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Nel Marais di Yokohama |
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Ferrè, Sakamoto, Kubo with FOA "The Yokohama Project - Foreign Office Architects" Actar, Barcellona, 2002 pp. 320, €30,00 |
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Torna alla mente la
vicenda del Centre Pompidou: un importante concorso internazionale, la
richiesta per un edificio complesso e in grado di rispondere ad un
variegato mix di funzioni, la vittoria di una proposta audace e
innovativa, portata avanti da un gruppo di trentenni, stranieri e di
nazionalità diverse. Corre l'anno 1971, e la "macchina" ideata dai
giovanissimi Renzo Piano e Richard Rogers viene scelta per il Plateau
Beaubourg Centre Paris, nel cuore del quartiere del Marais. Seguiranno
sei anni di cantiere, e altrettante cause intentate per bloccare
l'opera. Contro il "mostro" dalle possenti travi di acciaio si levano
più voci di dissenso, una della quali denuncia la presunta inadeguatezza
del presidente della giuria, Jean Prouvé, colpevole di essere un
ingegnere e non un architetto. La struttura dell'edificio è fin da
subito l'occasione per dichiarare l'estraneità del complesso rispetto al
tessuto storico della città: lo spazio liberato dalla fabbrica culturale
concepita da Piano e Rogers -cinque piani coperti con campate di
cinquanta metri senza pilastri intermedi, e più di quattro ettari di
spazi pedonali adiacenti- apre un'inedita voragine di possibilità d'uso
all'interno del corpo antico di Parigi e diventa l'emblema della nuova
stagione dell'architettura, più interessata alle modalità d'uso dello
spazio che al rispetto del suo apparato di regole formali. "Se lo
spirito del Beaubourg è più vicino a quello del supermercato che a
quello del tempio- dirà Piano- tanto di guadagnato." Quella di oggi è invece una vicenda che risale al 1994, quando l'autorità portuale di Yokohama bandisce il concorso per il nuovo terminal passeggeri della città giapponese. Un progetto di cui si parla molto sin dall'inizio: per via del programma, complesso e interessante, che attira architetti da tutto il mondo (660 entries da 41 paesi) a cimentarsi con il tema dell'edificio-infrastruttura esteso su una superficie di oltre 400 mila metri quadri; ma ancor più per l'esito, e cioè il primo premio che la giuria presieduta da Toyo Ito assegna alla coppia dei giovani Farshid Moussavi e Alejandro Zaera-Polo -spagnolo lui, iraniana lei, che a Londra hanno appena fondato, nome omen, lo studio Foreign Office Architects- per una proposta così originale "da non assomigliare nemmeno ad un'opera di architettura", confesserà Ito dopo il verdetto. Ma le immagini e i disegni del progetto iniziano subito a fare il giro del mondo. Il terminal è una sorta di enorme molo articolato su più livelli. Ma tra un piano e l'altro non ci sono né pareti, né pilastri, né scale. Soltanto una serie di superfici che si piegano a più riprese e generano una sequenza di spazi continui: da quelli carrabili del parcheggio e dello scarico delle merci, alle hall e i foyer con i servizi per i passeggeri, sino alla copertura in parte verde e quasi interamente praticabile, che conferisce all'edificio visto dall'esterno l'aspetto di un grande parco urbano ormeggiato nel porto della città. Dopo un lungo periodo di gestazione -e di resistenza all'alternarsi di diverse amministrazioni comunali - il complesso è stato finalmente inaugurato, e un importante evento editoriale ne ha accompagnato recentemente la presentazione al pubblico internazionale, prima a Venezia, nel padiglione inglese dei giardini della Biennale, poi alla Fiera del libro di Francoforte. The Yokohama Project, primo volume della nuova collana Verb Monograph edita da Actar e dedicata programmaticamente a singoli progetti, è però un libro sui generis. Costruito come una replica del modo in cui l'edificio è stato sviluppato dal team dei progettisti, esso utilizza come canovaccio la sequenza dei documenti tecnici convenzionalmente richiesti nei contratti. Lo scopo di questa struttura, ci