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Leggendo il libro di Elena Rosa viene alla mente una rara foto di Le
Corbusier che, ormai vecchio, completamente nudo, siede nel suo cabanon
sul mare a Cap Ferrat e disegna a mano libera su un minuscolo tavolino,
forse dopo aver fatto una nuotata o aver preso il sole.
Così è strano pensare che le più incredibili e visionarie immagini dell'architettura
di questo secolo siano forse nate nella solitudine e nella precarietà
di un capanno in legno di 2 metri per 3, dove Le Corbusier passava parecchio
tempo, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, trasformando l'ozio
e la vacanza in una più acuta forma di concentrazione per le sue immagini
di città future.
Sulla costa ligure, tra Savona e Vado, le mappe e le descrizioni di
Elena Rosa, ci segnalano la presenza di 18 insediamenti di baracche,
capanni, ricoveri; in tutto si tratta di circa trecento esemplari di
manufatti precari e autocostruiti che occupano moli, spiagge, banchine,
aree industriali dismesse o sottoutilizzate, cantieri navali.
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[17mar2003] |
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Baracche marine ai margini di un porto -edito da neos.e di Genova
nel 2002, 81 pagine, €7,00- raccoglie un paziente lavoro di ricerca
e di osservazione, lavoro che ha visto una prima parziale formalizzazione
nella tesi di laurea dell'autrice e poi, arricchitosi di nuovi materiali,
ha dato luogo a questa pubblicazione.
Il lavoro di Rosa
osserva le tracce di un uso marginale e nascosto dell'area savonese
a partire da materiali deboli e precari, all'apparenza abusivi e disordinatamente
disposti, ma in realtà nati secondo differenti logiche di razionalità
minimale che connotano in maniera specifica ogni insediamento e sempre,
o quasi, sotto l'egida dell'Autorità Portuale di Savona-Vado che,
per ogni baracca, rilascia una concessione quadriennale che può essere
rinnovata con l'obbligo di restituire il suolo nelle condizioni originarie
in caso di revoca o di rinuncia.
Baracche marine ai margini di un porto, che fin dal titolo
tradisce un impeto alla descrizione letterale del fenomeno che osserva,
si compone infatti come un catalogo di mappe, disegni, abachi, sezioni,
fotografie che registrano il dispiegarsi di queste architetture poste
tra terra e mare. L'autrice si muove con pudore in questi tessuti
fragili ma capaci di durare nel tempo (alcuni di queste aree sono
occupate da baracche a partire dalla fine della seconda guerra mondiale):
osserva e rileva, si sofferma e approfondisce l'analisi su alcuni
di questi insediamenti enumerando analogie e differenze tra baracche,
cataloga i materiali utilizzati e le attrezzature che compongono e
articolano ogni baracca per rivelarci che la natura di questi manufatti
asseconda una tensione alla costituzione di uno spazio domestico staccato
dalla residenza, una "stanza in più", un luogo dove ritrovarsi
con la famiglia o per fuggire da essa, dove si coltivano e depositano
attitudini, ozi, pensieri, solitudini, ma anche canne da pesca, reti,
vele, canoe.
L'uso del "paradigma indiziario", a cui accenna Stefano
Boeri nella prefazione al libro, è qui messo in pratica alla lettera,
tanto che il lavoro di Rosa ha un ulteriore motivo di interesse nel
permettere di verificare limiti e risorse di un atteggiamento di analisi
che osserva "nuovi comportamenti" nello spazio quando questi
ancora non hanno depositato altro, nel corpo materiale della città,
che delle minime tracce confuse.
Un simile atteggiamento di ricerca permette infatti di muovere dall'osservazione
dello spazio per arrivare a definire categorie interpretative e analitiche
che mettono in luce forme nuove e diverse di abitare, legate a culture
e pratiche di trasformazione della città che sono spesso molteplici,
contraddittorie, labili e dissonanti, che si dispiegano tra i grandi
progetti urbani e nodi infrastrutturali, al di fuori delle politiche
urbane tradizionali e centrali, ai margini di piani, vincoli, previsioni.
Partendo da indizi apparentemente minimi, architetti e urbanisti hanno
ricominciato a guardare lo spazio fisico per come è percepibile. Sullo
sfondo rimangono temporaneamente i livelli di realtà che, per molto
tempo, hanno occupato la scena della riflessione nel campo dell'analisi
architettonica e urbana: le norme, i vincoli e i regolamenti, i dati
statistici, la modellizzazione di flussi, le variabili del valore
del suolo, le analisi della domanda e dell'offerta.
Questo ritorno all'osservazione diretta dello spazio ha naturalmente
portato ricercatori e studiosi a guardare ciò che per anni nessuno
aveva guardato, a una scansione in negativo del territorio per cui,
ad apparire improvvisamente rilevanti, sono oggi spesso fenomeni discreti
e marginali, prodottisi al di fuori dell'architettura corrente; è
il caso dell'attenzione ai terrain vague utilizzati come spazi
pubblici, del rinnovato interesse per aree dismesse abitate temporaneamente
in modo abusivo e precario, del rilievo di enclave agricole aggredite
dalla diffusione urbana: una raccolta di "freaks" che sono
frutto di autorganizzazione di piccole comunità che si muovono nel
retroscena urbano. Il territorio diventa così una rete di collocazione
e movimento di infinite minoranze, che non si parlano e non si scorgono
l'un l'altra.
Il limite dell'uso del "paradigma indiziario" sembra essere
quello della dispersività, di una involontaria rappresentazione frammentaria
della città contemporanea. Una frammentazione che è diversa, ma complementare,
rispetto a quella che deriva da un atteggiamento del tutto differente
e che affida all'apologia del caos e alla estetica della decostruzione
il compito di costituire una guida per leggere, interpretare e costruire
la città.
Ma forse è guardando questa folla di minoranze, questa apparentemente
inesauribile presenza di tracce e frammenti, che si va componendo
lentamente un implicito laboratorio di sperimentazione che riguarda
la città contemporanea: un laboratorio dove si testano prototipi e
modi innovativi di abitare, dove si fanno reagire usi inconsueti e
spazi ordinari.
Il libro di Rosa appare come un potenziale tassello di questo laboratorio
di prototipi: i "baraccati" della costa savonese - termine
che in questo caso non individua né un problema di emergenza né una
situazione di indigenza - come Le Corbusier a Cap Ferrat, sono lì
a immaginare una città del futuro.
Giovanni La Varra
lastaccatovarra@hotmail.com
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