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Rovine e macerie. Il senso del tempo



Marc Augé
"Rovine e macerie. Il senso del tempo"
Editore Bollati Boringhieri, 2004
Collana Variantine
pp139, €9,50

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L'inventore del fortunato neologismo "non-luogo" ha raccolto, in una prosa discorsiva e agile, i suoi ultimi pensieri sulle città e sul mondo che gira loro attorno. I capitoli che si susseguono in modo frammentario affrontano, senza veli intellettualistici, gli indirizzi che sembrano seguire gli uomini e le loro città nel mondo contemporaneo. Vengono così estratti dalla complessità attuale i temi fondamentali sui quali discutere a tutti i livelli, dalla filosofia alla pianificazione del territorio, dal restauro alla sociologia. Le città contemporanee sembrano imporre un pensiero che fa dell'interdisciplinarietà la propria forza propositiva e forse l'unico approccio possibile. Alla molteplicità degli sviluppi e delle espansioni territoriali, alla ingovernabilità delle metropoli con gli strumenti attuali, è massima la necessità di un ripensamento e un cambio di strategia. È opportuna un'analisi meno specifica e puntuale a favore di una più generale e flessibile. E, al fine di raggiungere una visione globale, si deve tentare una strada narrativa per riorganizzare metodo e strategie. L'indagine dello scarto tra locale e globale è la scommessa delle città per il futuro prossimo: l'identità locale contro l'entità globale, il manufatto architettonico che caratterizza una città contro i "non-luoghi" che si presentano identici in ogni città del mondo, quali aeroporti, supermercati, stazioni, luoghi del grande consumo...

Il concetto che sta alla base dell'analisi di Augé è la "surmodernità". Questa nuova modernità ha sostituito quella precedente del XVIII e XIX secolo per le sue caratteristiche di esasperazione e complicazione della realtà, del tempo e dello spazio. "La surmodernità sarebbe l'effetto combinato di un'accelerazione della storia, di un restringimento dello spazio e di una individuazione dei destini" (pag. 49). Questi tre punti, elaborati in scritti precedenti (1992), sono il substrato concettuale sul quale sono affrontate tutte le disquisizioni.

L'eccessiva informazione mediatica, il venire a conoscenza ogni giorno di una serie di avvenimenti storici importanti, sarebbe l'accelerazione della storia. Se avvenimenti di rilevanza storica nei secoli precedenti avevano un tempo di mesi o di anni, oggi siamo sottoposti ad un tempestivo e non selezionato stillicidio di informazioni che hanno la pretesa di sembrare fondamentali, e che accelerano il concetto stesso di storia e del corso del tempo. Se il tempo accelera il passo, lo spazio si restringe. Lo sviluppo dei mezzi di trasporto permette spostamenti sempre più brevi, ma non solo: la circolazione delle immagini di ogni posto sulla terra, ci fa sentire vicini a luoghi distanti, accorciando virtualmente lo spazio che ci separa da essi. Il sistema economico globale e le nuove forme di consumo contribuiscono all'individuazione dei destini costretti dei popoli.

[23dec2004]
 

Il risultato è che il pianeta ci sembra sempre più piccolo fisicamente e infinitamente più grande per altri aspetti, sociali e culturali. Con queste premesse Augé sembra legarsi alle teorie del "tempo in anticipo su se stesso" (Gurvitch, 1964) dove il tempo futuro diviene presente; alle teorie di Landes (1984) per il quale lo spazio ed il tempo cambiano a seconda del tipo di potere monetario esercitato sul popolo; alla tesi della "compressione spazio-temporale" di David Harvey (1990).

 
 

L'autore vede nella "spettacolarizzazione del mondo" un'evidente caratteristica della surmodernità. Il mondo, i suoi tesori, le sue particolarità, sono oggetto di una intensa attività mediatica e ideologica che ne svuota i contenuti e le valenze a favore di una percezione superficiale. Il monumento e la città, così come ogni luogo, diventano immagine. Il patrimonio artistico, culturale e naturalistico delle nazioni "si presenta anzitutto come un oggetto di consumo più o meno decontestualizzato, o come un oggetto il cui vero contesto è il mondo della circolazione planetaria" (pag. 52). Nelle città si delineano così due tendenze fondamentali. La prima è l'uniformità dei non-luoghi: la circolazione di prodotti, il loro consumo e la loro comunicazione hanno nei loro contenitori una forma simile, ed un senso di déjà-vu coglie l'osservatore in ogni luogo della terra. È il caso degli aeroporti, delle stazioni, di molti edifici commerciali, del troppo-pieno della generic city di Rem Koolhaas (1994), nella quale i quartieri sono tutti uguali, senza memoria della propria identità, che rispecchiano la moda planetaria... Questa uniformità si contrappone alle "singolarità" architettoniche (come la piramide del Louvre o il Guggenheim).

