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Books Review

Architopia



Jean Louis Maubant & Leonel Moura (a cura di),
"Architopia. Art architecture science"
Utopia biennial, Cascais, 2001
pp142,  €35,00



IL PENSIERO IMMANENTE. Dagli esiti di una sperimentazione dalla struttura indissolubilmente scientifica e artistica, che ha come oggetto un'interazione intelligente e di intelligenze, emerge un'architettura figlia della complessità e spogliata dalle vesti di supremo e superbo atto d'artificio, rigenerata e ricondotta ad un dominio più vasto di conciliazione radicale e primigenia con la natura. L'utopia ha un tempo, quello del viaggio, e si avvera nella rapidissima e affannosa oscillazione della mente tra antipodi: uguaglianza e libertà, fede e ragione, materiale e immateriale, natura e cultura, e così avanti. Ma in questo tragitto non vissuto, pendolare, cieco e inconsolabile, tra distanze siderali, l'intelletto pure percepisce la verità, ma solo sotto il limite della coscienza senza mai poterla osservare; e di questo soffre, come in un ossimoro in cui la ragione è perennemente frustrata. A Cascais, in Portogallo, ogni due anni, si placano e decantano alcuni di questi moti infaticabili, per rigenerarsi e ripartire.


SP0001, il primo "swarm painting" prodotto dall'aLife Art Architecture Lab e "swarm drawing" SP0016.


IaN+, Centro congressi di Darmstadt / D.& R., Hormonal City.

All'interno della rassegna Biennial Utopia, Architopia è la mostra che questo catalogo racconta, e che offre punti di vista su una provincia che pare privilegiare l'architettura; una ricerca che ha esiti artistici, ma si nutre di sperimentazioni scientifiche e tecnologiche, che a volte indaga la realtà con gli strumenti esotici dell'arte ma indirizzando e facendo nel contempo progredire conoscenze e discipline galileiane. Il volume raccoglie le vicende di alcuni tra i "viaggiatori" ai margini tra architettura, arte e scienza. Margini che, come vedremo, non sono mai confini; e non si tratta solo di una maggiore intensità di contaminazione tra settori differenti, si va ben oltre il fascino dei neologismi o di un melting pot rimestato da più parti: i risultati, le scoperte che (appropriatamente direi) emergono, raccontano di orizzonti nuovi, mettono in crisi i prematuri tentativi classificatori, ma "sorprendentemente" convergono, come attratti dalla stessa, connaturata, legge.


Kolatan/Mac Donald Studio, Resi-rise skyscraper.


Kas Oosterhuis, Trans-Ports.

E se questa legge pare essere una vera e propria intelligenza emergente in ogni comunità di entità interconnesse, anche l'arte può essere innescata artificialmente; Leonel Moura e Vitorino Ramos compiono in questo senso un radicale tentativo: ottenere esiti artistici completamente alieni all'uomo. I loro "swarm paintings" sono il primo passo verso una vita artificiale capace di produzione artistica del tutto autonoma, nel momento creativo, rispetto ad umani pregiudizi, gusti, stili e simili, ma anche l'ultima tappa di un affrancamento dell'esperienza estetica da supporti ed artefici. Questi quadri sono espressione di una vita artificiale e non semplici risultati casuali di algoritmi programmati dall'uomo; dice Moura: "…il programmatore crea il DNA dell'artista, non l'opera d'arte"; continua: "…è per questo che preferiamo farci chiamare architetti di vita e arte, anziché artisti". E nel provare a definire con un solo termine l'attività di questo nuovo architetto si fa la stessa fatica che si faceva in quei giochi che stavano sui tappi delle bolle di sapone: le tre palline devono entrare in un solo gesto nelle tre buche, ossia progettare, generare, programmare.

