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È ormai
qualche tempo che scambiando opinioni con altri architetti della
mia generazione emerge diffusa la sensazione di trovarsi di fronte
a una situazione di stallo, come se nessuno, celebri star o esordienti
rampanti, fosse più in grado di produrre qualcosa di veramente
significativo. Può darsi che si tratti del disincanto
fisiologico di chi, avvicinandosi alla mezza età, non
riesce a provare le emozioni delle prime scoperte, ma è anche
vero che mostre, libri, riviste e sopralluoghi ci restituiscono
un mainstream internazionale tanto ansioso di darsi una
immagine sperimentale e trasgressiva quanto, in definitiva, incapace
di deviazioni sulfuree o, semplicemente, di una reale capacità di
tagliare angoli e meandri delle pratiche consolidate e produrre
visioni innovative.
Alcuni tra i più giovani sembrano voler reagire a questa situazione riproponendo
l'ennesimo ritorno a ipotesi autonomiste, ai fondamentali dell'architettura.
Un tentativo quantomeno prematuro, vanificato nelle sue intenzioni rivoluzionarie
dalla similitudine con i colpi di coda delle retroguardie, e, di fatto, così abusato
da confermare la percezione di una disciplina avvitata in una sterile coazione
a ripetere. Con maggiore freschezza, altri provano viceversa a sondare mondi
paralleli, anche marginali, nei quali cercare una possibile rigenerazione del
nostro sguardo, se non delle nostre attitudini progettuali. Un obiettivo che
la 22 publishing, nuova casa editrice milanese, intende perseguire fin dalla
sua prima proposta. Il titolo del bel libro di Alessandro Rocca, Architettura
naturale, assume a questo proposito un significato programmatico, che va
al di là della referenzialità diretta con i materiali in esso presentati.
La raccolta di una serie di opere e installazioni a cavallo tra arte, architettura
e paesaggio, in diverso modo connesse a una manipolazione leggera di "oggetti
trovati" nella e della natura, fa qui da sfondo alla ricerca di una maggiore "naturalezza" del
gesto progettuale, della sua necessità. Nell'ampia sequenza di immagini
e di brevi commenti relativi a lavori anche molto recenti spicca infatti il capitolo
dedicato alla mostra di Bernard Rudofsky sull'Architettura senza architetti,
tenutasi al MoMA nel 1964 e dedicata a illustrare esempi di edilizia prodotta
direttamente dai suoi utilizzatori, soprattutto presso culture strettamente legate
ai propri territori. La connessione diretta tra modi di vita, risorse disponibili
e prestazioni funzionali che contraddistingue quelle realizzazioni assume per
gli architetti -sostiene l'autore- il medesimo ruolo che hanno avuto silos, piroscafi,
aeroplani e automobili per Le Corbusier, o -potremmo aggiungere- della strip di
Las Vegas per Venturi: un invito, cioè, a spogliarsi delle sovrastrutture
discipinari e guardare la realtà con attenzione ai processi che la producono.
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[25feb2007] |
Armin Schubert, Organismo Lustenau, 2005. Assemblaggio di tronchi e rami
di pero, altezza 1.35, lunghezza 4.5 metri.
Armin Schubert, Convesso: concavo, Legname legato, Lustenau, 2003. |
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Armin
Schubert, Convesso: concavo, Legname legato, Lustenau, 2003.
Al
contrario delle strutture indagate da Rudofsky, gli interventi raccontati
da Alessandro Rocca sono tutto fuorché spontanei. Il loro
interesse sta nel complesso intreccio di questioni e strumenti che
sovrintende alla loro palese semplicità, nel trasferimento
di modalità di approccio tra mondi differenti e nella loro
sovrapposizione. La sensibilità climatica dell'Ice Pavilion di
Olafur Eliasson si alterna alla differenziazione dei microclimi sperimentata
da N Architects nella loro installazione al PS1 a New York. Le macchine
per guardare di Ex.Studio o di Chris Drury (le cui Cloud
Chamber utilizzano il principio della camera oscura) attivano
specifiche condizioni paesaggistiche che danno luogo a sottolineature
simboliche nei Cannocchiali estimativi di Giuliano Mauri,
collocati a cavallo del Neisse tra Germania e Polonia. Analoghi effetti
ottici sono rintracciabili nelle installazioni di Mikel Hansen o
nella Waterhouse di Nils Udo. Ancora Giuliano Mauri usa materiale
vivente nella sua Cattedrale vegetale, e come lui Marcel
Kalberer nelle Sanfte Strukturen e David Nash nell'Ash
Dome. Gli stessi autori e gli altri presenti nel volume impiegano
largamente materiali il più delle volte reperiti in sito -acqua,
pietre, ciottoli, paglia, rami, tronchi di alberi caduti- e tecniche
tutt'altro che sofisticate, basate sull'autocostruzione e spesso
sulla partecipazione di vasti gruppi di volontari.
Edward
NG, Ponte per l'attraversamento del fiume presso Maosi, nord-ovest
della Cina.
Edward NG, Ponte per l'attraversamento del fiume presso Maosi, nord-ovest della
Cina.
Caratteristiche
materiali e costruttive che istituiscono un rapporto sensibile,
interattivo con luoghi e tempi, disponibile ad accogliere eventi
ed incidenti in forme transitorie e temporanee. Un approccio
che il mondo dell'arte definisce con la formula site specific,
fatto dell'interpretazione delle potenzialità locali,
dell'incontro tra quello che si trova sul posto e uno sguardo
altro.
N
Architects, Canopy, P.S. 1 Contemporary Art Center, Queens,
New York, 2004.
Mikael
Hansen, Il muro, installazione per cittadini Arte Sella,
Borgo Valsugana, Italia, 1994.
Leggendo il libro e ragionando sulle sfide progettuali lanciate dall'insieme
dei suoi contenuti, mi è venuta in mente la famosa incisione di Claude-Nicolas
Ledoux con la casa delle guardie campestri nel castello di Maupertuis. La sfera
edificata che campeggia al centro dell'immagine è posta all'interno
di uno scavo, operazione che ne sottolinea la prepotente autonomia. Quasi invisibile,
sul lato sinistro dell'inquadratura, sorge una specie di "capanna primitiva" fatta
di rami e di frasche, probabilmente costruita dal pastore che è lì davanti
con il suo gregge. Da una parte un programmatico distacco dalla natura o, in
altri termini, la raffigurazione della volontà di dominarla, dall'altra
una più amichevole forma di adattamento alle occasioni contingenti.
Sebbene la similitudine morfologica e materiale con il secondo approccio risulti
subito evidente, le "architetture naturali" di Rocca condividono con la sfera
di Ledoux più di un aspetto: esprimono specifiche e sofisticate intenzioni
progettuali, descrivono e rappresentano modi contemporanei di interpretare
la trasformazione ambientale, evitano di legarsi a particolari necessità funzionali,
attivano contrasti quasi surrealisti con i territori nei quali vengono realizzate.
Architetture a bassa tecnologia ma ad alto contenuto concettuale, le cui paradossali
strategie insediative indagano l'ambiguo e indefinibile confine tra artificio
e natura, parlandoci così con particolare efficacia della natura dell'artificio.
Giovanni
Corbellini
giovannicorbellini@libero.it
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