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Franco Zagari.
L'interpretazione del paesaggio




Livio Sacchi
"Franco Zagari. L'interpretazione del paesaggio"
Testo & Immagine, 2003
pp111, €20,00

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È un libro sui progetti di un personaggio forse più noto per il suo ruolo culturale che per la sua attività professionale di architetto, attività assolutamente non secondaria e, come si può constatare scorrendo le pagine, molto feconda, di alta qualità e in piena fase di maturazione. Il libro su Franco Zagari, che è il terzo della collana "architettura oggi - nuove tendenze" diretta da Luigi Prestinenza Puglisi per i tipi di Testo & Immagine, comincia con una lunga e approfondita presentazione di Livio Sacchi che situa Zagari all'interno del panorama italiano raccontando l'intera evoluzione dei progetti fino a quelli ancora in cantiere e agli ultimi concorsi vinti. Nella seconda parte troviamo dieci schede di opere costruite dal suo studio di architettura in cui da anni operano Alessandro Villari, Lorenza Bartolazzi e Claudia Clementini cui sicuramente va parte del merito. Sono interventi che spaziano da parchi e giardini "naturali" a spazi pubblici decisamente "minerali" con oggetti che crescono fino a diventare in alcuni casi vere e proprie architetture.

Sono progetti positivi, capaci di grande ironia e allo stesso tempo profondi, sperimentali e professionali. Le schede sono affiancate da pochi disegni, molte fotografie e molte informazioni su materiali e dettagli. Stupisce la mole dei progetti costruiti, e vedendoli insieme si riescono a riconoscere le evoluzioni di alcuni temi ricorrenti come le serie degli oggetti d'arredo, i giochi cromatici, le sperimentazioni sulla natura e poi il tema delle architetture di percorso, che mi è sembrato uno dei più interessanti. Il progetto più recente, quello per il Lungomare Faleria a Porto Sant'Elpidio, è una passeggiata lungo la spiaggia che riprende il tema delle pavimentazioni "deformanti" già sperimentati a Catanzaro sulla base dei quadri di Victor Vasarely e a Villa Lante al Gianicolo come deformazione antiprospettica.

[26mar2004]

Porto Sant'Elpidio. La promenade: travertino a doghe e resina.


Porto Sant'Elpidio. Le oasi pavimentate in legno in Ipé.

Porto Sant'Elpidio. La promenade: travertino a doghe e resina.

Ma qui il percorso si presenta come un semplice nastro artificiale appoggiato sulla sabbia. Un suolo longitudinale che come una scultura di Carl Andre si appoggia sul paesaggio come un sottile oggetto minimale, una strada quasi senza spessore su cui compiere l'esperienza del percorso.


Klee e lo spazio medioevale, piazza Marconi, Brisighella, 2001: la via degli Asini e planimetria dell'intervento.

A differenza dei suoli optical precedenti che fungevano da supporto ad altri oggetti di arredo, in questo caso l'assenza di altri elementi permette di concentrarsi sul camminare, la pavimentazione sembra l'impronta di una ruota in frenata che stimola una continua accelerazione e decelerazione dell'andatura. È ancora un'architettura di percorso quella che disegna la piazza-strada di Piazza Marconi a Brisighella. Anche qui l'economia di mezzi è a favore di un effetto molto forte prodotto dal disegno "alla Klee" della pavimentazione a piani inclinati. Sulla piazza inoltre si affaccia la via degli asini, una via-portico che ondeggia come il dorso degli animali. È un suolo morbido e pulsante che ricorda quello orografico di Piazza Montecitorio, un omaggio al camminare sulle superfici di Roma e alle loro continue variazioni che si modellano come la pelle di un pachiderma di sampietrini. Piazza Montecitorio è il progetto forse più importante, ottiene giustamente la foto di copertina e alla fine del libro è oggetto di una sorta di appendice che ricorda le dolorose polemiche che lo hanno accompagnato.


Piazza Montecitorio, Roma, 1998.


Opera di Victor Vasarely e particolare di Piazza Matteotti, Catanzaro.

Alle parole sgarbate del benpensantismo conservatore rispondono una calorosa e accalorata difesa di Francesco Cellini, quella da romano occasionale di Pasqual Maragall, una aulica descrizione del progetto di Franco Purini e la affettuosa preoccupazione per una Roma eternamente quasi intoccabile di Elias Torres.

Dalle pagine del libro si comprende che Zagari è un architetto che fa ricerca, uno studioso che ha saputo costruire pezzo per pezzo il proprio campo disciplinare e che è anche riuscito -fatto assai raro nell'attuale mondo accademico italiano- a sperimentare nella realtà della città le potenzialità delle sue ricerche. Negli anni Ottanta, quando il dibattito si appassionava ancora a parole come tipologia e morfologia, tessuto e monumento, Zagari nell'ombra impegnava le sue energie a reintrodurre la parola "paesaggio" nel lessico dell'architettura, si interrogava sulle possibilità del progetto del giardino contemporaneo, riportava a riflettere sul rapporto natura-artificio. "Un lavoro progettuale, scientifico e didattico pionieristico -scrive giustamente Livio Sacchi- un compito, questo scelto da Zagari, certo difficile; ma anche un vastissimo spazio operativo, fisico e culturale, da occupare e dissodare, caratterizzato da infinite potenzialità e da estesi ambiti di sperimentazione. (...) Un lavoro capace di valicare le tematiche di tutela e conservazione storico-ambientale, superare l'idea di contesto e andare oltre le talvolta meccaniche logiche della cultura ecologista; una riscoperta che si pone come una nuova forma d'interpretazione dello spazio contemporaneo." Un pioniere dunque, e il suo ruolo non si è solo limitato riportare l'attenzione sul paesaggio ma anche su quella vasta area di discipline che dal paesaggio si dischiudono.


Piazza XIX marzo, Cisterna di Latina, 2002.

Zagari è infatti un personaggio curioso che ha sempre guardato con interesse alle innovazioni e alle contaminazioni tra l'architettura e le altre discipline. Nei primi anni Novanta a Roma il suo era l'unico corso in cui accanto ai giardini si vedevano sculture, installazioni e le prime immagini di quelle strane architetture che in seguito avremmo chiamato decostruttiviste. Era il corso in cui era obbligatorio fare plastici, che agli esami accettava i primi orribili disegni al computer, l'unico in cui veniva nominato Massimiliano Fuksas.

Ma soprattutto era il corso in cui attraverso il paesaggio si parlava di periferie, di spazio pubblico, di rapporti con le arti visuali, di land art. Franco Zagari aveva infatti riaperto una porta che forse era rimasta solo socchiusa dopo una millenaria tradizione di parchi e giardini, e fuori da quella porta aveva incontrato un territorio ampio, ramificato, eterogeneo e per sua natura interdisciplinare. Attraverso la parola paesaggio si era aperta una possibilità per stare all'aperto, nella natura oltre l'edificio ma anche in territori disciplinari oltre l'architettura, e tengo a dire che per quella porta in molti hanno trovato una via di uscita da un annoiato e intorpidito mondo accademico. Il libro parla di quella porta e questi primi progetti sono solo i primi risultati di quella che sembra essere una ricerca che darà ancora molti frutti.

Francesco Careri
piccio@osservatorionomade.net

 

Questa pagina è stata curata da Matteo Agnoletto.






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