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Lo spettacolo dell'architettura. Profilo dell'archistar© |
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Gabriella Lo Ricco, Silvia Micheli "Lo spettacolo dell'architettura. Profilo dell'archistar©" Mondadori, 2003 pp229, €24,00 acquista il libro online! |
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Da
qualche anno l’editore Bruno Mondatori sta esplorando in diverse direzioni
i cambiamenti dell’architettura contemporanea e questo libro, curato
dalle giovanissime Lo Ricco e Micheli, è una dimostrazione interessante
della necessità che si sente di rinnovamento degli studi disciplinari.
Il termine “disciplinare” a molti potrà sembrare quasi provocatorio
visto che il libro si occupa di annotare puntualmente l’uso mediatico
che gli architetti fanno e subiscono dalla e della cultura di massa,
ma nessuna provocazione è qui cercata, tutt’altro. Ridefinire oggi cosa
sia architettura è senza dubbio complesso, ognuno può contribuire come
meglio crede a questo dibattito, ma già questa libertà evidenzia che
alcune categorie monolitiche si sono rotte definitivamente. Oggi una
vasta schiera di ricerche provano a dire che tutto è architettura, contro
questo generalismo spesso mi sono posto in aperta polemica, non perché
non interessi la commistione di ricerche o perché si veda la necessità
di una unitarietà disciplinare chiusa, ma perché le posizioni universaliste
dimenticano colpevolmente un corpus di strumenti e di saperi che l’architetto
usa nel proprio agire e che sono intrinseche del proprio fare. In anni in cui nessuno si chiede più nulla su come mettere in forma le proprie idee, con quali strumenti rappresentare il proprio agire, ragionare sulla “cassetta degli attrezzi” dell’architetto non significa voler rilanciare un’architettura formalista o un primato del disegno sulle discipline sociali ed economiche ora dominanti, anzi vuole essere un modo per aggiornarli partendo dal proprio sapere. Non si tratta di ritrovare un architetto che accorda l’universo, ma se l’economia odierna prevede concertazione e integrazione tra professionalità diverse (e specificamente competenti) non si capisce perché l’architetto debba sedersi al tavolo volendo fare il regista, il sociologo, l’esperto di arti marziali e non dare una forma e/o degli spazi al lavoro che il gruppo elabora. La critica non deve toccare la possibilità di interagire fra discipline ma focalizzarsi sulla mancanza di specifici saperi e competenze che la disciplina architettonica sta fortemente palesando. Personalmente continuo a non comprendere come si può recitare il ruolo dell’architetto se non si conoscono le basi del proprio mestiere, se non si ha idea come siano strutturati i progetti e a cosa serva una sezione proprio in dato luogo, piuttosto di quali specifiche normative vincolino e come l’agire. All’interno di una critica più ampia sulla disciplinarità il testo della Lo Ricco e della Micheli ci può tornare utile sia come strumento sia come campanello di allarme. Denunciare cose che a molti pareranno ovvie –come ad esempio che gli architetti famosi adottano precise strategie di comunicazione– è utile proprio per non dover continuamente spiegare che se si apre il rubinetto rosso esce l’acqua calda. |
[18oct2003] | |||
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Sembra banale, ma è un passo sostanziale. Certifica, infatti, che esiste uno spettacolo dell’architettura, e che questo è codificato con delle precise regole. Regole formalizzate e studiabili, che non appartengono alle conversazioni da bar, ma a quelle delle ricerca. Non è uno svilire della ricerca, si badi bene, è la testimonianza che per comprendere la modernità e il nostro tempo dobbiamo calarci in esso e viverlo, gustarci e comprendere ciò che ci regala, altrimenti ogni critica appare immediatamente sterile e lontana. Gabriella Lo Ricco e Silvia Micheli fanno il punto sulla trasformazione della cultura dell’immagine e del progressivo coinvolgimento degli architetti nello star system con grande energia e un entusiasmo che molti non vedono nei giovani di oggi – sarà mica che ai giovani di oggi interessano altri argomenti da quelli che uno si immagina? Non sarà mica così semplice? Si obbietterà e le due autrici lo dichiarano subito, che gli architetti hanno sempre flirtato con la grande politica e sono, quindi, sempre stati attenti alla loro immagine, ma quello che il libro ben coglie è la trasformazione della natura di questa attenzione. Attente lettrici di Baudrillard più che