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Baracche marine ai margini di un porto



Elena Rosa
"Baracche marine ai margini di un porto"
neos.e, 2002
pp81,
€7,00

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Leggendo il libro di Elena Rosa viene alla mente una rara foto di Le Corbusier che, ormai vecchio, completamente nudo, siede nel suo cabanon sul mare a Cap Ferrat e disegna a mano libera su un minuscolo tavolino, forse dopo aver fatto una nuotata o aver preso il sole.

Così è strano pensare che le più incredibili e visionarie immagini dell'architettura di questo secolo siano forse nate nella solitudine e nella precarietà di un capanno in legno di 2 metri per 3, dove Le Corbusier passava parecchio tempo, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, trasformando l'ozio e la vacanza in una più acuta forma di concentrazione per le sue immagini di città future.


 
Sulla costa ligure, tra Savona e Vado, le mappe e le descrizioni di Elena Rosa, ci segnalano la presenza di 18 insediamenti di baracche, capanni, ricoveri; in tutto si tratta di circa trecento esemplari di manufatti precari e autocostruiti che occupano moli, spiagge, banchine, aree industriali dismesse o sottoutilizzate, cantieri navali.

[17mar2003]





  Baracche marine ai margini di un porto -edito da neos.e di Genova nel 2002, 81 pagine, €7,00- raccoglie un paziente lavoro di ricerca e di osservazione, lavoro che ha visto una prima parziale formalizzazione nella tesi di laurea dell'autrice e poi, arricchitosi di nuovi materiali, ha dato luogo a questa pubblicazione.

Il lavoro di Rosa osserva le tracce di un uso marginale e nascosto dell'area savonese a partire da materiali deboli e precari, all'apparenza abusivi e disordinatamente disposti, ma in realtà nati secondo differenti logiche di razionalità minimale che connotano in maniera specifica ogni insediamento e sempre, o quasi, sotto l'egida dell'Autorità Portuale di Savona-Vado che, per ogni baracca, rilascia una concessione quadriennale che può essere rinnovata con l'obbligo di restituire il suolo nelle condizioni originarie in caso di revoca o di rinuncia.

Baracche marine ai margini di un porto, che fin dal titolo tradisce un impeto alla descrizione letterale del fenomeno che osserva, si compone infatti come un catalogo di mappe, disegni, abachi, sezioni, fotografie che registrano il dispiegarsi di queste architetture poste tra terra e mare. L'autrice si muove con pudore in questi tessuti fragili ma capaci di durare nel tempo (alcuni di queste aree sono occupate da baracche a partire dalla fine della seconda guerra mondiale): osserva e rileva, si sofferma e approfondisce l'analisi su alcuni di questi insediamenti enumerando analogie e differenze tra baracche, cataloga i materiali utilizzati e le attrezzature che compongono e articolano ogni baracca per rivelarci che la natura di questi manufatti asseconda una tensione alla costituzione di uno spazio domestico staccato dalla residenza, una "stanza in più", un luogo dove ritrovarsi con la famiglia o per fuggire da essa, dove si coltivano e depositano attitudini, ozi, pensieri, solitudini, ma anche canne da pesca, reti, vele, canoe.

L'uso del "paradigma indiziario", a cui accenna Stefano Boeri nella prefazione al libro, è qui messo in pratica alla lettera, tanto che il lavoro di Rosa ha un ulteriore motivo di interesse nel permettere di verificare limiti e risorse di un atteggiamento di analisi che osserva "nuovi comportamenti" nello spazio quando questi ancora non hanno depositato altro, nel corpo materiale della città, che delle minime tracce confuse.

Un simile atteggiamento di ricerca permette infatti di muovere dall'osservazione dello spazio per arrivare a definire categorie interpretative e analitiche che mettono in luce forme nuove e diverse di abitare, legate a culture e pratiche di trasformazione della città che sono spesso molteplici, contraddittorie, labili e dissonanti, che si dispiegano tra i grandi progetti urbani e nodi infrastrutturali, al di fuori delle politiche urbane tradizionali e centrali, ai margini di piani, vincoli, previsioni.



Partendo da indizi apparentemente minimi, architetti e urbanisti hanno ricominciato a guardare lo spazio fisico per come è percepibile. Sullo sfondo rimangono temporaneamente i livelli di realtà che, per molto tempo, hanno occupato la scena della riflessione nel campo dell'analisi architettonica e urbana: le norme, i vincoli e i regolamenti, i dati statistici, la modellizzazione di flussi, le variabili del valore del suolo, le analisi della domanda e dell'offerta.

Questo ritorno all'osservazione diretta dello spazio ha naturalmente portato ricercatori e studiosi a guardare ciò che per anni nessuno aveva guardato, a una scansione in negativo del territorio per cui, ad apparire improvvisamente rilevanti, sono oggi spesso fenomeni discreti e marginali, prodottisi al di fuori dell'architettura corrente; è il caso dell'attenzione ai terrain vague utilizzati come spazi pubblici, del rinnovato interesse per aree dismesse abitate temporaneamente in modo abusivo e precario, del rilievo di enclave agricole aggredite dalla diffusione urbana: una raccolta di "freaks" che sono frutto di autorganizzazione di piccole comunità che si muovono nel retroscena urbano. Il territorio diventa così una rete di collocazione e movimento di infinite minoranze, che non si parlano e non si scorgono l'un l'altra.



Il limite dell'uso del "paradigma indiziario" sembra essere quello della dispersività, di una involontaria rappresentazione frammentaria della città contemporanea. Una frammentazione che è diversa, ma complementare, rispetto a quella che deriva da un atteggiamento del tutto differente e che affida all'apologia del caos e alla estetica della decostruzione il compito di costituire una guida per leggere, interpretare e costruire la città.

Ma forse è guardando questa folla di minoranze, questa apparentemente inesauribile presenza di tracce e frammenti, che si va componendo lentamente un implicito laboratorio di sperimentazione che riguarda la città contemporanea: un laboratorio dove si testano prototipi e modi innovativi di abitare, dove si fanno reagire usi inconsueti e spazi ordinari.
Il libro di Rosa appare come un potenziale tassello di questo laboratorio di prototipi: i "baraccati" della costa savonese - termine che in questo caso non individua né un problema di emergenza né una situazione di indigenza - come Le Corbusier a Cap Ferrat, sono lì a immaginare una città del futuro.

Giovanni La Varra
lastaccatovarra@hotmail.com

   
 

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Questa pagina è stata curata da Matteo Agnoletto.






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