La seconda tendenza riguarda il carattere artificiale delle immagini. Sempre di più il governo dei paesi cerca di gestire il patrimonio e di farne una ricchezza. Ma l'errore fondamentale è l'artificiosità con la quale viene inteso il "carattere locale", la tradizione e l'identità delle città. È interessante osservare l'opinione dell'autore sul restauro: esso fa parte della classe delle ricostruzioni, riproduzioni e simulacri che impestano il mondo del consumo. Ridipingere la facciata di un palazzo e costruirvi dietro la struttura nuova viene associato alla ricostruzione fedele, alla copia dell'originale, e "questa spettacolarizzazione rende ogni giorno più tenue il confine tra la realtà e la sua rappresentazione, tra la realtà e la finzione" (pag. 58). Si ricostruisce la realtà a partire dal suo simulacro, dall'immagine che il grande pubblico ha dell'oggetto, dove non esiste più nulla ma tutto è simile a prima. I restauri nei centri storici fanno assomigliare Parigi o Roma alle cartoline che si vendono nelle bancarelle. In questo modo le città cercano una immagine che appartiene loro marginalmente, la più commerciabile, e a questa adattano le strategie di make-up urbano per accontentare la domanda. Questo è ciò che Augé chiama l'"effetto Disneyland".



Uno dei fenomeni di questo effetto è sicuramente il turismo, simbolo limpido della progressiva spettacolarizzazione del mondo. Esso stesso "una delle forme più spettacolari del presente" (pag. 69), è utile al fine di comprendere la tesi della surmodernità, poiché è lo specchio delle grandi ambivalenze d'oggi. Il simultaneo amplificarsi del turismo con i movimenti migratori ritrae i due mondi che viviamo: quello ricco che si sposta brevemente con il turismo e quello povero che si sposta a tempo indeterminato con la migrazione. Il viaggiare per piacere o per necessità distingue geopoliticamente i popoli. Il turismo diviene così la categoria di distinzione tra essi.

A questa prima ambivalenza se ne aggiungono altre: il patrimonio dei luoghi si presenta sempre più come un oggetto di consumo, al quale segue che il viaggio si costituisce come verifica di ciò che già si conosce come immagine. Un turista verifica che Venezia sia esattamente come le immagini dei dépliant o delle cartoline! Così il simulacro penetra sempre più nella realtà. L'uomo contemporaneo si fa cullare nell'illusione perché il suo mondo si dirige verso la propria spettacolarizzazione. È indicativo notare che per l'uso di Internet si usino i verbi "viaggiare" o "navigare", termini che non solo indeboliscono la differenza tra realtà e immagine, ma, in forza di questa indistinzione, rendono il senso illusorio di ubiquità. Allo stesso modo che per gli "oggetti" delle città, il turismo spettacolarizza anche la natura, le tradizioni, i costumi locali... Il viaggio, per Augé, è ben diverso: è come la scrittura, dove l'uomo racconta gli episodi di una vita, pieni di imprevisti e scoperte, di differenze. Il turismo si contrappone quindi al viaggio, poiché "il turista consuma la propria vita, il viaggiatore la scrive" (pag. 63). Il paesaggio, ad esempio, "è lo spazio descritto da un uomo ad altri uomini" (pag. 72), ovvero un racconto pieno di omissioni, di ricordi e opinioni: si configura come un tessuto di differenze, una trama vitale perché incompleta.

È interessante ora citare Baudrillard, che chiama "iperrealtà" una parte di questa spettacolarizzazione: quella voglia meschina di comprendere tutto e subito, di illudersi di conoscere perfettamente una città, un oggetto, di avere potere su di esso, di poterlo esperire in tempo reale e di poterlo scambiare. La realtà, vitale e florida perché sfuggevole, viene sostituita con il simulacro: l'uomo del commercio e dello spettacolo è distratto perché è più affezionato all'immagine comprata che alle speranze di un viaggio. Questo già-visto del turismo, questa evidenza a tutti i costi, questa corrispondenza esatta alle aspettative, accresce la fame di iperrealtà: la "folle pretesa delle cose di esprimere la loro verità... L'iperrealtà di ogni cosa della nostra cultura, l'Alta Definizione che ne sottolinea l'oscenità, sono troppo evidenti per essere vere" (Jean Baudrillard, Il Delitto Perfetto, 1996, pag. 133).

