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Ecology of Fear. Los Angeles and the Imagination of Disaster





Mike Davis
"Ecology of Fear. Los Angeles and the Imagination of Disaster"
Vintage Books
USA 1999
pp484, $11.20

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Mike Davis, severo e acuto interprete dell'urbanistica di Los Angeles, è noto al pubblico italiano interessato al caso della megalopoli californiana. Nel 1994 già circolava il librettino Agonia di Los Angeles (Datanews, Roma) che raccoglie due brevi saggi i cui titoli originali, "L.A. was just the beginning" (1992) e "Beyond Blade Runner" (1994), lasciano intuire il tono critico che li caratterizza. Ma con City of Quartz, il testo pubblicato dalla casa editrice londinese Verso nel 1990 e tradotto tre anni dopo in lingua italiana (La Città di Quarzo, Manifestolibri, Roma 1993), Davis getta una nuova luce, a meglio un'ombra, sull'immagine paradisiaca che le agenzie turistiche offrono di questa megalopoli.

La complessità di Los Angeles aveva già interessato parecchi studiosi negli anni '60 e '70. Nella biblioteca di ogni studente di architettura californiano non possono certo mancare testi quali L'immagine della città di Kevin Lynch (The Image of the City, 1960) e Los Angeles. Architettura delle quattro ecologie di Reyner Banham (Los Angeles. The Architecture of Four Ecologies, 1971).

Con Ecology of Fear, Davis firma un'ulteriore denuncia nei confronti dell'amministrazione della città angelena che per decenni ha permesso che l'urbanistica seguisse le più feroci leggi di mercato trascurando, oltre alle necessità di ordine sociale, anche il comune buon senso ambientale.

Il testo esordisce con una frase citata dal "Los Angeles Times" nel 1934: "No place on Earth offers greater security to life and greater freedom from natural disaster than Southern California". (Nessun luogo al mondo può vantare una maggiore sicurezza e mancanza di calamità naturali di quanto possa fare la California meridionale). L'incipit ha chiaramente un tono ironico. Le pagine che seguono, infatti, ci conducono all'interno di un Apocalypse Theme Park dove i cataclismi sono quasi all'ordine del giorno: fatali inondazioni, violente frane e indomabili incendi colpiscono con crudele frequenza la società del benessere che popola le colline di Malibu; periodi di piogge torrenziali da clima monsonico si alternano a stagioni di siccità e causano straripamenti del Los Angeles River con conseguenti danni alle comunità limitrofe; imprevedibili terremoti si sviluppano lungo la famigerata Faglia di Sant'Andrea; tornado di intensità inferiore, ma molto più frequenti, rispetto a quelli dell'Oklahoma o del Kansas si sono abbattuti in ben cento occasioni dal 1950 nella California meridionale senza causare, miracolosamente, vittima alcuna; e la presenza di coyote, orsi, puma, linci e altri animali selvatici nel giardini delle villette che danno luogo allo sterminata urban sprawl angeleno dovrebbero far riflettere sul fatto che probabilmente c'è qualcosa di anomalo nel rapporto della metropoli con il suo ambiente naturale.

È proprio questa la conclusione cui Davis giunge in questo suo libro così esaurientemente documentato con testimonianze e ricerche. "Paranoia about nature, of course, distracts attention from the obvious fact that Los Angeles has deliberately put itself in harm's way" ("La paranoia riguardo le calamità naturali ovviamente distoglie l'attenzione dall'evidente fatto che Los Angeles si è messa deliberatamente in una condizione pericolosa"). I danni incommensurabili correlati a calamità natural quali inondazioni, incendi e terremoti, potevano (e potrebbero) in sostanza essere evitati, così come le famigerate sommosse del 1992 successive al caso Rodney King avrebbero potuto non aver mai luogo. E proprio qui sta Ia forza del libro: nella capacità dell'autore di trovare una correlazione tra le ingiustizie sociali e le catastrofi naturali.

