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Progetto e oggetto



Carlo Giulio Argan
"Progetto e oggetto. Scritti sul design"
Claudio Gamba (a cura di), con prefazione di Carlo Olmo
Medusa Edizioni, Aracnion, 2003
pp223, €24,00

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RILEGGERE IL SENSO DESIGN SECONDO ARGAN. È stata pubblicata di recente per i tipi della casa editrice Medusa di Milano una raccolta degli scritti di Giulio Carlo Argan sul tema del design. Il libro, intitolato Progetto e oggetto, curato da Claudio Gamba, con prefazione di Carlo Olmo, presenta un'esauriente selezione di oltre venti tra articoli e contributi che Argan scrisse sulle questioni legate al tema dell'industrial design tra i primi anni '50 e la fine degli anni '80. Attraverso i diversi testi viene tratteggiandosi una linea di riflessione sui problemi connessi al tema centrale -il rapporto tra arte, artigianato e tecnica, la scommessa sociale sul design, il connubio tra design e architettura, la storia e la crisi del design nel nostro Paese- che si svolge parallela all'evoluzione critico-storiografica di Argan stesso.

Come evidenzia Gamba nel suo saggio introduttivo, è possibile infatti rintracciare il filo d'Arianna delle grandi tappe formative e di pensiero dello storico dell'arte, rileggendo queste pagine. Si passa dalla formazione venturiana degli anni '30, quella del metodo critico che coniugava idealismo crociano e lettura purovisibilista, alle esperienze delle prime collaborazioni con Olivetti -e quindi con Paci e Sinisgalli- nel dopoguerra, negli anni segnati dall'idea dell'arte didattica del pensiero di Herbert Read. Gli anni '60 sono invece quelli delle polemiche con Brandi a proposito dello stretto rapporto che lega il design al mondo dell'esperienza esistenziale pratica: la risposta di Argan a quest'ultimo sarà "design è dasein", motto ironico dalla forza paradigmatica. Sino ad arrivare alla grande crisi degli anni '80, quella che per Argan coincide con l'avanzare del postmodernismo architettonico, di fronte al quale egli si troverà a opporre resistenza concettuale, sostenendo che "si può cambiare il metodo dell'architettura e, con l'architettura, la città e il mondo. Il progettare è l'unica difesa contro il pericolo di essere progettati".

Tra i tanti argomenti affrontati nella raccolta ve ne sono diversi che escono dal, seppur prezioso, valore documentario, prestandosi ad una rilettura contemporanea che può essere occasione di confronto e fonte di risposte di efficace attualità. Tra questi almeno tre richiamano in maniera più determinata di altri la nostra attenzione a distanza di quasi cinquant'anni dalla riflessione originaria: il tema del rapporto tra arte e artigianato e industria; la questione del metodo, intesa sia in riferimento alla progettualità, che nella definizione della figura del designer e di conseguenza delle scuole che a questa formazione dovrebbero contribuire; infine, il ruolo della committenza e la relazione col progettista nell'iter del design che va dalla produzione al consumo.

La questione del rapporto che intercorre tra arte, artigianato e industria è uno dei fulcri fondanti la teoria del design sin dalle sue origini. A partire dalla celebre querelle tra Hermann Muthesius, sostenitore del carattere seriale della produzione industriale come elemento caratterizzante del design e sua peculiarità disciplinare, e Henri Van de Velde, che al contrario oppone una fiera resistenza alla discriminazione seriale sottolineando il valore d'unicità dell'opera d'arte, l'argomento inerisce strettamente ad una problematicità sulla allora nascente disciplina del design, che si fonda sulla rilevanza del rapporto tra arte e tecnica. Argan -che in questo rivendica la sua appartenenza al filone teorico critico purovisibilista e alla questione del distinguo disciplinare tra Arte e Arti applicate, così come era stato esposto da Riegl nel suo pensiero e nella formulazione del principio del Kunstwollen- sostiene che "la distinzione delle arti per categorie si fonda (...) su differenze di tecnica e non di visione" (p. 34).

[02dec2003]


Carlo Giulio Argan.

Il consumatore, in quanto fruitore dell'oggetto d'arte, qualunque sia l'appartenenza disciplinare, si pone quindi in un ruolo attivo, nel senso readiano del termine, mentre il valore dell'oggetto di produzione industriale risiede nel progetto e non viene affatto messo in crisi dalla sua seriale ripetitibilità, ma al contrario ne trae una delle condizioni imprescindibili di esistenza, con tutto ciò che ne consegue sul piano del sociale e della storia degli usi e costumi di un popolo. Il ruolo dell'artigianato, all'interno di questo sistema critico, è quindi da un lato quello di affiancare la produzione industriale nel fornire oggetti di uso comune, in una pacifica convivenza, garantita dalle sostanziali distinzioni della stessa produzione tecnica. Dall'altro lato, l'artigianato è depositario di un valore storico che passa al design stesso dal momento che "la presenza o l'assenza di una tradizione artigiana e, a maggior ragione, di un artigianato attivo influenzano in modo decisivo il carattere del design"(p. 45). L'ipotesi che qui viene formulata è che sia proprio nella derivazione più o meno celata dai caratteri tipici dell'artigianato tradizionale di un paese che si sostanzia il suo carattere nazionale.

