a altre entità autonome attraverso allineamenti e al fuori-scala del loro linguaggio monumentale. L'urbanistica sembra così legare la città ma in realtà la lascia divisa in unità discrete, comunità controllabili e autocontrollate, esercizi di autoritarismo strutturato. |
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A. Duskin, B. Mezencev, grattacielo su Lermontovskaja Ploscad 1949-51. A. Duskin, stazione della metropolitana Majakovskaja 1937-38. |
Palazzi del Popolo. Alla fine si crea una sorta di specularità e dispersione tra tutte queste unità ripetute. Anche i grattacieli delle sette sorelle funzionano in questo modo. Il ritrovare la stessa forma in più luoghi orienta ma produce spiazzamento. La città delle tante torri è anche la città di una sola torre, percepita come un arcipelago da unificare forzatamente con lo stesso linguaggio ripetuto. L'urbanistica staliniana non ha quindi luoghi riconoscibili ma solo punti fissi dove ripetere incessantemente lo stesso discorso: essi sono, alla fine intercambiabili e quindi anche gli edifici funzionano come gli elementi decorativi prefabbricati montati sulle facciate, sono componenti di serie, solo a una scala più vasta. La nuova metropolitana unisce i flussi della nuova città. Anch'essa opera sull'ambiguità tra identità e differenze come i palazzi classicisti: è diversa in ogni stazione ma secondo variazioni della stessa forma, una fiabesca galleria voltata e illuminata indirettamente. Pilastri, archi e volte ripetute compongono uno spazio completamente artificiale che inventa il proprio ordine cosmico e simbolico. La terra sembra uno specchio che moltiplica gli stessi componenti in serie infinite, il cielo un grande arco circolare dove volteggiamo aureole di luce, ottenute attraverso declinazioni delle lampade al neon. In edifici, metro e padiglioni espositivi si parla attraverso una nuova simbologia che invade le forme storiciste: le sue figure sono la stella rossa, la falce e il martello, i gruppi di lavoratori, contadini e soldati, le mappe geografiche, i diagrammi di macchine, cantieri e aerei. Esse invadono le forme Classiciste e rimangono come unico linguaggio figurativo della città anche dopo la caduta del Comunismo. Né il tecnicismo dell'era di Kruschev né le nuove insegne commerciali del capitalismo sono riuscite a rimpiazzare una tale pervasività figurativa. |
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7. MOSCOW CITY. Nella nuova Mosca turbo-capitalista tutto diventa una vetrina con il corollario che la vetrina si guarda da fuori ma non sempre si può attraversare per penetrare all'interno di quello che scherma. I quartieri storici del centro sono rioccupati da negozi e boutique. Le marche esibite sono spesso quelle delle grandi catene occidentali di articoli di consumo e di lusso, ma spesso ci sono nomi mai sentiti (marche italiane di moda per esempio) che sembrano artefatti ad hoc per allestire immagini di successo, come se si tentasse a tutti i costi di allinearsi a uno standard agognato da decenni. Tutti questi negozi sono piantonati da guardie e buttafuori, spesso sono radunati all'interno di gallerie commerciali con una gestione unica, dei veri e propri ghetti dorati, dove sono ammessi solo nuovi ricchi e turisti in una significativa divisione di casta dello spazio. In queste gallerie si mescolano boutique alla moda e negozi che vendono articoli etnici o di antiquariato, implementando il revival della vecchia Russia prerivoluzionaria, fortissimo oggi tra la popolazione. Moscow City. La nuova Mosca si guarda spesso da fuori, è diventata esclusiva, ha ricostituito le barriere di classe che ne hanno segnato la storia e che, in fondo, il Comunismo aveva riaffermato nella divisione tra élite governativa e popolazione. L'espressione spaziale dell'isola chiusa, proveniente dal passato, incontra le barriera trasparente del curtain-wall proveniente dal capitalismo americano. Sembra, però, che l'illusoria trasparenza dell'occidente non ispiri completa fiducia nei Russi, forse è per questo che di fronte alle vetrine pongono le guardie, sembrano avere paura di un'eccessiva introspezione. Anche la nuova architettura dei ghetti dorati costruiti dal capitale occidentale (e da quello locale a sua imitazione) raduna brani di tecnologia avanzata in aggregati chiusi e militarizzati. |
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Sulle rive della Moscova sorge il cantiere di Moscow City, dall'evidente nome anglicizzato, un grappolo di scintillanti grattacieli raccolti su un isola raggiungibile solo da viadotti e ponti. Le torri sono vicinissime tra loro come se volessero proteggersi l'una con l'altra e sembrano una versione contemporanea di San Basilio. Il cantiere opera ventiquattr'ore su ventiquattro e la gente va a vedere lo spettacolo del capitalismo nel suo farsi di notte dal vicino ponte. Tutte le strutture sono illuminate a giorno da miriadi di lampade, probabilmente molte di più di quelle che ci saranno quando le torri saranno chiuse dagli involucri. La logica della vetrina si espande qui a coinvolgere un intero tratto di città, in linea con tutta l'evoluzione di Mosca basata sulla disgiunzione tra immagine esterna e spazio racchiuso. Anche i faraonici progetti di investimento occidentale come Crystal Island di Foster & Partners sembrano allineati in una logica russa: il progetto in questione è un insieme di uffici, residenze, negozi e spazi verdi racchiusi in un enorme contenitore vetrato a forma di torre spiraliforme. Si viene a costituire una comunità isolata, perfettamente autosufficiente che vive in un ambiente ecologicamente controllato. In essa si sintetizzano gli spazi della tenda al centro del paesaggio vuoto, dell'isola monastica del Cremlino, del social condenser delle avanguardie, dell'oggetto-skyline dei grattacieli staliniani e del ghetto neo-capitalista. Nulla è buttato via, la logica aggregativa di Mosca, fatta e disfatta nel corso delle sua storia, continua ad essere capace di produrre nuove presenze. |