Il lettore viene così a scoprire che l'amministrazione comunale ha per decenni optato per miopi scelte urbanistiche che hanno solo portato vantaggi di breve periodo agli speculatori edili mentre hanno irreparabilmente alterato l'ecosistema. Nonostante le consulenze offerte da Frederick Law Olmsted Jr. (figlio del progettista del Central Park di New York City) negli anni '30 e di Garret Ekbo negli anni '70, la città si è sempre rifiutata di adottare un sistema di zonizzazione che tenesse conto della presenza di aree ad alto rischio ambientale. I danni causati dagli incendi di Malibu sarebbero molto facilmente evitabili se si facesse a meno di antropizzare questa sezione delle Santa Monica Mountains il cui equilibrio è tanto precario: quasi regolarmente nei mesi di settembre e ottobre un vento caldo proveniente dal deserto (Santa Ana) spira in direzione dell'oceano e si incanala nei canyon della zona di Malibu, dando luogo a implacabili incendi alimentati dalla secca vegetazione dei pendii. E l'apertura della Pacific Coast Highway nel 1928 ha introdotto l'uso dell'automobile, ulteriore causa di incendi, all'interno di quest'area altamente infiammabile.

Le inondazioni del Los Angeles River non avrebbero mai avuto luogo se negli anni '40 l'amministrazione comunale fosse stata più lungimirante e, anziché decidere di creare posti di lavoro attraverso l'opera di cementificazione del letto del fiume, avesse ascoltato le proposte di Olmsted di mantenere a verde la zona limitrofa alle sponde del principale corso d'acqua di Los Angeles. Le spese spropositate che devono essere affrontate in seguito ad ogni terremoto sarebbero di ordine notevolmente inferiore se si evitasse di urbanizzare zone ad alto rischio sismico e se si rispettassero elementari regole di ingegneria strutturale nelle costruzioni multipiano.

Nei film o nei romanzi che vedono Los Angeles come protagonista, questa lunga serie di calamità naturali rappresenta una sorta di catarsi per la megalopoli californiana. Mentre, infatti, la distruzione di Londra o New York in narrativa ha sempre rappresentato la tragica morte della cultura occidentale, nel caso di Los Angeles il suo annientamento è stato interpretato (sin dai tempi di Ape and Essence, romanzo di Aldous Huxley del 1947) come una vittoria per la civiltà. In un continuo parallelo con il mondo della letteratura, Mike Davis giunge a comparare Los Angeles e le sue difficili contraddizioni sociali con le situazioni descritte da Charles Dickens nelle sue osservazioni sulla Londra industriale.

E finalmente nelle ultime pagine del libro l'autore svela il significato del titolo che ha scelto per il suo libro: Ecology of Fear. Il riferimento non è chiaramente rivolto solo a tematiche di tipo ambientale, bensì ad una reinterpretazione degli studi che la Scuola di Chicago, e in particolare Ernest W. Burgess, ha condotto negli anni Venti relativamente alla ecologia sociale della tipica "città del Nord America". Il diagramma di Burgess, realizzato trasponendo le teorie di Darwin nel campo delle scienze sociali, viene reinterpretato da Davis in modo da adattarlo al caso di Los Angeles: ai classici fattori determinanti la sopravvivenza del più forte all'interno della città (reddito, classe, razza, ecc.), ne viene così aggiunto uno nuovo -la paura- che dà luogo a quella che Davis definisce una vigilantopolis.




Reinterpretazione del diagramma di Burgess, adattato al caso di Los Angeles.


Un cupo futuro quello verso cui sembra proiettata Los Angeles (che già oggi vanta la presenza di 500 quartieri controllati e enclaves residenziali, 2.000 gang, 20.000 sweatshop e 100.000 senza tetto); e decisamente troppo ottimistiche sono le immagini offerte dal piano per Los Angeles 2000 che la dipingono come una moderna Alessandria, trionfalmente collocata al crocevia delle comunicazioni globali del ventunesimo secolo. In realtà il futuro di Los Angeles è rappresentato da Newhall Ranch, un'altra iperprotettiva città ideale del sogno americano che segue nella concezione lo schema della comunità di Seaside a della disneyana Celebration, entrambe fondate in Florida. Insomma, parafrasando Henry Miller, più "un incubo ad aria condizionata" che la materializzazione di un'armoniosa e serena utopia.

Paola Giaconia
paolagiaconia@infinito.it
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Questa pagina è stata curata da Matteo Agnoletto.






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