 
Se i termini della discussione storica sono quelli che vedono contrapporsi arte/artigianato e tecnica, opera unica e serie, rileggere questi passi alla luce di una contemporaneità che si pone il problema di un'aporia tra globale e locale potrebbe divenire occasione utile per giungere ad analoghe conclusioni rispetto a quelle già prospettate da Argan quando sottolineava la distinzione tra le parti in gioco senza vederne compromessa la convivenza. "Vi sono zone scarsamente industrializzate - sosteneva lo storico già nel '59 - e altre difficilmente raggiunte dalla distribuzione di prodotti industriali (...). L'artigianato adempie oggi, e forse adempirà nel prossimo avvenire, ad una funzione economica importante, accanto all'industria". D'altra parte le moderne teorie sui fenomeni della globalizzazione, sia nella loro natura economica, che nei riflessi sociali consequenziali, stanno mettendo in luce i nessi con le teorie della complessità e il valore del "progettare", come possibilità di arginare gli effetti di una produttività indiscriminata (1).

Sempre nel progetto risiede anche il fulcro della questione che riguarda il metodo del designer, nonché la sua formazione nell'ambito di una scuola, la cui codificazione auspicata allora da Argan è quanto mai materia di riflessione oggi che del boom della richiesta in tale settore stiamo vivendo gli effetti. Mai come oggi, infatti, il rapporto tra le domande di iscrizione ai corsi di formazione professionale del disegno industriale universitari, privati e non, e quelle per le discipline alle quali questi afferiscono istituzionalmente -ovvero le Facoltà di Architettura- sembra essersi ribaltato a favore delle prime. Ma facciamo un passo indietro. Quando Argan si trova a trattare la questione del ruolo del designer si confronta con la situazione italiana, nella quale il ritardo storico dell'industrializzazione e conseguentemente la mancanza di scuole professionali nel settore aveva portato all'arruolamento dei designers dal mondo delle arti visive, come ben attestano i casi di Munari e Nizzoli.

L'autore si trova quindi a sottolineare il compito gravoso dei progettisti industriali, identificando la loro responsabilità maggiore nel tentativo di sanare la frattura tra cultura umanistica contemplativa e mondo della produzione e della socialità in senso esteso. Se in quegli anni Munari pubblica testi che sottolineano l'autonomia metodologica e formale del designer rispetto a quella dell'artista, Argan spende le sue energie teoriche nel sottolineare che il designer non è un tecnico o un ingegnere, bensì un artista o, meglio, "non è né può essere un "tecnico" che diventa artista, ma un artigiano che, attraverso un naturale processo evolutivo, si "qualifica" come artista" (p. 83). Ma le posizioni di Argan e Munari non sono in realtà così distanti come la terminologia rispettivamente usata sembra lasciar intendere. Entrambi, infatti, si impegnano nel voler stabilire una normativa sulla formazione di una figura che necessita riferimenti con lo Zeitgeist, lo spirito del tempo che lo accomuna all'artista e dall'altra parte di confronti tecnici necessari al fare produttivo industrializzato. Il tutto sintetizzato in una metodologia che non è vincolo, bensì mestiere, che si avvale di un certo grado di flessibilità non pregiudiziale, la cui distinzione rispetto ad altri addetti ai lavori è di tipo qualitativo e non quantitativo o di merito.

NOTE

(1) Sull'argomento cfr. F. Capra, La scienza della vita, Rizzoli, Milano, 2002.


Marcel Breuer, Cesca chair, 1927.


Herbert Bayer, copertina della rivista "Bauhaus", 1928.


Alvar Aalto, vaso, 1936.
  Di qui la necessità di una formazione completa e di ampie vedute, che non releghi né nel mero tecnicismo, né nel parnaso dell'opera d'arte unica e irripetibile. Lo storico dell'arte spenderà le sue letture sulle opere degli architetti designers in questa direzione: "i migliori architetti moderni -sostiene- hanno già sviluppato il loro modo di lavorare nel senso metodologico del design: quando un Breuer, un Aalto, un Albini disegnano un oggetto, non "applicano" l'architettura all'oggetto, ma fanno dell'architettura come quando disegnano una casa, un gruppo di case, un quartiere". Rientra quindi in questo senso del design come progettualità l'esaltazione ammirata del valore didattico e metodologico della Bauhaus, intesa come scuola del progetto prima ancora che essere scuola di architettura o design o arti applicate. Le scuole aziendali vengono quindi valutate come cantieri per la qualificazione della mano d'opera e delle maestranze, ma la formazione del progettista deve avvenire laddove la questione del progetto viene insegnata nella complessità e nell'ampiezza dei suoi molti passaggi, ovvero nelle scuole di architettura.

