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Architettura, tecnica, finalità



Vittorio Gregotti
"Architettura, tecnica, finalità"
Editori Laterza, Bari, 2002
pp143, €9,50

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"Non si può svolgere, o tentare di svolgere, un’analisi storica e soprattutto critica della tecnica dell’attore se all’attore manca una «poetica»; perché è in essa, nei temi attraverso cui si sviluppa, che la «tecnica» acquista spessore e significato, diventa «stile»" dice Dario Fo introducendo un suo saggio su Totò. Le questioni intorno alle tecniche quali mezzi di produzione di un opera artistica, disvelamento di un evento, e quindi raggiungimento di fini, sono sempre state un nodo fondamentale del pensiero teorico come della prassi operativa. Perché in qualche modo sono i rapporti tra mezzi e finalità, i loro delicati equilibri, che anche attraverso la poetica hanno fatto e fanno delle opere umane eventi narrati e narrabili in modi diversi, simili e dissimili, paralleli e contrapposti.

"Io credo - dice Gregotti esplicitando la sua tesi - che la tradizione del moderno in architettura abbia costituito nei primi trent’anni del XX° secolo, con le proprie illusioni ideali generose, nell’incontro aperto alle nuove tecniche di produzione e con il metodo proposto per passare dai problemi alle forme, una forte tensione verso ciò che io considero finalità ma nello stesso tempo un crinale al di là del quale la forza delle contraddizioni delle sue stesse proposte abbia cominciato a dissolvere l’ontologia stessa dell’architettura, proponendo nello stesso tempo un uso istituzionista e puramente ornamentale delle tecniche o una totale coincidenza con esse in quanto contenuti e finalità oltre che in quanto strumenti." Schematicamente, e ovviamente a fini puramente strumentali al suo discorso, distingue tre aspetti delle tecniche nel fare architettonico: "tecniche materiali" (riferite a scelte strutturali, di materiali, lavorazioni e messa in opera), "tecniche dell’organizzazione" (riferite a dimensioni e relazioni gerarchiche dei singoli spazi e il loro insieme organico, ma anche a metodologie, procedure, processi, programmi), e "tecniche morfologiche" (riferite alla conformazione delle singole parti in opera unica), che tutte insieme concorrono all’evento finale, perché a qualunque cosa la si voglia riferire, la tecnica è fondamentalmente un modo di agire, sapere, e saper agire, il cui scopo è quello di raggiungere uno o più obiettivi: le finalità dell’azione propulsiva. "Nel caso dell’architettura la finalità ha anche specialissime connessioni con l’idea di uso come materiale essenziale per la costituzione della finalità stessa. Questa a ogni modo si presenta al di là dei suoi stessi contenuti intenzionali, solo nella forma dell’opera compiuta, che certamente necessita di una intenzionalità originaria ma si libera di questa una volta che l’opera è terminata". 

In realtà si può affermare che in qualche modo la tecnica ha sempre seguito, per così dire, le esigenze delle finalità, e contemporaneamente che il suo sviluppo ha aperto a nuovi orizzonti l’ambito dei fini perseguibili. Il termine greco tekné veniva usato per indicare sia l’arte che il lavoro manuale, forse inteso non solo come operare pratico ma anche come modalità del sapere e del disvelamento. E per i greci l’arte, e quindi la tekné, rappresentava "l’unico campo in cui applicare la matematica e la geometria, in quanto scienze della precisione, al mondo fisico". Invece per i romani, grandi maestri del costruire che spesso non sappiamo se definire architetti o ingegneri, la tecnica era un "materiale espressivo centrale".
Bertrand Gille riferendosi al ponte in muratura, sostiene che questo "fu senza dubbio una novità romana, e la generalizzazione della volta la favorì e ne assicurò il successo".
A partire infatti dagli enormi blocchi semplicemente sovrapposti delle opere ciclopiche, l’evoluzione della struttura muraria denota la ricerca di una messa in opera meno complessa e, ovviamente, della maggior resistenza possibile.

Il fatto allora che i romani abbiano sperimentato malte migliori di quelle dei loro predecessori per la costruzione di strutture con materiale di piccole dimensioni, è concausa e allo stesso tempo conseguenza dell’uso che essi hanno fatto del laterizio per raggiungere le loro finalità. Infatti, data la loro organizzazione politica, essi svilupparono le comunicazioni terrestri in tutto l’impero in modo che corrieri e truppe potessero spostarsi in ogni circostanza e luogo, e questo diede al ponte quantomeno una maggiore importanza che per i greci, per cui la comparsa di queste costruzioni - in questo caso infrastrutture ma in altri casi di monumenti o edifici in genere - è sicuramente frutto di una certa condizione politica, sociale, nonché economica e culturale. Negli edifici medievali invece sembra che la tecnica sia piegata alle esigenze di un’attività comunitaria di fabbricazione, perché lo sviluppo dell’autonomia delle città e della loro dimensione, porta le chiese urbane medievali a non essere più soltanto luogo di culto, ma anche luogo di assemblee pubbliche, feste e riunioni popolari, per cui bisognava avere una maggiore penetrazione di luce e aria, e una migliore circolazione interna, quindi una frantumazione della struttura portante ed una sua riduzione in termini di spazio occupato, fino alla puntualità degli elementi.
"Ancora una volta i fattori umani - politici ed economici - erano alla base di una situazione che avrebbe poi avuto serissime conseguenze nel campo dell’architettura e delle scienze strutturali. Due secoli più tardi, proprio nell’Île-de-France nacquero i primi studi di scienza delle strutture; gli stessi che ci hanno portato direttamente alle nostre recenti vittorie contro la gravità e contro il vento" fa notare Roland Bechmann.

