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Superstudio. Life Without Objects



Peter Lang, William Menking
"Superstudio. Life Without Objects"
Skira, Milano, 2003
pp231, €30,00

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Firenze anni Sessanta, nasce l'Architettura Radicale: la critica all'accademia trapassa in utopia visionaria, nell'idea di un mondo senza oggetti e dunque senza merci, dove gruppi di persone conversano e mangiano a proprio agio.

"Quando si producevano i progetti e le immagini, gli scritti e gli oggetti dell'Architettura Radicale, l'Architettura Radicale non esisteva. Ora che questa etichetta esiste, l'Architettura Radicale non esiste più. In altre parole, non si trattava di un ennesimo movimento o scuola con caratteri omogenei ben definiti, ma di una serie di situazioni, di intenzioni, comportamenti". Così Adolfo Natalini nel '77 rende bene l'idea di quanto si sia consumata in fretta la storia dell'architettura radicale italiana, nel clima di conflitti e passioni che caratterizza il volgere di quegli anni a Firenze, città nevralgica nell'emergere della critica, appunto radicale, contro il tardo e dogmatico funzionalismo dell'accademia.

Non fa eccezione la vicenda del Superstudio, forse il più importante dei gruppi radicali italiani del periodo, fondato da Natalini nel 1966 con l'amico Cristiano Toraldo di Francia, la cui ricerca, per circa un decennio, si sviluppò all'insegna dal rifiuto dell'architettura come condizione data per arrivare alla sua riconcettualizzazione: ovvero a una nuova condizione liberatoria della vita, attraverso visioni di un mondo solcato da megaliti lucidi e impenetrabili, di oniriche città ideali, di superfici geometriche a scala planetaria; un'era liberata dalla produzione e dai beni di consumo. Dopo anni di attacchi frontali e difese d'ufficio, l'opera di Superstudio inizia ad essere ricollocata nella giusta prospettiva storica, grazie ad una mostra itinerante -che dopo una tappa estiva al design Museum di Londra ha inaugurato a New York il 20 novembre scorso alla Pratt Manhattan Gallery e all'Artist Space dello Storefront for Art and Architecture- e soprattutto al volume che l'accompagna.



Agli autori, Peter Lang e William Menking, americani sbarcati a Firenze già all'inizio degli anni Settanta, si deve infatti innanzitutto l'enorme lavoro di recupero e di selezione del corpus eterogeneo di materiali prodotti dallo studio -dai progetti ai testi critici, dai cortometraggi agli storyboards-; poi la ricostruzione minuziosa ma appassionata delle vicende che portano alla formazione del gruppo (al quale sia uniscono, nel 1967 Roberto Magris, recentemente scomparso, nel 1968 Piero Frassinelli e nel 1970 Alessandro Magris e Alessandro Poli, che abbandona nel '72); quindi la messa a fuoco della parabola teorica del gruppo, da subito estremamente consapevole, secondo Lang e Menking, dell'importanza storica delle proprie ricerche, sino a dichiarare concluso il suo compito alla fine degli anni '70. È quindi nella Firenze già compromessa dalla difficile ricostruzione postbellica -abbandonata da tutte le figure "didattiche" di spicco (da Michelucci a Libera, da Quaroni a Benevolo) e "occupata" nella primavera del '64 dalle azioni di protesta dei gruppi studenteschi- che si alimenta il senso di frustrazione della nuova generazione di architetti e prende avvio il percorso progettuale (o se vogliamo anti-progettuale) di Superstudio.



L'evento che accompagna la nascita ufficiale del gruppo è la mostra Superarchitettura, organizzata da Natalini nel 1966 alla galleria Jolly di Pistoia, alla quale egli invita a partecipare il compagno di studi Andrea Branzi e i suoi amici che per l'occasione fondano il gruppo Archizoom, altro punto di riferimento della stagione radicale italiana. Per Natalini -che intende la Superarchitettura come "l'architettura della superproduzione, del superconsumo, della superinduzione al consumo, del supermarket, del superman, della benzina super"-, la scelta del nome 'Superstudio' è la logica conseguenza. La mostra avrebbe dovuto aver luogo il 4 novembre, data tragica per la storia della città. Il catastrofico straripamento dell'Arno lascia sott'acqua l'intero centro storico, compreso lo studio di Natalini, costretto a riparare in collina da Toraldo di Francia, con il quale si mette in cerca di un nuovo spazio di lavoro.