dicono gli autori, è duplice: da una parte descrivere il processo che ha portato allo sviluppo del progetto come crescita di idee a partire da una serie di condizioni materiali, più che come verifica di costrutti teorici o formali predefiniti. Dall'altra cercare di riscoprire l'utilità della sequenza lineare dei documenti tecnici (il basic design, il progetto delle strutture, quello degli impianti, le prescrizioni normative, i dettagli, e così via), un terreno di comunicazione delle idee progettuali alternativo all'uso ambiguo di concetti e immagini che spesso l'architettura in versione editoriale porta con sé. Il libro diventa allora un concept album, che mostra in copertina il tema da sviluppare - il diagramma dei flussi e delle funzioni che si avvicendano dall'imbarco dei traghetti sino all'arrivo in città e viceversa - e racconta via via la storia (o meglio l'epica, come la definiscono eroicamente i FOA) della realizzazione dell'edificio. Si lavora sull'idea di spazio fluido e continuo, che dall'esterno si immerge nelle grandi hall in un continuum di rampe e di percorsi. Il sistema strutturale diventa il luogo preferenziale in cui verificare la rispondenza del progetto allo schema iniziale. La sequenza delle travi concave che ospitano le rampe di accesso, e delle grandi volte composte da pannelli triangolari in acciaio, non solo svela che l'edificio in realtà non replica pedissequamente la geometria topologica delle superfici continue computer-generated, ma dimostra quanto ai Foreign Office ordine, coerenza e trasparenza delle procedure premano molto più dell'affermazione del proprio genio artistico. Un po' costruzione navale, un po' origami, l'architettura torna ad essere, in un certo senso, una pratica artigianale. L'intero edificio è costruito infatti assemblando migliaia di pezzi di metallo, la maggior parte dei quali realizzata su misura. "Il contesto -diranno i FOA- è stato assimilato come un processo di organizzazione dei materiali, piuttosto che come un'immagine". Sensibili al rigore miesiano, certamente distanti dalla poetica espressionista di Utzon e Gehry, Moussavi e Zaera-Polo ci consegnano un edificio che segna un giro di boa nella ricerca architettonica contemporanea. Ed un libro che ne dimostra puntualmente il motivo, pur rinunciando ad includere testi critici e apparati esplicitamente teorici. Il terminal di Yokohama quasi non intacca lo skyline del città, ma ne prolunga la linea di costa sino al grande parco-spiaggia artificiale, che si immerge in un nuovo spazio pubblico da fruire in ampia libertà. Nelle lunghe rampe rivestite in legno, concave come enormi piste di bob, si apprezza la straordinaria intensità dello spazio organicamente prima esterno e poi interno. Nelle grandi volte metalliche e nelle attività che vi si svolgono sopra e sotto, si osserva la dimensione dell'architettura che non è nulla più che un punto di passaggio, "uno strumento per cambiare velocità tra modalità di spostamento", un campo di movimenti senza orientamenti predefiniti. "L'architettura non è un'arte plastica, -amano ripetere i FOA- ma l'ingegneria della vita materiale." Come al tempo il Centre Pompidou, oggi il Terminal di Yokohama è un biglietto da visita per questi architetti della nuova generazione, non solo in quanto verifica con pienezza il processo di realizzazione di un edificio radicalmente innovativo sin nella sua concezione. Ma perché ancora una volta mette in discussione l'architettura come qualcosa di finito e di simbolico. E allo stesso tempo -come riconoscerà ancora Toyo Ito già prima dell'inizio della costruzione- nella sua espressione 'non-architettonica' dimostra, in un modo ancor più diretto e radicale, le qualità che l'architettura di oggi dovrebbe avere. Gabriele Mastrigli gabriele.mastrigli@iol.it |
[02nov2002] | |||
La presente recensione è stata originariamente pubblicata in ALIAS, inserto culturale de Il Manifesto con il titolo “Il molo concettuale”. | ||||
Questa pagina è stata curata da Matteo Agnoletto. laboratorio
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