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Erich Mendelsohn (1887-1953)

 


Regina Stephan
"Erich Mendelsohn (1887-1953)"
Editore Electa Mondadori, Milano 2004
pp. 311, €90,00

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Eric Hobsbawm ha fatto notare come chiunque sia nato a est di Berlino prima della seconda guerra mondiale sia stato costretto a cambiare di nazionalità almeno un paio di volte. Ripercorrere dunque la vita e l'opera di Erich Mendelsohn, "l'Orientale della Prussia orientale" come si definiva, può esser un modo per ricostruire non solo la carriera di un maestro negletto del Movimento Moderno ma soprattutto una mappa ideale di geografie scomparse nella prima metà del '900. Il ritornello sugli architetti "ingiustamente trascurati" dalla storiografia è sin troppo abusato e non di rado è stato applicato a sproposito. Il caso più eclatante in assoluto è però quello di Erich Mendelsohn, maestro riconosciuto sin dalla metà degli anni Venti, escluso non soltanto dai progettisti invitati al Weissenhof di Stoccarda ma anche dai CIAM, dai grandi testi dell'ideologia modernista di Siegfried Giedion e Nikolaus Pevsner e infine anche da Henry Russel Hitchcock e Philip Johnson dalla mostra del MoMA sull'International Style. Soltanto Bruno Zevi nel dopoguerra si affannerà a mantenerne viva la memoria includendolo nel proprio Pantheon personale e curandone una monografia rimasta per troppi anni l'unico punto di riferimento per gli storici.

  [12apr2005]

Ritratto di Erich Mendelsohn nel Mediterraneo, anni Trenta.




 
La monografia recentemente uscita da Electa, pubblicata in Germania sei anni or sono, riflette la natura composita e scissa della straordinaria biografia di Mendelsohn: si tratta infatti di una raccolta di saggi di cinque ricercatori che da tempo studiano separatamente nei paesi in cui egli ha operato e vissuto, vale a dire Germania, Inghilterra, Palestina e Stati Uniti, tutti paesi nei quali Mendelsohn ottenne piena cittadinanza –la Palestina fino al 1948 è stata infatti una colonia britannica. Quinto di sei figli di un piccolo commerciante di Allenstein, qualche decina di chilometri a sud di Königsberg, il piccolo Erich amava soprattutto plasmare architetture di sabbia con le mani, una passione che andava di pari passo con quella per il mare e che lo segnerà indelebilmente. Il suo primo capolavoro, la Torre Einstein a Potsdam del 1920, alla quale cominciò a lavorare sotto le armi, disegnando di notte sul fronte francese della prima Guerra Mondiale, venne progettato come una rappresentazione della teoria della relatività dentro la quale Einstein avrebbe dovuto lavorare: la torre infatti sembra ondeggiare nel paesaggio boschivo e la sua massa pare modellata dall'energia che la anima, ma a ben vedere, la plasticità delle sue forme –una costante nell'opera di Mendelsohn- sembra propria della sabbia più che del calcestruzzo. L'opera conobbe una notorietà internazionale rendendone l'autore celebre: negli anni Venti il suo studio sarà il più grande e attivo di tutta Berlino e la sua committenza quasi esclusivamente ebraica.

   
 
Torre Einstein, Potsdam, 1920-24.


Magazzino Petersdorff, Breslavia, 1928.

Dai grandi magazzini Shocken di Stoccarda e Chemnitz a quelli Petersdorf di Breslavia del 1928, di Duisburg, Norimberga, fino ai grandi progetti metropolitani per Berlino, Mendelsohn esalta la propria elasticità, codificando forme di sicuro effetto per la rinnovata città del consumo weimariana. I suoi snodi plastici di vetro e cemento svecchiarono nel giro di pochi anni l'immagine plumbea della metropoli. Nonostante fosse un uomo del nord, Mendelsohn, come Le Corbusier, fu personalità affatto solare e non perse occasione di viaggiare via nave lungo il Mediterraneo o in America: nel 1924, dal parapetto del piroscafo Deutchland osservò l'avvicinarsi minaccioso di New York insieme a un casuale compagno di viaggio viennese, Fritz Lang. Entrambi rimasero soggiogati dalla visione del Woolworth Building che svetta sopra le brume che avvolgevano Manhattan, che entrambi battezzarono Babilonia: Lang in Metropolis (1927), Mendelsohn in un libro fortunato, Amerika. Bilderbuch eines Architekten (1), due reazioni estremamente critiche verso il nascente filo-americanismo europeo. Una grave pecca del libro sta proprio nella mancata trattazione del lavoro editoriale di Mendelsohn che pure è stato alla base della sua notorietà e influenza: sia il primo libro dedicato agli Usa sia quello stampato poi sull'onda del successo del primo e dedicato a un confronto fra Usa, Europa e Unione Sovietica (2) ruppero la tradizionale iconografia della letteratura architettonica proponendo un itinerario puramente soggettivo, ricco peraltro di impressioni contraddittorie (3).

