home > books review

Books Review

    Groundzero.exe
Costruire il vuoto

   
   

Matteo Agnoletto
"Groundzero.exe. Costruire il vuoto"
Editore Kappa, 2004
Collana Percorsi diretta da Michele Costanzo
pp136, €18,00

acquista il libro online!



   
    Che l'attacco alle torri gemelle costituisca l'evento fondamentale di questo inizio di millennio è fuori di dubbio. Le conseguenze sulle nostre vite e ancora di più sulle vite di chi è direttamente coinvolto nei teatri di guerra che ne sono scaturiti sono tali e tante da non dare spazio a discussioni di sorta. Meno chiaro è se il disastro del World Trade Center rappresenti uno snodo epocale anche per l'architettura. Gli animati scambi di idee che nell'ambito disciplinare si sono accesi subito dopo l'undici settembre sulla sopravvivenza o meno del grattacielo (non si faranno più, si faranno come sempre, si faranno diversi, più alti, più bassi, di altezza media...) si sono presto acquietati, dando ragione a Rem Koolhaas il quale, interrogato sull'argomento, rispondeva un po' stizzito che non sarebbero stati certamente gli architetti a prendere decisioni in merito.

  [13dec2004]
    In ogni caso, il luogo dove si stanno cercando le prime e più significative risposte sul futuro dell'architettura alta (in tutti i sensi) è proprio Ground Zero. A tre anni di distanza dal crollo dei grattacieli di Yamasaki e dopo una intensa attività propositiva, è possibile fare il punto sulle principali questioni sollevate in quel momento, sull'opportunità e la volontà di costruire ancora in altezza, sul come realizzare tale volontà, sul peso della nostra disciplina nelle scelte strategiche e sull'efficacia delle possibili soluzioni. Con eccezionale tempestività, Matteo Agnoletto affronta le vicende recenti dell'area dove sorgeva il World Trade Center, dedicando gran parte della sua analisi ai numerosi progetti che in diverse occasioni hanno affrontato il difficile nodo della ricostruzione: dalla precoce iniziativa del gallerista Max Protetch (organizzatore tra gennaio e febbraio 2002 di una mostra nella quale 58 tra artisti e architetti invitati propongono un primo, informale approccio al tema della ricostruzione), alla bocciatura popolare dei progetti "speculativi" proposti dallo studio Beyer Blinder Belle su commissione della Lower Manhattan Development Corporation (l'ente creato dal governatore dello stato di New York per resuscitare Ground Zero) fino ai progetti invitati al successivo concorso vinto da Daniel Libeskind.

L'autore evidenzia da subito il nodo estremamente complesso delle questioni in gioco, dove alle necessità di rappresentazione simbolica, di preservazione e costruzione della memoria, si intrecciano tutte le pulsioni turbocapitalistiche espresse dal DNA newyorkese, ragioni prime dell'esistenza e della rovina di quello che si chiamava "centro mondiale del commercio". Il tutto in dimensioni e quantità estreme: migliaia di morti da ricordare, una platea globale che guarda a questo luogo come simbolo dell'occidente (nel bene e nel male), una enorme quantità di metri cubi persi da reintegrare su uno dei terreni più cari della terra, la necessità di risolvere un evidente problema di sicurezza (dal momento che ricostruire significa anche offrire un nuovo, sempre più appetibile bersaglio).

 


 

 

 

 


Norman Foster.


Daniel Libeskind.


Michael Arad, Reflecting absence.