È quasi superfluo, a questo punto, sottolineare la pertinenza di tali argomenti proprio oggi che, come già accennato, la richiesta di formazione in questo campo, sia da parte degli aspiranti designers, che delle aziende produttrici, si è fatta così massiccia. Il proliferare di scuole private, al quale si sta assistendo negli ultimi anni, non può certo essere la risposta, una volta assunto il valore della complessità di una formazione che attinge materiali da più sfere del sapere. Oggi come allora ciò che ci si può augurare è "la trasformazione graduale dei metodi di insegnamento nelle scuole d'arte e d'architettura attualmente esistenti" (p. 78). Ma, ciò che ci sembra un dato fondamentale che è stato sinora trascurato, è porre attenzione anche alla preparazione degli stessi storici del design al fine di "armonizzare la cultura dei "professionisti" al tipo di cultura che si definisce attraverso le varie specie di design, cioè per eliminare la frattura tuttora esistente, nella coscienza dei più, tra cultura e produzione" (p. 78).

Vale a dire che il processo di revisione culturale di cui necessita il design passa attraverso la riforma didattica, ma anche attraverso un mutato atteggiamento culturale che ancora oggi, viziato dalle fratture tra formazione umanistica e quella tecnica, relega snobisticamente l'istruzione della materia nel sottobosco delle arti applicate e industriali. È indubitabile, infatti, che di fronte a questa tara culturale, il ruolo delle formazioni aziendali sia stata la sola isola nella quale poter svolgere sinora una formazione della disciplina che, tuttavia, oggi non può più essere soddisfacente. Come ha osservato Carlo Olmo nella prefazione al libro in questione, troviamo nelle parole di Argan "un'idea forte di umanesimo tecnico, di un umanesimo che accetta la sfida, anche intellettuale, che la tecnica propone, rifiutando il rifugio in irrazionalismi o in individualismi oggi tanto seducenti, che andrebbe ripensata". L'ultimo ruolo che andrebbe riveduto, in tal senso, dopo quello del designer, dopo quello dello storico e quello del fruitore, è certamente quello del committente. La questione sarebbe troppo ampia per essere trattata qui esaustivamente, ma proviamo schematicamente a considerare la figura attualmente affermata della committenza. Questa studia o, meglio, incarica gli esperti di studiare per comprenderne i meccanismi psicologici e comportamentali degli utenti potenziali al fine di produrre desideri ancor prima che gli oggetti che li incarnano, che innescano nella merce un valore di feticcio che ben si presta a questa dinamica, la quale rispecchia un carattere decisamente merceologico per non dire mercenario. Rileggere Argan, in tal senso, significa ricordare un momento della fondazione della teoria del design nel nostro paese in cui ideologia e tecnologia non sembravano un connubio così fallimentare e naif come può apparire oggi.

 

 

 

Marcello Nizzoli, Lettera 35, Olivetti, 1955.
L'ultimo intervento della raccolta è dedicato pertanto alla figura di Adriano Olivetti, che "fu forse il primo a capire che in un paese come l'Italia, costretto ad un'industria di trasformazione dalla povertà di materie prime, si doveva puntare tutto sulla qualità del prodotto, e questa esigeva progettazione rigorosa, tecniche aggiornate, operatori qualificati". Olivetti viene delineato non come un mecenate -ruolo che tanto oggi sembra essere gradito ai nuovi committenti e ai loro cortigiani designers-istrioni- bensì come un metodologo: un industriale che coinvolgeva esperti e persone di cultura in una collaborazione lavorativa volta a coprire il divario tra cultura e società. Una frattura, questa, che produce l'alienazione dall'oggetto d'uso il quale ha perso oggi, nella maggioranza dei casi, la sua simbolicità e la sua magia rituale sia per chi lo produce, che per chi ne fruisce nell'inconsapevolezza di una strumentalizzazione perpetrata dai potenti mezzi della comunicazione e del marketing. Ripensare alla storia del design nel nostro paese e alla grandezza dei risultati qualitativi raggiunti in quegli anni significa riconoscerne un valore che "permette alle persone di scaricare nel contatto e nel godimento di un oggetto fatto dall'industria, l'inevitabile frustrazione della ripetizione di situazioni e di gesti nel corso della giornata di normale lavoro all'interno del sistema industriale".

Rileggere tutto questo può portarci ad un bivio. Da un lato, relegare questo patrimonio della nostra storia recente nel valore di fonte documentaria alla quale guardare certo con interesse, ma malcelando un atteggiamento che rivela cinicamente il nostalgico patetismo delle ideologie passate e fallite. Oppure rivalutarne le cause e riconoscere la crisi come una nuova sfida per il presente da rimpostare autonomamente, senza chiedere prestiti teorici a nessuno.

Domitilla Dardi
d.dardi@libero.it
 

Questa pagina è stata curata da Matteo Agnoletto.






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