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Conversazioni con Giancarlo De Carlo



Franco Buncuga
"Conversazioni con Giancarlo De Carlo.
Architettura e libertà"
Eleuthera, Milano, 2000.
pp224, €13,94

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Il primo capitolo di una storia dello spazio architettonico. È forse questa la prima definizione che viene alla mente dopo la lettura delle Conversazioni con Giancarlo De Carlo. Il libro è il fantastico racconto di una vita. Un racconto fatto di città conosciute, amate e vissute. Un racconto di amicizie, di incontri, di affetti. Un libro-intervista che diventa una vera e propria indagine sullo spazio architettonico: De Carlo lo dichiara sin dall'inizio quando descrive, ancora bambino, l'incontro, reale o immaginario, con uno strano animale.

"Ma io ricordo con ancora più sicurezza che a un certo punto l'animale mi ha costretto a misurare lo spazio che avevo intorno, per capire bene dove ero e per trovare la via per fuggire. Ho avuto per la prima volta la coscienza della larghezza e dell'altezza, dei piani orizzontali e dei piani inclinati, dell'andare avanti e indietro su se stessa di una scala. […] Quella volta, confrontandomi con la lince svelta e astuta, ho imparato a misurare lo spazio, a cercare di comprenderlo e penetrarlo gettando sonde fuori dal mio corpo, in ogni direzione" (p. 29).

Ne "La stanza della felicità", uno degli ultimi film del cinese Zhang Yimou, il protagonista e i suoi amici costruiscono una finta stanza d'hotel in una grande fabbrica dismessa e rugginosa, in cui una ragazza cieca possa lavorare come massaggiatrice. Alla grande dimensione della fabbrica si contrappone la piccola stanza per i massaggi che la protagonista scopre ed esplora attraverso il solo uso delle mani. Un film tattile in cui è il corpo umano a descrivere lo spazio, a scoprire volumi, superfici e materiali. "Misurare un evento architettonico vuol dire riportarlo alla dimensione del proprio corpo e capirlo, oltre che con la mente, con i sensi: solo allora si apprezzano le dimensioni, e anche le qualità di un luogo; perché misurando si coglie l'insieme attraverso i particolari e viceversa" (p. 30).

Conversazioni è un libro proiettato alla vivacità della ricerca internazionale e distante anni luce dal vecchiume di molte posizioni accademiche italiane, come d'altra parte lo è stato De Carlo per tutta la sua vita. Nel libro De Carlo parla pochissimo della sua formazione universitaria. Racconta invece molti episodi e incontri avvenuti fuori dalle aule del Politecnico, l'amicizia con Giuseppe Pagano in primis, poi con Sereni, Insolera, Calvino, Vittorini. Parlando, prima che d'architettura, di mille altre cose. Tra le righe il messaggio che si legge è di non andar ad imparare l'architettura dagli architetti!

"La Scuola di Venezia era in quegli anni nel suo periodo magico. Era diversa perché Giuseppe Samonà –uomo intelligente e creativo che la dirigeva- stava portando a Venezia per insegnare i migliori architetti italiani. Si insegnava in modo del tutto sperimentale. Io ufficialmente tenevo un corso che di volta in volta cambiava nome, ma in realtà insegnavo architettura. Tutto era diventato libero e tutti eravamo in contatto costante con gli studenti. […] Molto più tardi sono diventato ordinario e questo mi ha aiutato a considerarmi un outsider, membro non effettivo della comunità accademica: che non mi è mai piaciuta perché è pigra, conservatrice, autoritaria e tendenzialmente mafiosa. Ho sempre dichiarato che insegnavo perché volevo stare a contatto con i giovani e perché attraverso loro forse potevo capire come cambia il mondo" (pp. 90-91).

 
[08mag2003]
 
Università di Urbino.


Nel 1969 De Carlo comincia l'avventura di Terni che si concluderà nel 1975. La progettazione del Villaggio Matteotti introduce un tema fondamentale per comprendere la sua opera e il suo pensiero: la volontà, parafrasando Tafuri, di creare dimore per l'uomo. Da qui la fede nel processo partecipativo al progetto d'architettura che va letto in continuità con la sua formazione anarchica, con le esperienze europee del Team X e l'insegnamento nelle scuole americane. Il Team X in particolare, formato dagli architetti dissidenti del CIAM di Otterlo, è pura "dinamite silenziosa". Il racconto che ne fa De Carlo è ben lontano dalla dimensione mitica che emerge dai (pochi) libri che parlano di questo periodo eroico dell'architettura contemporanea. Demitizzare un'esperienza fondamentale come quella fatta da De Carlo, Smithson, Van Eyck, Bakema e C., accompagnata a una vena ironica che caratterizza tutto il libro diventa l'occasione per introdurre un tema fondamentale nella ricerca di De Carlo: un'architettura fatta per l'uomo, un'attenzione alla fruizione umana dello spazio architettonico. Nel quartiere Matteotti a Terni ai futuri abitanti delle case, gli operai e le loro famiglie, vengono offerti gli strumenti per conoscere e comprendere la ricerca contemporanea sull'abitazione attraverso esempi, diagrammi e plastici; in questo modo essi diventano i protagonisti del processo progettuale.

Nel racconto della ricerca progettuale di De Carlo emerge una straordinaria fiducia in un'architettura fatta di volumi, fatta di spazio in cui l'attività umana possa manifestarsi liberamente. Lo spazio architettonico non è il semplice risultato di intersezioni di piani ma diventa la vera matrice del processo progettuale. È una lezione che l'architettura italiana non deve dimenticare, una lezione compresa da Rem Koolhaas nel progetto di concorso per la Biblioteca di Francia a Parigi ed esplicitata nel plastico di studio in cui i vuoti diventano i pieni.

"Gettando sonde fuori dal mio corpo", sono alcune parole che perfettamente sintetizzano l'attenzione di De Carlo verso la complessità della città contemporanea e la sua volontà di comprenderne le nuove leggi. Il libro da questo punto di vista è composto da molteplici "carotaggi verticali", secondo una definizione cara a Stefano Boeri, sulle città che De Carlo ha incontrato e interpretato attraverso i suoi progetti. L'architettura di De Carlo deve formare ordine; si tratta però di definire ordini che trovano al loro interno delle proprie leggi, la propria complessità.

"Non ti sembra che si stia facendo di tutto per rendere lo spazio bidimensionale? […] Lo spazio fisico tridimensionale è il più sicuro riferimento che resta agli esseri umani per comprendere e indirizzare la loro esistenza. Come potrebbero ricordare e raccontare senza riferirsi allo spazio fisico che avvolge le loro azioni e i loro pensieri?" (p. 222).

Paolo Panetto
p_panetto@virgilio.it
 
 

Questa pagina è stata curata da Matteo Agnoletto.






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