di Debord, che viene citato forse con troppa leggerezza (ovvero in maniera molto contemporanea, visto che tutti citano Debord molto più a casaccio delle nostre che almeno dimostrano di averlo letto) le autrici applicano strumenti di ricerca storica mescolandole con nozioni di marketing aziendale, senza mai perdere di vista la fruibilità e la leggerezza del testo scritto e ci offrono un libro piacevole da leggere che ci lascia contenti, pensierosi e più informati di quando l’abbiamo aperto. I testi sono divisi in quattro capitoli che forse potevano essere più integrati fra loro (un saggio corposo all’inizio di ampio respiro, a mio giudizio, ci sarebbe stato benissimo), ma che colgono con attenzione quattro aspetti diversi e giustamente separati tra loro. Il primo capitolo Archistar© la costruzione del mito è quello più storiografico e parte analizzando le figure di Koolhaas, Gehry, Wright, Johnson, Corbù e Eisenman e di come questi grandi nomi abbiano saputo costruire la loro immagine. In questi tratteggi le autrici usano strumenti più legati al mestiere di storico e proprio per quello pagano più che altrove alcune imprecisioni e disattenzioni nell'uso delle fonti e dei documenti, ma resta un capitolo denso di storie e aneddoti che si legge con contagiosa allegria. Nel secondo capitolo Il potere dell’immagine, le metodologie di indagine sono più legate alla semiotica e allo studio dei fenomeni e degli oggetti, con un’analisi puntuale di alcune grandi campagne pubblicitarie che hanno coinvolto architetti e architetture importanti. Il capitolo cambia linguaggio rispetto al primo e cerca nuovi strumenti di indagine e d’azione con alcune interessanti note a margine di esperti di comunicazione che sono estremamente simpatiche e utili a comprendere passaggi specifici tecnici che dimostrano che il pubblicitario ne sa di più del suo mestiere di un architetto a cui si è regalato una videocamera digitale per natale e che si mette a “vedere” la città con il nuovo giocatolo. (ed io continuo a domandarmi se un pubblicitario non ne sappia di più anche su come si fa un piano di lottizzazione, perché allora è chiaro che sarebbe meglio farlo fare a lui?) Il terzo capitolo fa un salto nella mondanità analizzando i Pritzker architetti e, debbo dire che nel libro sembra il più debole, anche perché c’è un odore di retorica nel chiedersi se il premio Pritzker sia più Oscar o Nobel e la retorica gioca male in questo volume che si presenta così fresco nel suo essere gaiosamente scientifico. Oltretutto non è per nulla chiaro se e quanto il premio influisca nella carriera di ogni singolo architetto e i dati, anche ben curati, che ci vengono forniti non riescono a dimostrare nessuna tesi. Se ogni capitolo usa un diverso strumento per tagliare la questione, il terzo paga proprio la mancanza di approfondimento sulla strumentazione specialistica per costruire datascape ad hoc. Prima di chiudere con un ottimo sistema di apparati e ampia bibliografia che sembrano davvero azzeccate come conclusione, c’è ancora un altro capitolo: Grandi promoter per una cultura d’autore. L’idea è più che ottima e necessaria, infatti ogni operazione di grande marketing sul prodotto (l’architetto) prevede una grande committenza e per cui è necessario e corretto affermare che anche le grandi operazioni che coinvolgono le archstar© siano frutto di ampie strategie. Nel carosello di strumenti di ricerca in questo capitolo si sente la mancanza di uno specialismo urbanistico e di gestione di pianificazioni complesse che avrebbero probabilmente indirizzato i casi verso realtà meno ovvie, ma si può anche pensare che la mia critica porterebbe il tutto fuori dalla frescura che il libro trasmette. Lille, Disney, piuttosto che la Vitra sono esempi probabilmente troppo generici per poter colpire davvero il toro a morte, ma le nostre autrici hanno il grande merito di organizzare una corrida ricca di veroniche il cui fine è far riflettere lo spettatore/lettore sul alcuni punti della cultura contemporanea colpevolmente trascurati, il sangue e il corpo della fiera a terra non si addice ai delicati fiori che sono riportati in copertina (Peter Davis, Diamond Dust Geezer – Andy Warhol Text Painting). Facendo i nostri complimenti all’editore per l’attenzione dimostrata alla coltura del nostro tempo e, ovviamente alle autrici. Giovanni Damiani gdamiani@architecture.it |
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Questa pagina è stata curata da Matteo Agnoletto. laboratorio
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