È a questo punto che Marc Augé pone l'attenzione sulle rovine. Le rovine, secondo la sua tesi, riescono ad uscire dal gioco folle del mondo contemporaneo. Sfuggono al "tempo reale", alla "diretta", poiché risvegliano nell'osservatore la "coscienza della mancanza": l'occhio si posa su di esse come se fossero un oggetto contemporaneo, e, al contempo, una data incerta a loro attribuita rende quasi impossibile un riferimento ad una epoca fissata nella memoria storica come immagine. Così via dei Fori Imperiali a Roma è vista come un paesaggio, cioè la riunione di temporalità diverse, dove è quasi impossibile distinguere gli interventi nelle varie epoche e classificarli con etichette vendibili. A Roma "si ha l'impressione [di vedere] una sorta di immensa rovina senza età, nella quale chi passeggia innocente può trovare il puro godimento di un tempo che nessun monumento e nessun sito riescono ad imprigionare". Le rovine di Roma, così come quelle di Berlino o di Tikal, o quelle sparse in tutto il mondo orientale, riescono, attraverso la differente percezione e coscienza storica che abbiamo di esse, a sottrarsi alla spettacolarizzazione. Esse riescono, secondo la definizione avanzata, a farci percepire un "tempo puro" che sfugge al "tempo della storia", un tempo nel quale perdersi ed osservare il mondo senza preconcetti o corredi culturali che spodestano la realtà a favore della sua codificazione. È questa la coscienza della mancanza: espressione dell'assenza, le rovine, con le loro molteplici epoche ed irricostruibili storie, rappresentano la speranza per un mondo non oggettivabile. L'assenza di una determinazione spazio-temporale ci fa esperire un "tempo puro", quel tempo che confonde epoche lontane e attuali in un sentimento vitale. Il paesaggio delle rovine è la duplice prova di una funzionalità perduta e di una attualità massiccia, che si dà attraverso i propri segreti, lo stupore e la curiosità che derivano dal non sapere tutto, dal non aver letto tutto. Le rovine "ci fanno fugacemente avvertire una distanza fra un senso passato, scomparso e una percezione attuale, incompleta [...] La percezione di questo scarto è la percezione stessa del tempo, della subitanea e fragile realtà del tempo, cancellata in un batter d'occhio dall'erudizione e dal restauro (l'evidenza illusoria del passato) come dallo spettacolo e dall'aggiornamento" (pag. 26).

Le rovine sono l'alternativa al tempo storico e allo spazio spettacolarizzato poiché in esse si avverte il "senso puro" e la "massiccia attualità". E dispiace al nostro autore che a Berlino le rovine del muro siano state cancellate, e che sia difficile rendersi conto di come leggere la città storica. La memoria di Berlino è così compromessa quando la forma cambia senza che le rovine del passato ne accrescano il valore. Postdamerplatz ha preferito l'architettura dei non-luoghi alle sue macerie. Ha preferito il consumo alla memoria, il turismo di massa al viaggio. Anche a Parigi, città dell'autore, l'architettura nuova non disegna una città nuova, ma una città stereotipata, priva di passato e quindi di avvenire, priva di originalità. Il rischio è che le città finiscano per assomigliare sempre più ad aeroporti!

Quando il mondo come oggetto di consumo marca la sua fine, le rovine sono ancora segno di vitalità perché non balbettano il proprio passato scadendo nel pittoresco, nella farsa, nel simulacro. Esse ridonano il senso del tempo poiché sono osservabili come presenze attuali non volgarizzabili dallo storicismo di consumo, poiché conservano l'indeterminabilità e l'enigma, il mistero.

Le rovine sono il culmine dell'arte nella misura in cui accolgono in sé molteplici passati e, quindi, molteplici scritture di viaggio. La loro bellezza dipende dalla loro inafferrabilità.
Ma Augé, finito il trattato, afferma che la bellezza è propria anche dei non-luoghi. Questi, con il loro cambiamento di scala e il loro porsi come oggetti dell'attualità che contengono infinite differenze, accedono al tempio della bellezza. Hanno la bellezza di ciò che non esiste ancora. La speranza di Marc Augè è "quella di reimparare a sentire il tempo per riprendere coscienza della storia" (pag. 43), e il questo libro, nel suo linguaggio chiaro e distinto, ne illustra le modalità.

Vittorio Sanna
vittoriosanna@yahoo.com

 

       

Questa pagina è stata curata da Matteo Agnoletto.






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