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Books Review

    Junkspace

   
   

Rem Koolhaas
"Junkspace"
(a cura di) Gabriele Mastrigli
Quodlibet, Macerata 2006
pp. 123, € 13,50

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"Il Junkspace è come essere condannati a un bagno perpetuo in una Jacuzzi con milioni dei tuoi migliori amici..."
Rem Koolhaas




   
   

L'IMPERO COLPISCE ANCORA. Esce in questi giorni per Quodlibet Junkspace di Rem Koolhaas, un volume che accorpa per la prima volta in un libro i tre saggi Bigness, Generic City e Junkspace. I tre saggi, così riuniti, hanno la pretesa di formare un nuovo capitolo teorico nel percorso koolhaasiano di analisi della realtà e, rispetto a quelli originali usciti in ordine sparso su riviste, vengono rivisti appositamente per questa edizione in prima mondiale. Si inizia con i dei testi presenti già in S,M,L,XL quali Bigness ovvero il problema della Grande Dimensione e la Città Generica, e termina con Junkspace -qui ritradotto dal puntuale Filippo De Pieri, già curatore del fortunato volume di Gilles Clément sul Terzo paesaggio– che è stato modificato e ampliato da Koolhaas rispetto alle versioni del numero monografico OMA@work della rivista "A-U" (maggio 2000) a quella apparsa su "Domus" (numero 883, gennaio 2001).

Quello che va subito detto è che l'operazione che fa Quodlibet è molto distante dai diversi tentativi di raccogliere dei "bignami" del Koolhaas pensiero a pronto uso degli studenti, dei giovani architetti e di quelle categorie presso cui i lavori di OMA godono di grande successo. Infatti il libro si ripropone un compito ben più ambizioso e complesso, ovvero quello di costruire un volume che non si rivolga necessariamente agli architetti e affida a Gabriele Mastrigli, curatore e autore di una postfazione di spessore, la sfida di proporre un testo che a partire dall'architettura e dallo studio della città sia in grado di parlare anche alle altre discipline. Una pratica che pare oramai abbandonata dagli studiosi di architettura e che l'editoria trascura quasi completamente salvo rare eccezioni come proprio la Quodlibet che per questo citiamo con grande piacere. Questo Junkspace è un libro di cultura del presente in senso ampio, tratta temi che sfondano le barriere e inquietano il nostro tempo e le sue opportunità di gestione. Junkspace è un libro sulla contemporaneità tout-court e su come essa appaia radicalmente già mutata e, per molti versi, completamente compromessa rispetto a ogni ipotesi di riscatto.



Mastrigli ha perfettamente ragione quando annota che in questo volume va colto soprattutto il Koolhaas scrittore: "nella lunga parabola architettonico-letteraria che da Delirious New York porta sino a Junkspace –e che ha il proprio vertice in Bigness– Koolhaas finisce per incarnare un progetto didascalico ma deliberatamente senza futuro, per il quale non a caso abbandona il ruolo rassicurante dell'archistar, assumendo l'atteggiamento lucido, aggressivo, scettico, a tratti pessimista, dello scrittore". Potrebbe risultare interessante disquisire se lo scrittore Koolhaas sia profondamente diverso dall'architetto Koolhaas, sempre pronto all'eterna caccia dell'onda più alta da surfare, o se si tratti di un processo di progressivo abbandono della voglia di rilanciare perennemente a favore piuttosto di uno spostamento di piano che permetta della lucidità analitica che la pratica professionale non concede più nel suo convulso ritmo (ritmo che Koolhaas stesso ha contribuito massicciamente ad accelerare).

L'architettura per quanto sia una disciplina che permette analisi della realtà anche molto acuminate e ci ha regalato altissime pagine di critica nel suo farsi, probabilmente, per la sua stessa natura di pratica del fare fatica ad essere il territorio per esprimere i concetti che abbondano tra queste pagine. "Il cambiamento è stato staccato dall'idea di miglioramento. Il progresso non c'è più; la cultura barcolla di lato senza sosta, come un granchio fatto di Lsd...": non è una frase da cui è facile tornare indietro, come non è uno stato di pensiero da cui sia semplice rialzarsi e sedersi al tavolo da disegno per edificare una casa, uno spazio per vivere, una città. Koolhaas è sempre stato autore "difficile" e del difficile ha sempre cercato la complessità non per atteggiamento o per piacere intellettuale di complicare le cose (a tal riguardo sono paradigmatiche certe affermazioni di fuoco contro Tafuri e un certo modo italiano-veneziano di approcciare l'azione critica), ma per una logica presa di coscienza su un mondo troppo confuso e stratificato perché qualsiasi visione ideologizzata riuscisse a operare e intercettare la realtà postmoderna.

A parere di chi scrive, Koolhaas, oltre agli indiscutibili meriti progettuali e al contributo disciplinare è destinato a rimanere nelle future storie dell'architettura come massimo artefice dello scarto tra gli ultimi epigoni della modernità (Rossi, Stirling, lo stesso Tafuri se vogliamo appuntare dei nomi a margine) e come chi si è trovato dopo che il "viaggio al termine della notte" era già concluso mentre sorgeva un'alba deflagrata e allucinata di visioni chimiche, condite con stanchezze profonde dei baccanali del moderno, impastati con un nuovo vigore che ogni alba porta con sé. Delirious New York è stato certamente uno strumento di battaglia di straordinaria portata intellettuale per immettersi nel mercato da protagonista con un attacco anche feroce agli ultimi tentativi di utilizzare brandelli di modernità per agire (e qui davvero poco importa che siano sotto attacco le banalità del liberti tutti dell'iconografia postmodernista o le raffinate elaborazione dei whites newyorchesi), ma è soprattutto un libro che si può scrivere solo come un romanzo retroattivo, in qualche modo già postumo, da alba atomica.