In America Mendelsohn incontrò Frank Lloyd Wright, Lewis Mumford e Richard Neutra, che aveva lavorato nel suo studio berlinese, ma non riuscì ad ottenere incarichi professionali. In Unione Sovietica invece fu il primo architetto occidentale invitato ufficialmente pur non essendo comunista e grazie anche all'amicizia stretta con El Lissitzky poté costruire una fabbrica tessile "Bandiera Rossa" a Leningrado. Non sorprende che Mendelsohn nel suo secondo libro studi e paragoni Stati Uniti e Russia: in molti allora vedevano affini questi due paesi apparentemente antitetici, basti ricordare quanto disse Kandinsky: «L'America è un paese enorme e giovane che spesso mi ricorda la Russia: la stessa complessità, varietà, lo stesso amore per la vita, per la libertà, per la novità... in senso buono (4)». Anche nel secondo libro di Mendelsohn, Russland Europa America, l'Europa appariva vecchia e come schiacciata dai due giovani paesi-continenti in crescita vale a dire una visione profetica della futura divisione del mondo in due blocchi geopolitici, la Nato e il Patto di Varsavia: la cosiddetta Guerra fredda.


Villa Weizmann, Rehovot, 1934-36.

Una volta raggiunte ricchezza e fama, Mendelsohn costruì per sé una villa lussuosa non senza turbamento: sapeva che per un ebreo possedere una casa e un terreno erano aspirazioni proibite che risvegliavano «l'invidia degli dei». Venne infatti il 1933, l'interdizione dall'ordine degli architetti tedeschi –somma amarezza per chi, figlio di un decorato da varie croci prussiane, aveva caro il concetto di Heimat come solo un reduce avrebbe potuto-, l'esilio a Londra e il sodalizio con Serge Chermayeff, il ripiegamento sulla propria identità ebraica, il tentativo fallito di vivere in Palestina dove firmò gli ultimi capolavori, affatto diversi dalla sua produzione precedente. Il saggio di Ita Heinze-Greenberg sulle opere in Palestina è tra i migliori perché fa riemergere un capitolo fondamentale ma ancora misconosciuto dell'opera di Mendelsohn: mentre a Tel Aviv gli architetti scimmiottavano il suo espressionismo limitandosi ad arrotondare angoli e balconi, Mendelsohn costruiva in pietra e ad angoli retti cercando una sintesi tra l'anima occidentale e quella orientale dell'ebraismo. Ad esempio nella clinica Hadassah a Gerusalemme l'architetto di Allenstein inserì addirittura tre cupole bianche ma in modo del tutto antivernacolare, su un passaggio coperto. La sua ammirazione per Martin Buber lo avvicinò a Chaim Weizmann, apostolo di un'idea di convivenza pacifica con il mondo arabo; per lui costruì in pietra la villa che diverrà poi la residenza del Presidente della Repubblica di Israele. Nel 1941, come altri, ripiegò negli Stati Uniti, deluso per il diffondersi in Palestina di rozzi nazionalismi che rendevano inattuale il sogno buberiano di un commonwealth semitico in cui arabi ed ebrei convivessero pacificamente. L'ultimo saggio di Hans Morgenthaler presenta un'analisi soltanto abbozzata del lavoro negli Usa, con un apparato fotografico inadeguato. Dal 1941 Mendelsohn divenne l'architetto ufficiale della comunità ebraica americana, progettando quasi esclusivamente complessi religiosi con mano sempre meno felice.


Clinica universitaria Hadassah, Gerusalemme, 1936-39.

Morì nel 1953 a San Francisco quando ormai Allenstein era divenuta una città polacca, Olsztyn, assalito da uno spleen che dev'essere stato affine a quello di un'altra esule antinazista, Marlene Dietrich: tra le sue canzoni trasmesse alla radio c'era infatti allora anche uno struggente vecchio adagio tedesco tradotto in I may never go home anymore. A Mendelsohn non restò che chiedere all'amata moglie violoncellista Luise, lui che era nata lo stesso giorno di Bach, di spargere le proprie ceneri nel "mare dell'eterno errare": in fin dei conti la sua vera e unica patria.

Manuel Orazi

manuelorazi@virgilio.it
   
   
NOTE:

1. Erich Mendelsohn, Amerika. Bilderbuch eines Architekten, Berlin, Rudolf Mosse Buchverlag 1926.
2. Erich Mendelsohn, Russland Europa Amerika. Ein Architektonischer Querschnitt, Berlin, Rudolf Mosse Buchverlag 1929.
3. Il saggio migliore che analizza il lavoro editoriale di Mendelsohn è quello di Jean-Louis Cohen, The Moderns discover America: Mendelsohn, Neutra, Mjakovsky, in Id., Scenes of the World to Come: European Architecture and the American Challenge 1893-1960, Paris, Flammarion 1996, p. 85 e sgg.
4. Wassily Kandinsky, Intervista concessa a Nierendorf (1937), in Id., Tutti gli scritti, a cura di Philippe Sers, vol. 2, Milano, Feltrinelli 1974, p. 201.
   
       

Questa pagina è stata curata da Matteo Agnoletto.






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