 



Insomma, una sfida di particolare difficoltà, rispetto alla quale le risposte degli architetti, soprattutto quelle rivolte alla capacità di dare senso profondo all'intera operazione, sembrano aumentare di brillantezza e appropriatezza quanto più si allontanano da una reale fattibilità. Situazione, quest'ultima, sottolineata implicitamente dallo stesso Agnoletto nell'attribuire il giusto risalto ai luminous ghosts, i fasci luminosi che, per un mese, hanno ricreato la sagoma delle torri proiettandola a grandissima altezza nelle notti newyorkesi. E proprio l'immaterialità, il vuoto, si sono dimostrati gli aspetti decisivi di altre convincenti prove d'artista attorno al nodo emotivo dell'undici settembre: dall'episodio girato da Sean Penn nel film collettivo 11'09''01. September 11, nel quale il crollo delle torri era evocato attraverso il venir meno dell'ombra che gettavano sulla povera vita di un grandissimo Ernst Borgnine, e in Reflecting absence, progetto con il quale Michael Arad ha vinto il concorso per il memorial del disastro marcando in negativo l'impronta delle torri. Non potendo far sparire le enormi volumetrie richieste dal mercato (business must go on!) gli architetti chiamati a partecipare all'ultimo concorso si sono in genere rivolti a un ottimismo un po' ingenuo, affidandosi al valore simbolico della rivincita della "normalità" (se così si può definire l'iperconsumo globalizzato di cui il WTC era ed è il simbolo) o spingendo ulteriormente sui parametri dimensionali per ridare a New York il primato dell'edificio più alto. Persino il tema della sicurezza, che pure avrebbe potuto dare luogo a più interessanti sperimentazioni di tipo tecnico e soprattutto culturale, non produce granché di diverso rispetto alla diffusa applicazione di strategie di ridondanza, rassegnate a consentire almeno una più ampia possibilità di evacuazione. E questo nonostante il gran numero di intelligenze coinvolte.


Il progetto di Daniel Libeskind, vincitore del concorso e il progetto definitivo per la realizzazione della Freedom Tower di Childs.

Vari appartenenti allo star system architettonico internazionale hanno infatti partecipato al concorso in inedite formazioni (SOM con Kazuyo Sejima, Stan Allen e altri; FOA con Greg Lynn, Ben van Berkel, Reiser+Umemoto; Rafael Viñoly con Shigeru Ban; Steven Holl con Richad Meier, Peter Eisenman e Gwathmey & Siegel...), ma l'impressione generale che se ne ricava è che queste collaborazioni si siano risolte soprattutto sul piano del linguaggio. Non può meravigliare allora la vittoria di Daniel Libeskind, forse l'architetto più "catastrofico" oggi in attività dopo il museo ebraico di Berlino e l'Imperial War Museum North a Manchester, con le sue volumetrie tormentate, fratturate e accatastate in insiemi complessi e altamente evocativi. La retorica formale e simbolica del progetto (i 1776 piedi della guglia più alta ricordano la data della dichiarazione di indipendenza americana...) deve essere sembrata una risposta particolarmente adeguata alla insoddisfazione popolare che aveva rimesso in gioco l'architettura a Ground Zero. Adeguata ma non sufficiente. Gli sviluppatori immobiliari hanno infatti pensato bene di garantirsi il controllo economico-commerciale dell'operazione affiancando al vincitore del concorso l'architetto David Childs, partner di Skidmore Owings & Merrill (peraltro già eliminati nella stessa consultazione). La difficile coabitazione fra i due è cronaca recente e, in definitiva, segno di una crisi di rigetto molto manhattanista verso l'architettura "bella"...

In attesa che il tempo interponga una distanza critica sufficiente verso questi progetti newyorkesi (forse un giorno paragonabili per importanza al lontano concorso per il Chicago Tribune) e che un emulo di Rem Koolhaas ne ripercorra, retroattivamente, le conseguenze, l'agile ricerca di Matteo Agnoletto ha il merito di sottoporli a un confronto serrato, informato e intelligente, immergendoci in tempo reale in una vicenda che tocca la materia viva dell'oggi.

Giovanni Corbellini
gcorbellini@units.it

 

       

Questa pagina è stata curata da Matteo Agnoletto.






Per proporre o recensire pubblicazioni
è possibile contattare la redazione di ARCH'IT
all'indirizzo booksreview@architettura.it


laboratorio
informa
scaffale
servizi
in rete


archit.gif (990 byte)

iscriviti gratuitamente al bollettino ARCH'IT news







© Copyright DADA architetti associati
Contents provided by iMage