  [11dec2006]




 

Dovendo cercare a tutti i costi un'immagine mi viene in mente Perfect, un film di scarsissima qualità che cerca di sfruttare il momento d'oro di John Travolta (del resto nell'era postmoderna vale tutto e l'uso sapiente delle icone è alla base del meccanismo) in cui i protagonisti, dopo alterne vicende, si trovano ad uscire da una discoteca nei primissimi anni Ottanta in un'alba newyorchese piena di immondizie in cui l'unico desiderio pare andare a mangiare un hotdog per colazione e ricominciare a partire dallo sfacelo del presente. Nella nostra epoca che albeggiava in quegli anni, i protagonisti sono "quelli che fanno colazione anche con un toast del resto" per citare una canzone italiana del tempo: non c'è qualità possibile, non c'è nostalgia di tempi aurei, non c'è più niente a cui appellarsi e nessuno come Koolhaas è riuscito a mostrare come questo terreno senza appigli possa essere edificabile e praticabile sia nella sfera della costruzione architettonica che di quella teorica.

Proprio perché Junkspace è un libro sul presente ed è un libro di teoria dobbiamo chiederci cosa è successo da allora. Ci dice l'attento Mastrigli: "Puntando lo sguardo sui codici espressivi della società senza opporre ad essa alcuna resistenza ideologica ma anzi interpretandone sempre più provocatoriamente le ansie e le ambizioni, Koolhaas è in fondo coerente all'esortazione corbusiana Architettura o Rivoluzione. Per entrambi l'architetto, lungi dal cambiare il mondo, deve piuttosto contribuire ad inverarne la dimensione più radicale e progressiva. Allo stesso tempo però la forza liberatoria delle parole non nasconde il problema che si presenta a Koolhaas alla conclusione del percorso: se il Junkspace è tutto ciò che è contemporaneo, esso non può che apparire come espressione statica e dunque terminale dell'aspirazione al nuovo, come forma estetica del progresso che finisce per ridurre quest'ultimo allo spettro cupamente iconico di una macchina celibe, prodigiosa quanto inutile". E a ben vedere è proprio qui che si nasconde uno dei motivi per cui la teoria viene marginalizzata dal dibattito a favore della mera narrazione sbalorditiva delle meraviglie del presente o dello scetticismo più reazionario.

Koolhaas si agita e ha ancora lo straordinario merito di agitarci, ma per la prima volta in questo libro il suo raccontare dissertando mostra anche le corde del limite del ring in cui il nostro combatte da anni. Ancora dotato di strumenti per colpire duro e di una tecnica sopraffina che lo fa stare comunque in piedi, Koolhaas oggi sembra essere consapevole di non avere più l'esuberanza per cercare sempre il KO, quindi si riduce a predirlo, a spostarlo sul piano della narrazione. Le analisi, proprio perché massimamente e lucidamente ciniche, risultano godibilissime sul piano del racconto, ma quanto Delirious New York conteneva in nuce il volume S,M,L,XL e l'assalto alla realtà, Junkspace, ora resosi giustamente anche libro, non ha la forza di far intravedere il prossimo paradenti che vola sotto i colpi dell'olandese. A tratti sembra di stare dentro Guerre Stellari di Lucas i cui effetti speciali, straordinari al tempo, sono oggi divenuti occasione per sfilate vintage, sino a stravolgere il senso stesso della visione della Summa galattica (ovviamente ci riferiamo al saggio di Banham su Star Wars), tutto appare potentissimo ma stemperato perché fondamentalmente impossibilitato a trovare una sponda sul piano della progettualità che viene data per affondata nello strabordare dell'Impero. Tutto quello che sembra ancora poter avvenire è l'apoteosi di un nuovo impero, mostro senza testa né tempo che pone in atto una nuova forma di sovranità ineluttabile che per alcuni versi trova analogie nel celebratissimo volume di Michael Hardt e Toni Negri, Empire (di Impero, sembrano particolarmente attinenti soprattutto i capitoli IV e VI della terza parte dedicata ai passaggi di produzione).

L'intelligente montaggio di questo volume crea un film godibilissimo e di alta qualità, perché Koolhaas a differenza di molti suoi epigoni e allievi, ha ancora ben chiaro come si realizza del grande cinema, ma ci lascia la sensazione che lo stesso Junkspace nominato ed evocato dall'autore, sia effettivamente anche per lui un blob talmente totalizzante da far disperare che esistano forme alternative possibili. Citiamo ancora lo stesso Koolhaas: "Il Junkspace prospera nel progetto, ma il progetto muore nel Junkspace. Non c'è forma, solo proliferazione... Il rigurgito è la nuova creatività; invece della creazione, onoriamo, apprezziamo e abbracciamo la manipolazione". Da questa lettura, che non può che essere reputata fondamentale per chi si interessa di progettazione del presente in ogni campo, pare che non ci sia nessuna speranza per uscire dalla pura manipolazione delle forme della società dello spettacolo e di poter ritrovare degli elementi di progetto che ci diano un luogo dello stare possibile per il futuro ipermetropolitano dell'era dello "spazio immondizia" come poteva essere il voler-dover prenotare una camera all'Hotel Sphinx dopo aver letto Delirious New York.

Giovanni Damiani
gdamiani@architecture.it
   
       

Questa pagina è stata curata da Matteo Agnoletto.






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