L’Umanesimo e il Rinascimento fanno progressivamente del progetto una "tecnica decisionale" cioè un discorso preciso che segna un percorso che spiega una tesi in cui "l’esecuzione è un atto separato anche se organico" al momento ideativo.
Poi "l’arte diviene per molti un modo di essere della scienza", l’artista diventa artista-ingegnere, quindi ingegnere-scienziato, poi ingegnere-filosofo, fino a quando, alla fine del XVIII secolo, tornerà ad assumere un ruolo centrale "mettendo a disposizione delle arti le nuove tecniche scientifizzate". Potremmo dire, facendo sicuramente un’altra semplificazione della storia dell'uomo, che da Watt in poi l'uomo per lavorare ha avuto bisogno di imparare ad usare una macchina, e che quindi il suo lavoro è andato progressivamente trasformandosi, quasi coincidendo con l'uso della macchina che gli è ormai indispensabile allo svolgimento del lavoro stesso. E ciò ha certamente contribuito al cambiamento del peso relativo che le tecniche hanno nei processi creativi in generale.
Per quanto riguarda lo specifico architettonico Gregotti sostiene che andando oltre il loro essere "materiali essenziali del fare", le tecniche sono divenute "prima contenuto preminente e poi assoluto", quindi "in qualche modo anche «finalità»".

A partire dai primi decenni del secolo scorso, con le particolari condizioni politico-economiche, l’architettura e l’arte in genere, cioè pensieri e processi del loro disvelamento, vengono in particolar modo influenzate dai modelli metodologici e morfologici della macchina e dalle tecniche della produzione di massa, al punto che anche le scelte figurative riferibili al Movimento Moderno, sembrano poter essere ricondotte a slogan come assenza (?) di decorazione, visibilità strutturale, nuovi materiali, geometrie semplici. "L’architettura si è fatta prima manufatto-oggetto temporaneo da distribuire indiscriminatamente sul territorio, poi carrozzeria del sistema di flussi, e infine sempre più immagine provvisoria, traccia di un senso senza senso, scenografia da smontare e rimontare per fingere la presenza dell’immaginazione".

Oggi, sostiene Alicia Imperiale, "continuità di superfici, fluidità, dinamicità, sono concetti ormai presenti nei vocabolari delle discipline urbane contemporanee. Essi sono parole e concetti che segnalano ed individuano uno spostamento nel rapporto tra uomo e tecnologia, un rapporto che sembra sempre più muoversi verso una dissoluzione di tale distinzione". Nell’era dell’informazione, poi della post-informazione, tutto può essere virtualizzato ed eventualmente digitalizzato: è solo una questione di metodo, e il grado di affidabilità della virtualizzazione dipende dall'approccio, dalla strategia, dal campionamento, dal numero di variabili messe in gioco, dalle tecniche adottate. "La tecnica sembra essere divenuta invasiva e invisibile proprio a causa dell’immaterialità dei processi e del concentramento di interessi verso tecniche di programma, provvedendo alla sostituzione dei valori con la simulazione dei comportamenti - dice Gregotti. I mezzi sono diventati definitivamente fini". Può darsi. I dubbi, le paure e le certezze che esprime, possono essere non condivise, ma sono certamente punti di riflessione autorevolmente fondati.
Però il mondo che era fatto di flussi di merci, di beni, di cose, e quindi di atomi, immancabilmente si trasforma in uno che sempre più sarà fatto di flussi di informazioni, di bit, come ha giustamente notato Negroponte. E in questo being digital tutto diventa più fluido, modificabile, flessibile, fino a diventare sfumato, imprecisato ma precisabile all’occorrenza, non più adattabile ma riconfigurabile.

A questo naturalmente non potevano sfuggire l’architettura, la concezione dello spazio in genere, e i loro essere portati alla presenza. Inoltre la reintroduzione di "una certa dose di pensiero magico nelle nostre azioni" alimenta altre fantasie e ulteriori consapevolezze di problematiche che trasformano nuove competenze in nuove progettualità.

Arcangelo Casillo
casillo@unina.it
 
[18oct2002]
   
Arcangelo Casillo, architetto libero professionista e dottore di ricerca in Tecnologia dell’architettura, partecipa alle attività del Dipartimento di Progettazione Urbana dell’Università Federico II di Napoli. Dal 1993 si occupa del connubio tra architettura e informatica, a cui si è avvicinato con una tesi di laurea sperimentale in progettazione architettonica assistita, e che ha approfondito con la ricerca di dottorato (Spazio e ciberspazio: dall’ambiente reale all’ambiente digitale. Nuovi ambiti per il lavoro dell’architetto), e con la collaborazione alle attività didattiche del DPU, e alle docenze in vari progetti di formazione. Ha diverse le pubblicazioni al suo attivo, la più recente delle quali è una recensione a L’architettura dell’intelligenza di Derrick de Kerckhove (testo&immagine, Torino, 2001), è pubblicata in Op.Cit. n. 115, Electa Napoli, settembre 2002.
 
 
   
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Questa pagina è stata curata da Matteo Agnoletto.






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