Dall'architettura nell'accezione più consueta si muovono invece altre ricerche: gli italiani IaN+ concentrano la loro attenzione sull'abitare, nell'accezione più integrale ed estesa, kiesleriana. Il loro housescape è un dominio di intersezione tra architettura e paesaggio, che il progettista indica, suggerisce, senza precisare; uno spazio da vivere, ossia da riempire, specializzare e specificare. L'edificio è "…un recinto, è il margine tra interno ed esterno", nel quale si organizza la complessità, si compongono le "relazioni pericolose" tra natura ed artificio, riducendole a comuni denominatori. Un abbassamento del gradiente di antropizzazione del progetto che è in realtà solo una strategia che sortisce l'effetto di legare intimamente l'architettura al paesaggio, lasciandola aperta, altamente flessibile; e se poi la forma è fondata su parametri topologici, è anche senza punti di partenza o di arrivo, cioè in continuo divenire.


Makoto Sei Watanabe, Stazione della metropolitana di Iidabachi.

Certo meno radicale è l'atteggiamento dei francesi di R&Sie: l'architettura sì, partecipa del contesto in un tutt'uno inestricabile, ma non certo indistinguibile; essa diventa un garbuglio simbiotico di superfici sensibili, organiche, e "geografiche", che non rinuncia, talvolta, al forte impatto formale insieme però ad un evidente (ma per questa ambivalenza certo non banale) tentativo mimetico. Anche dalle loro parole chiave, "iperlocalismo", "ibridazione", scaturisce una alterità persistente tra paesaggio e architettura, tumultuosa, non certo pacificata, ma forse tendenzialmente irrisolvibile.

Il grattacielo Resi-rise di Kolatan/Mac Donald Studio è, invece, programmaticamente suscettibile di trasformazioni (regressioni o crescite appunto), che oggi diremmo drastiche ed eccezionali, e che invece, diventano primo segno di vita e di riuscita del progetto. Le unità abitative sono pensate come "bozzoli" sostituibili e riciclabili all'occorrenza, indipendenti l'un l'altro, la cui occupazione determina l'architettura in modo estremo: la forma segue l'uso continuamente, non nel progetto ma nella vita dell'edificio. Come affermano i progettisti stessi, non cinquantuno appartamenti, ma cinquantuno storie.

Tanto discreti quanto estremi sono di certo Decosterd & Rahm, i quali estendono a parametri nuovi le possibilità di controllo dello spazio. Alle qualità indotte dalla luce, dalla forma, ai comuni comfort ambientali (termico, acustico, visivo) sommano le possibilità della chimica, quelle ormonali ed elettromagnetiche. Al pari di temperatura ed umidità esse non subiscono il filtro culturale e psicologico, sono mezzo e informazione insieme; e spazio e corpo non hanno più soluzione di continuità, mentre l'architettura ridotta in questi termini è interamente sublimata o, se vogliamo, azzerata. La loro utopia è Hormonal City, uno spazio aperto connotato esclusivamente da fluttuazioni chimiche, emissioni gassose, perdite e campi di forza; il piano orizzontale è l'unica forma che residua, il contesto coincide col testo, una contaminazione con una "costruzione".

Per provare a immaginare uno spazio mutevole in tempo reale per forma e contenuto, che assume di volta in volta un'identità diversa Oosterhuis propone l'edificio programmabile e interconnesso Trans-ports. Egli prefigura un padiglione/software dotato di una struttura analoga ad un fascio muscolare contrattile, continuamente alterabile attraverso l'intervento via web di tanti utenti (programmatori) connessi; come "uccelli in una gabbia" egli dice, una gabbia in continua trasformazione, innescabile e non prevedibile nei suoi esiti ultimi. Ma l'edificio di Oosterhuis ha senso specie se considerato parte di una ragnatela di simili, a formare una sorta di organismo (ed essi stessi sono definiti una specie di "materiale") intrinsecamente "intelligente" in quanto capace di comportamenti emergenti, inattesi; così come gli stormi di altri uccelli, quelli elettronici delle prime simulazioni anni '50 di sistemi complessi.

