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Metamorfosi dello spazio.
Annotazioni sul divenire metropolitano




Patrizia Mello
"Metamorfosi dello spazio.
Annotazioni sul divenire metropolitano"
Bollati Boringhieri
Torino 2002
pp 153 Euro 13,00

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Nella fissità dello schema con il quale da anni si descrivono o si esaltano alcuni modi che assume la trasformazione dello spazio urbano e metropolitano, questo libro introduce una utile serie di screpolature, grazie all'intreccio tra diversi aspetti: le modificazioni spaziali, e la loro valutazione; i disagi del vivere la condizione presente, e la sua accettazione; la progettualità dell'architetto.

Negli anni '80 qualche voce isolata (specialmente Virilio; ma ricordo un mio scritto del 1982, "telematica e città virtuale") censiva e criticava via via le modifiche spaziali per le quali dalla città del novecento attraverso la città-intervallo si stava passando alla frammentarietà dell'area metropolitana, della città-metropoli, della città in genere. Oggi Koolhaas ci rovescia addosso l'amaro canto che coinvolge nel junkspace tutta la città, l'architettura e la società. In mezzo, da una decina d'anni abbiamo invece assistito ad un'ondata di produzioni, ammantate da civetterie filosofiche o antropologiche a sfondo estetico, che elogiavano, o esaltavano, tutta una serie di nuovi dispositivi spaziali e di civiltà: i parchi tematici, Disney, i centri commerciali, la vita in autostrada (da non automobilista la chiamo l'ebbrezza del parabrezza), la superiorità del virtuale sul reale e comunque la sua inescapabilità, la periferia che da margine disprezzato o da soglia di nascondimenti sociali si fa ambita primizia del nuovo modo di vivere. E ancora, la società dello spettacolo, dell'immagine, del consumo, del tempo libero. 

Il libro di Patrizia Mello racconta tutto ciò, ma spesso soffermandosi, dopo aver dato conto dei diversi temi, ad evidenziarne alcuni aspetti critici. Rincarando la dose, dirò che negli ultimissimi anni gli aspetti critici non si possono più nascondere. Da autori americani che osservano la realtà della condizione urbana postmoderna, i parchi a tema sono visti come meno importanti; di molti centri commerciali si evidenzia il declino; le urbanizzazioni disneyane, il new urbanism e il neo-tradizionalismo krieriano vengono a volte ridicolizzati e tacciati di elitismo falso-populista; delle privatopie si evidenzia la povertà sociale; l'assenza di alternative è bollata da Peter Marcuse come un ragionamento limitato e timido. E la e-topia dell'ultimo Mitchell somiglia troppo al new urbanism per commuovere. In Italia, l'insediamento diffuso presenta gravi difetti, mentre, nonostante il fascino estetico del paesaggio autostradale e dell'estensione indeterminata del metropolitano, l'assetto di tipo urbano richiama di nuovo l'attenzione, senza che si tratti sempre del santino di museificati e ridicoli centri storico-turistici, e senza che la città appaia, almeno a tutti quelli che non ne asseriscono l'avvenuta scomparsa, come composta di isole o paesi o comunità separate.

Il legame che il libro stabilisce tra disagio per l'obbligatoria sottomissione a molte di queste innovazioni, disagio esistenziale del vivere lo spazio oggi o del vivere comunque, e tema delle patologie e dell'evasione, introduce una dimensione filosofica non sempre facile, che tempera motivatamente quelle critiche. Mentre ci aggiriamo nel labirinto di foucaultiane eterotopie, fuori dalle quali è arduo sapere se esista ancora una topia "normale", e se sia legittimo aspettarsela in un fluire di dislocazioni spaziali, alterità, attraversamenti - caratteri permanenti dell' esistenza tanto che la "disponibilità" a deterritorializzarsi (p. 48) può diventare un vanto - non possiamo non dar peso all'argomento che trascorrendo dentro alle eterotopie vi sono anche possibilità di cambiamento; o all'argomento che le possibilità del mondo virtuale debbano impegnare anche l'architetto ad una responsabile ricerca concettuale, e anche pratica, politica e sociale.