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K. Ton, Tempio di Cristo Salvatore, 1838-83. |
8. CONTROLLO E NOSTALGIA. Le strade di Mosca non sono affollate solo da passanti. Ci sono uomini in attesa all'ingresso di quasi tutti gli edifici, sono in divisa pseudo-militare ma spesso adottano lo standard del vestito scuro. In essi si coniuga il retaggio della vecchia burocrazia sovietica insieme alla nuova ossessione del controllo che moltiplica le guardie del corpo a difesa del neo-capitale. Ogni movimento è seguito incessantemente da molteplici occhi. Ogni ingresso e ogni uscita da un edificio sono interrotti dal controllo, dalla richiesta di permesso, di identificazione, da trattative. Lo spazio ne risulta segmentato, militarizzato, delegato alla presenza (più che al reale controllo) di corpi fisici, che ne graduano l'accesso. La nuova democrazia russa è un territorio quasi medievale di feudi armati al servizio di burocrati, neo-imprenditori e mafiosi di successo. La vecchia ossessione del controllo statale ha trovato una perfetta continuità nella paura dell'infrazione alla proprietà. Questa nuova condizione che mescola usi ancestrali, retaggi statalisti e neo-glamour, non sa ancora che forma darsi, non emerge ancora una nuova cultura russa né una sua espressione visiva. Si celebra l'import occidentale insieme al revival pre-sovietico, l'epopea degli zar con il credo ortodosso. Una forma di religiosità primitiva è riemersa come fenomeno pubblico negli ultimi decenni e ha portato a paradossi come la ricostruzione integrale del Tempio di Cristo Salvatore, una grande chiesa ortodossa tardo ottocentesca, rasa al suolo nel 1931 perché occupante il sito del futuro Palazzo dei Soviet (sì, quello del concorso con i progetti di Le Corbusier e di tutta l'avanguardia europea sfociato poi nel megalomane schema di Boris Iofan con la monumentale statua di Lenin in sommità, poi mai costruito...). Nel visitare il tempio, come altre chiese di culto meno invase dai turisti, si nota l'intensità del rito e la partecipazione quasi estatica (e assolutamente irrazionale) di uomini e donne con scene di abbandono che appaiono quasi artefatte. Il revival religioso primitivo è una delle facce della ricerca di identità della nuova Russia incapace per ora di autodefinirsi. Insieme alla commercializzazione più spietata (e alla divisione di classe che essa porta) vi è la sopravvivenza di una cultura panrussa precapitalista (e presovietica) ancora presente come unico legante sociale. Una tradizione contadina, irrazionale, spiritica, che forse aspetta ancora che arrivi il Grande Padre, impersonato prima dallo Zar e poi dal gerarca Stalin, oggi assente ma forse ancora necessario. |
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9. VERSO IL VUOTO. Per capire Mosca è necessario un viaggio al di fuori di essa per proiettarsi nell'immensità del territorio russo che ne è la controparte. La campagna, enorme e silenziosa, annulla la densità della città ma funziona anch'essa secondo la logica delle isole. I paesi rurali non hanno strade né piazze, non sembrano avere struttura urbana che lega gli edifici. Piccole case di legno si nascondono tra alberi e orti con sentieri sterrati che vi penetrano (sono come i percorsi segreti interni ai Kvartali di Mosca). Sono abitate ma non mantenute, sembrano invecchiate precocemente. Ad esse si alternano reperti di architettura socialista diruti, case a schiera, stazioni militari, qualche stabilimento arrugginito. Il tutto giace in una condizione di semiabbandono, o di distruzione postnucleare, il Medioevo si mescola all'atmosfera del film Stalker di Tarkovskji. È come se, dopo la fine del Comunismo, si fosse ritornati ad un esistenza di autosostentamento agrario basata sulla sola resistenza al freddo e all'abbandono. La povertà è palpabile, questa è l'altra faccia della concentrazione di ricchezza esperita a Mosca per diversi giorni. |
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Il Cremlino di Suzdal. Finito lo Stato centralizzato, il territorio è stato abbandonato a se stesso e la ricchezza non è mai arrivata qui. Le uniche costruzioni solide sono chiese e monasteri, racchiusi in recinti fortificati. Al loro interno troviamo la consueta collezione di oggetti edilizi già esperita negli episodi urbani, il che dimostra l'autoreferenzialità di questi insediamenti, sia che si trovino nel caos urbano o in mezzo al nulla. Sono come navi alla deriva in una campagna immensa, emergono in mezzo ad acquitrini contornati da argini. Per raggiungerli ci sono spesso strade sterrate. L'acqua diventa presto ghiaccio, già in queste serate di ottobre e l'inverno sembra la metafora della vita di questi luoghi indifferenti, chiusi, abbandonati. Viene da pensare che sia la scala del territorio russo a dare forma (o, meglio, la non-forma) agli insediamenti e, conseguentemente, alla città. Dalle isole siamo partiti, alle isole siamo tornati. Pietro Valle pietrovalle@hotmail.com |
Questo scritto è parte del diario tenuto in occasione di un viaggio in Russia promosso dal Dipartimento di Storia dello IUAV di Venezia nell'ottobre 2008. Ringrazio Massimo Bulgarelli, Giovanna Curcio e Luka Skansi per l'organizzazione del viaggio e tutti i partecipanti, dottorandi in Storia dell'architettura, per il ricco scambio di osservazioni intrapreso durante la visita. | ||||
Le foto che accompagnano questo articolo sono di Elena Carlini e Pietro Valle. | ||||
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