Chi invece, ferma la sua attenzione solo sul progetto è Makoto Sei Watanabe. Alla fine del suo percorso c'è ancora una forma e una sola, ancora una volta è un cammino progettuale cristallizzato. Ma ciò che conta è la codifica del processo; sono logiche complesse, fatte di principi messi ad agire, di ricerche tra le pieghe del caos. Il suo "Induction design" prova a riprodurre, riducendo a metodo scientifico, trasferibile e riproducibile attraverso appositi software, l'arbitrio, l'imprevedibilità, la genialità dell'errore, le capacità di adattamento e flessibilità di logiche organiche, o le norme sfumate, "fuzzy". E' il tentativo di codificare ciò che Horace Walpole chiamò "serendipity", quella "sagacia accidentale" come la definisce Merton che permise a Fleming di scoprire la penicillina o ad Archimede di non limitare ai soli fini igienici il tempo di un bagno; e che è stata la spia di quelle logiche non lineari incomprensibili, irriducibili e per questo emarginate, fino a non molto tempo fa, dalla cultura scientifica tradizionale.

Mark Goulthorpe e Mark Burry si concentrano sul dato più strettamente tecnologico ma certo non trascurabile; puntano a dare strumenti a chi li prefigura e la loro Aegis Hyposurface è il prototipo di superficie interattiva, controllabile via software "punto per punto". Costituita di piccoli triangoli metallici mossi da pistoni gestiti elettronicamente, è in grado di assumere forme, riprodurre semplici disegni in rilievo e soprattutto dare vita ad animazioni superficiali (increspature, ondulazioni, ecc.) su dimensioni teoricamente a grande scala. Governata da un'intelligenza artificiale sarebbe non solo interfaccia di una interazione in tempo reale ma anche vero e proprio organo di comunicazione: una pelle topologica.


Goulthorpe & Burry, Aegis Hyposurface.

Anche Ted Krueger lavora sulle interfacce. Partendo, per una comprensione dell'intelligenza, dal superamento del cosiddetto approccio cognitivista verso il più efficiente modello comportamentale, egli coglie la necessità di ripensare la filosofia di comunicazione degli esseri umani con entità elettroniche. Probabilmente non saranno nuovi dispositivi veicoli di logiche esclusivamente simboliche od altri (seppure sofisticatissimi) schermi a risolvere alla radice la problematicità di questo rapporto; ed infatti Krueger è tra coloro che investono sul semplice gesto, sull'evento tout-court, sulla sensibilità complessiva e corporea dell'ambiente e dell'agente (attraverso il proprio apparato sensoriale), la cui mente, dice l'autore citando Maturana "…è nel comportamento e non nella testa". Un ottimo contributo accompagnato da molte immagini di una strana "bicicletta" chiamata MAXM (Media Augmented eXercise Machine) testimone di un approccio non solo simbolico ma anche (e decisivamente) fisico verso la comprensione di un'intelligenza non più confinata tra i neuroni ma giustamente coestesa all'ambiente, alle interazioni e incarnata da corpi.

Insomma, l'ubriacatura novecentesca di analisi di ogni sorta, di frammentazioni, separazioni e individualismi, ha trovato lo stordimento del mattino dopo. Nell'era di quella che qualcuno ha chiamato "scienza simulante", l'utopia sembra essere la riconciliazione tra le cose; non la ricerca del mattone irriducibile, piuttosto la tensione verso la legge unica. In architettura, dopo la mareggiata decostruttivista sublime e salutare, non solo (come forse era prevedibile) la forma è in risacca, ma lo è anche il progetto, e con esso l'architetto. Pur essendo però la contrazione solo strategica. Se è vero, infatti, che il tempo "brandiano" della "formulazione dell'immagine" nella più blanda delle ipotesi è timido, quasi invisibile, e nella più estrema è interamente sottratto al controllo umano; e se è vero, quindi, che quando si parla di atto creativo non si può più sottintendere anche quello di espressione dell'immagine stessa, ora definitivamente e completamente separati, diventando la creazione un innesco dagli esiti non controllabili, è altrettanto vero che non diminuiscono affatto le responsabilità (e quindi i meriti e le colpe), ma anzi, spostandosi a monte di un dominio olistico, cresce a dismisura.

Roberto Sommatino
robertosommatino@libero.it
[27mar2002]
Questa recensione è stata realizzata in collaborazione con Food for Minds.  
 

Questa pagina è stata curata da Matteo Agnoletto.






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