Di qui inizia un periodo di intensa riflessione teorica e attività progettuale che porta al più celebre dei lavori di Superstudio: Il Monumento Continuo, monolite a scala planetaria che con la sua griglia reticolare copre, ingloba e risignifica territori urbanizzati e distese di natura incontaminata. Utopia silenziosa ma negativa, atto estremo di riduzione dell'architettura al suo "grado zero", il Monumento Continuo può essere letto nella chiave di una critica paradossale (una demostratio quia absurdum) alle pretese pianificatorie del Moderno e allo stesso tempo all'urbanizzazione selvaggia che esso non ha saputo (o voluto) evitare; ma contemporaneamente il progetto si offre come la più lucida anticipazione di alcune ricerche sulla città contemporanea condotte da figure come Koolhaas e Tschumi, il cui debito nei confronti del lavoro di Superstudio sarà decisivo.

[28dec2003]



Floor lamp Gherpe. Poltronova, 1967.
Nel 1971 le 12 città ideali, visioni metafisiche di mondi fantastici presentati come "premonizioni di una rinascita mistica dell'urbanesimo", vengono pubblicate su "Il Mondo", allora diretto da Italo Calvino, che proprio in quel periodo sta lavorando alle Città Invisibili, pubblicato l'anno successivo. Veicolati prima da "Domus" poi dalla "Casabella" 'radicale' diretta da Alessandro Mendini (1970-77) i progetti e gli scritti di Superstudio iniziano a fare il giro del mondo, approdando nel 1972 alla mostra Italy: The new domestic landascape, la grande esposizione sull'abitare sperimentale made in Italy curata da Emilio Ambasz per il Moma di New York. La mostra rivela alcune delle contraddizioni dell'approccio radicale, particolarmente nella produzione di oggetti di design che da simboli di emancipazione dalla società dei consumi ben presto si trasformeranno in preziosi feticci di un consumismo assai più sofisticato. Natalini e compagni proprio in quegli anni stanno lavorando alla serie degli Istogrammi, forme geometriche regolari rivestite di un laminato bianco quadrettato che anticipano i tavoli della famosa serie Quaderna, prodotta da Poltronova dal 1971. Tuttavia il senso di quegli oggetti, è ancora una volta l'annullamento della forma riconoscibile e compiuta in favore di uno spazio astratto, disponibile, e potenzialmente infinito. Nella sezione Ambienti, curata da Sottsass, il gruppo presenta infatti il film Supersurface. An alternative model for life on the earth e una serie di nove pannelli, per operare una "rivalutazione critica della possibilità di vita senza oggetti".

Nei fotomontaggi gruppi di persone mangiano o conversano a proprio agio seduti o camminando sopra una superficie continua, liscia e grigliata, che si estende attraverso territori desertici. Nelle sequenze del film il processo di progressiva "riduzione al silenzio" dell'architettura viene portato alle estreme conseguenze e la visione utopica lascia il posto ad una nitida premonizione. La superficie, che già ha bidimensionalizzato i solidi del Monumento Continuo e degli Istogrammi, qui addirittura scompare, lasciando sopravvivere una griglia "virtuale" di punti, continua ma non omogenea, che ipotizza "l'utilizzo della terra attraverso una rete di servizi e di comunicazioni" in cui "le città costituiscono i nodi", e il controllo dell'ambiente avviene attraverso l'uso di energie e "la scomparsa delle membrane che dividono lo spazio esterno da quello interno". Mentre il senso stesso dell'architettura si dissolve in una lucida e dolorosa visione fantascientifica e abbagliante, allo stesso tempo appare l'immagine profetica della condizione globale contemporanea: individuale ma iperconnessa, flessibile ma rigorosamente controllata, (soft)tecnologica e sempre più wireless in cui siamo oggi, indistintamente, tutti immersi.

Gabriele Mastrigli
gabriele.mastrigli@iol.it
La presente recensione è stata originariamente pubblicata in ALIAS, inserto culturale de Il Manifesto con il titolo “Il liberatorio suicidio dell'architettura”.

Questa pagina è stata curata da Matteo Agnoletto.






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