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Books Review

The State of Architecture at the Beginning
of the 21st Century



Bernard Tschumi, Irene Cheng
"The State of Architecture at the Beginning of the 21st Century"
Monacelli Press, 2004
pp. 160 , $29.95

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Il libro The State of Architecure at the Beginning of 21st Century pubblicato da Monacelli Press, raccoglie all'interno di centotrentasei pagine monocromatiche sessanta saggi di architetti, critici e teorici raccolti in una conferenza curata da Bernard Tschumi e Irene Cheng, tenuta alla Columbia University nel marzo del 2003. I saggi sono basati su opposizioni di termini come "Dettaglio+Identità", "Politica+Materiali", "Organizzazione+Corpi", tutti accomunati dalla domanda "qual è lo stato dell'architettura all'inizio del ventunesimo secolo?" e "vale ancora rivisitare l'idea di manifesto in architettura, inteso come forma di dichiarazione che propone goals e direzioni?".

Ad ogni autore vengono affidate due pagine, con un risultato di incredibile varietà di strategie comunicative. Alcuni autori scelgono il solo testo con l'intenzione di formulare un nuovo approccio programmatico (Winy Maas), altri sono più critici e pessimisti, altri ancora (Zaha Hadid, Frank Gehry, Wiel Arets o Diller & Scofidio) lasciano che l'architettura parli da sé, relegando il testo ad essere marginale descrizione del progetto. Ai casi opposti del testo manifesto o dell'edificio manifesto si affiancano variazioni intermedie, Rem Koolhaas facendo riferimento allo sviluppo cinese afferma come gli aspetti sociali, l'ambizione del cliente, il programma proposto e il luogo stesso siano fattori che reciprocamente determinano un progetto, in questo caso la CCTV, Sanford Kwinter sottolinea l'affermarsi di nuove figure come il program designers e afferma, come fa inoltre il saggio di Toshiko Mori, la necessità di attuare investigazioni di nuovi processi scientifici e costruttivi sperimentando allo stesso tempo l'uso di nuovi materiali.

[29jan2005]
  La tendenza percepibile tra le pagine di The State of Architecure at the Beginning of 21st Century è che dopo i manifesti dell'architetto demiurgo ci si stia sottoponendo ad un silenzio di parole per costruire, e che dopo l'esplosione del virtuale ci si stia affidando alla precisione nella realizzazione del dettaglio. Alle pretestuose Las Vegas di stile degli architetti-stars si contrapporranno città costituite da edifici algidi dai dettagli perfetti. The State of Architecture at the Beginning of the 21st Century è un libro eterogeneo al cui interno possiamo tracciare un nostro personale viaggio con l'intento di individuare una possibile prossima tendenza. A delinearne in modo chiaro un approccio è il testo di Reinhold Martin che, in cinque punti, ci aiuta a capire la complessità dell'essere architetto e del fare architettura proponendoci una sorta di "terapia di gruppo".


Skidmore, Owings & Merrill LLP, Logo.

La "terapia Martin" fa riferimento a come l'organizzazione stessa dello studio e il processo siano essenziali quanto il risultato finale che proponiamo. Prendendo come esempio SOM, Apple o Walt Disney, Reinhold Martin sottolinea l'affermarsi di corporate architecture dove l'organizzazione non è più verticale ma viene ridistribuita orizzontalmente. Nelle nuove corporazioni, l'organizzazione è caratterizzata da un insieme di persone con diverse specializzazioni dove l'idea, il prodotto finale, il logo, l'immagine della brand scaturiscono all'interno di laboratori iper-organizzati. L'architetto è ora manager che organizza l'immagine della brand e del prodotto, produce idee e organizza strategie. Transitiamo dal ruolo di star a creatori e interpreti di brand, tutto questo con la rapidità che contraddistingue questi tempi. Non dobbiamo attendere che pseudo-digital diagrammi producano architettura, ma dobbiamo usare l'immaginazione strategicamente, tendendo non più verso l'utopia ma, come afferma Martin, verso un visionario realismo. Niente più manifesti che si affidano a programmi o proclami su quello che si deve o non si deve fare.

 
 
Issey Miyake e Dai Fujiwara, a-poc Making.

La logica adottata da chi si affida ad animazioni e rendering astratti o a data che pretendono di convincerci che la soluzione proposta è la migliore, è sostituita dall'utilizzo di tecnologie e nuovi materiali, dalla possibilità di sperimentare processi costruttivi non per rappresentare o per dichiarare un'intenzione ma per testarla direttamente nella costruzione. La novità dunque non riguarderebbe più soltanto la forma (non si va verso un altro ismo) quanto le logiche con cui un insieme di fattori, di cui alcuni nuovi, compongono il risultato finale. Quello a cui oggi dovremmo tendere è proporre effetti, cool effects afferma Sylvia Lavin. Non si tratta di un cool effect dato da affascinanti fly-over dell'architettura digitale, quanto piuttosto da una serie di operazioni che si intersecano e si contaminano reciprocamente dal punto di vista strategico e operativo. Si va dall'idea, che deve scaturire in modo veloce e geniale, alla produzione e vendita, con un occhio attento al modo stesso con cui lo spettatore-fruitore percepisce il prodotto finale. Un pacchetto completo elaborato in modo artificiosamente spontaneo. Non c'è molto tempo per le parole e i pensieri, come afferma anche Koolhass in Content, inoltre spesso annoiano e sono meno esaltanti di un'idea che prende forma.


Greg Lynn, Embryologic House, 1998.


Diller & Scofidio, Blur Pavillion, Switzerland, 2002.


La mentalità è quella del product design. Greg Lynn, Diller & Scofidio, Morphosis, anche se in modo diverso, seguono questa tendenza e al contempo tracciano strategie produttivo-costruttive. Greg Lynn si affida alla customizzazione. Dalla teiera alla casa possiamo circondarci di oggetti personalizzati e unici attraverso l'uso di tecnologie basate sul controllo numerico. Le animazioni si addentrano nei particolari svelandone complessità e modelli di produzione. Si scende di scala e si propongono prototipi, parti di edifici in una scala che si avvicina vertiginosamente all'1:1. In The State of Architecure at the Beginning of 21st Century Diller & Scofidio con l'edificio Blur, si avvicinano al product design attraverso la costruzione di prototipi a diverse scale. Anche Koolhaas si avvicina in qualche modo al modo di pensare del product designer. Per l'architetto olandese contano il cliente e la sua soddisfazione (ovvero aumentare il suo profitto, la sua fama...). Niente sperimentazione formale o test su nuove tecnologie, per lo studio OMA/AMO l'architettura è sempre la stessa, cambiano solo le intenzioni. E probabilmente ai suoi clienti e a Koolhaas stesso non interessano nuvole in mezzo ai laghi.

Sono diversi punti di vista raccolti in un libro di 136 pagine. Ovviamente non mancano le idee. Mi piace pensare che alle parole e alle animazioni si sostituiscono effetti non più solo visivi ma legati a strategie in cui idea, organizzazione stessa dello studio, sperimentazione di nuovi materiali, forma e percezione si contaminano. Il tutto all'interno del realismo visionario di cui parla Reinhold Martin.

Monia De Marchi
moniademarchi@hotmail.com

 

       

Questa pagina è stata curata da Matteo Agnoletto.






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