Tuttavia, molti non riescono ad eliminare il peso delle costrizioni spesso immotivate che le trasformazioni spaziali impongono al quotidiano, e non sanno vietarsi, in nome di pervasive teorie o filosofie ancora in discussione, di avanzare critiche. Non è neofobia o luddismo: l'accelerazione dei cambiamenti pone alla fisicità umana stress ben diversi dal vecchio adagio "il mondo cambia". Esaltare il frammento, l'artificio (il sostantivo esime dalla necessaria distinzione tra artificiale e artificioso), non è ancora un obbligo, come non lo è la responsabilizzazione quasi sacerdotale che - secondo Margaret Wertheim - occorrerebbe verso la "comunità" del Web per accedere alle porte del paradiso cyberspaziale.

Il libro sceglie le argomentazioni usate da architetti come Jean Nouvel o Toyo Ito per alcune loro magnifiche realizzazioni - che piacciono anche a chi di quelle argomentazioni non è al corrente - per mostrare la possibilità che consapevoli e responsabili concettualizzazioni della società dell'immagine, della dislocazione, della multimedialità, diano risposte progettuali adatte ai tempi. Ma aggiungiamo qualcosa. Di fronte a qualche residua perplessità, il libro di Patrizia Mello, esaltando "il concetto di "trappola" che lo spazio costruito (così come lo spazio di tutta la nostra esistenza) si porta dietro" (p. 66), ha un particolare pregio: potrà stimolare il dibattito.

Se proviamo a separare istanza esistenziale da un lato e insopportabilità di alcune trasformazioni spaziali dall'altro, e se accogliamo come elemento fertile del libro la sottile inquietudine derivante dalla continua oscillazione tra evasione ed accettazione dello spazio, si può dar luogo a qualche presa di distanza (per quanto poco efficace nella civiltà di gestione aziendale mondiale) da cose forse non tutte inevitabili, totali, immediate: tra queste, il superamento della città che deriverebbe dalla modificazione dell'organizzazione del lavoro e dell'economia, come non vi fossero ragioni sociali e storiche dell'aggregarsi in città e non fossero ancora utili spazi di tipo urbano. O si possono esplorare altre teorie, come quella del persistere dell'ambivalenza di un progetto di forme col differimento della realizzazione della funzione, come spiega Andrew Benjamin trattando di Eisenman. Oppure, si potrà dar credito ad architetti che pur non riferendosi puntualmente a filosofie postmoderne - che spesso sembrano gergali formulette burocratiche, lontane dalla libertà della condizione postmoderna -, inseriscono il progetto nella cultura contemporanea (penso a Edmund Bru, che respinge Koolhaas come cinico, e progetta cose moderne tenendo conto della postmodernità; o a Tilman che propone in Olanda fasi intermedie tra la città che scompare e l'urbanizzazione futura). Infine, si potrà ragionare sull'autoreferenzialità dell'architettura. Quest'arte appare sovente in crisi. 

La provocazione o l'incendio che Baudrillard o Betsky propongono come compito all'architetto possono trovare qualche limite di fronte alla consapevolezza - come in Beatriz Colomina - che l'architetto è stato soppiantato dal mondo dei media nel vecchio prestigioso ruolo di leader dell'immaginario, e, per riemergere, proprio a questo mondo deve attaccarsi. Sono alti i rischi che un generale clima anestetico soppianti l'estetica, anche nell'architettura. Chi pure progetta per il mondo della moda ci tiene a distanziarsi - come Tadao Ando in una dichiarazione del marzo 2002 - dal mondo del commercio ("quando riducete il ruolo principale dell'architettura all'economia, l'architettura perde molto del proprio potere").

L'architettura conserva una propria specificità, ma non la sovranità di un mondo dove operano altre componenti, e altri modi di studio della società e di interpretazione dello Zeitgeist. L'architetto e l'urbanista dovranno guardarsi - sostiene Christine Boyer in Cybercities - da un'eccessiva mescolanza di tecnologia, fantascienza, e filosofia. Una gran quantità di fruitori sa vivere con semplicità, e forse con inconsapevole ma articolata disinvolta valutazione, la quotidianità del nostro tempo.

Michele Sernini
mik.sernini@iol.it
[23set2002]

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