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Delirious New York





Rem Koolhaas
"Delirious New York"
(a cura di Marco Biraghi,
traduzione di Ruggero Baldasso e Marco Biraghi)
Electa
Italia, 2000
pp336, €38,74

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PARADOX NEW YORK

Massimo Cacciari comincia ogni suo discorso, articolo o comizio con l'insostenibile ritornello "chi non ha letto Plotino", Socrate o il Kant di turno, "non può capire nulla del contemporaneo", della mucca pazza o della crisi del settore degli scarponi da sci nel bellunese a seconda del contesto in cui si adopera; per Delirious New York questo tormentone è applicabilissimo senza nemmeno cadere nel narcisismo denso di pathos del filosofo veneziano. Chi non ha letto Koolhaas nulla potrà capire del tempo presente, dunque, e questo è determinato dal fatto che il libro di Koolhaas oltre a fare una storia, "una psicoanalisi storica" dice Marco Biraghi, ottimo curatore del testo e autore di un saggio limpido, prova a colmare già nel 1978 l'empasse inevitabile del sistema logico in cui si erano mosse le avanguardie.



Delirious New York
è una porta che si apre verso un futuro differente da quel "linguaggio da battaglia" di cui Tafuri decreta la fine, usando Roland Barthes, nel saggio per il libro dei Five architects. In un contesto in cui la lingua dell'architettura non riesce più a rimandare a un senso compiuto e ogni rilettura del movimento moderno non può più essere che una rappresentazione di quello che non c'è più, il proposito di Koolhaas di fare un manifesto è rivoluzionaria. Un salto logico copernicano che ribalta lo stato delle cose, in questo senso il manhattanismo è l'anti-moderno, è una modernità senza rimandi alla rivoluzione: è la rivoluzione che si instaura come consecutio logica e non come conseguenza di una sospensione del tempo storico. Una rivoluzione senza rivoluzione: è materializzazione di quel Le Corbusier, con cui Koolhaas è costretto a continuare a lottare come si combatte un maestro che non è voluto, ma a cui non può fare a meno di cercare di dare lo scacco decisivo, che dice che si può fare architettura senza rivoluzione (così si chiude Verso un'architettura, l'ultimo manifesto prima di Delirious New York) senza la necessità rivoluzionaria di abbattere il passato, il centro di Parigi o di New York in cui Le Corbusier stesso rimane intrappolato.



Il salto è nell'accettazione della crisi come condizione esistenziale, il rifiuto di combattere la post modernità, aver inteso l'inservibilità del sistema dialettico. Il manhattanismo contiene in se le coppie opposte: è rivoluzione e conservatorismo estremo, è destra e sinistra, contiene in sè la crisi e riesce a parlare lo stesso, anzi solo grazie a questa esperienza.



Mentre la ricerca italiana più sofisticata condotta a Venezia dalla scuola tafuriana si blocca a valutare il grado di ironia semantica (gli "scherzi di Koolhaas" li chiama Tafuri ne La sfera e il labirinto) del giovane progettista olandese, una nuova generazione sta elaborando il lutto per la perdita del valore. Koolhaas accetta la dicotomia e ri-costruisce un manifesto per la condizione di duplicità. Operazione molto simile a quella condotta negli stessi anni da Bernard Tschumi che farà del Paradosso un luogo di progetto, anzi IL luogo dove si può progettare. Il paradosso tschumiano è il luogo dove gli opposti convivono. Quello è il nuovo spazio per la ricerca, per una novitas vera, autentica, che possa non parlare la lingua del moderno: una lingua che effettivamente "non può più dire altro che del tradimento del moderno", per navigare a vista lungo rotte tafuriane.

Il manhattanismo è il paradosso; è il luogo dove non c'è guarigione, ma per riprendere Biraghi, è il malato che, mediante l'iniezione di dosi controllate di veleno, si riesce "per lo meno a non farlo morire". Questo mi appare il motivo per cui non viene compreso allora, soprattutto da chi sta ancora cercando una "diagnosi e terapia" al male della città (il testo omonimo di Donatella Calabi per l'edizioni Officina dirette da Tafuri è significativamente del 1979) o comunque si sta abbandonando in varie forme "a cullarsi nella dolcezza del ricordo" per riprendere parole di Tafuri alle prese con la ricerca del rinascimento e con la possibilità di evitare "di cadere nell'ansia di individuare vie di uscita che si risolve necessariamente nel creare nubi anestetizzanti".

Non so se la risposta di Koolhaas sia verso una "critica operativa", per riprendere un dubbio molto serio e molto lecito che ci propone il Biraghi, per il semplice fatto che non so se un manifesto possa non essere operativo: probabilmente si, vedendo ciò che è successo nel Novecento. Quello di Koolhaas non è, a mio avviso, un tentativo di dribblare la crisi tafuriana, cosa provata da Eisenman senza troppi risultati concreti nonostante la bellezza del gesto tecnico-ginnico-sportivo, ma è uno spostamento del piano di gioco. Parafrasando alcuni esempi di Tschumi, è il tentativo di giocare al pallone in una scacchiera: Koolhaas si presenta in perfetta tenuta da ciclista per fare il salto in alto dentro la fabbrica di San Pietro, e non è uno "scherzo": dal campo di gioco della sua Manhattan delirante con le regole messe a punto da Tschumi in modo paradossale, e quindi capaci di contenere tanti diversi giochi contemporaneamente, Koolhaas corre veloce sui suoi pattini e saltando mediante una racchetta da tennis prende il volo verso una realtà che stava arrivando: la nostra.

Giovanni Damiani
gdamiani@architecture.it
Giovanni Damiani, nato a Trieste nel 1972, si è laureato con lode presso lo IUAV di Venezia. Si occupa principalmente di teorie e storia dell'architettura e della città contemporanea. Ha fondato l'associazione e la rivista Pro.ve, ha lavorato con lo Zenobio Institute e collaborato scientificamente nel dipartimento di storia dell'architettura dello IUAV. Dopo diverse attività collaterali nella realizzazione di mostre, pubblicazioni e convegni è approdato a collaborare con architecture.it con il quale sta partorendo il nascente laboratorio di storia contemporanea, in http://www.architecture.it/it/laboratori/index.htm. Professionalmente ha collaborato con Michael Carapetian, zD6, studio Lamonarca e Bernard Tschumi architects.
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Questa pagina è stata curata da Matteo Agnoletto.






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