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Città pre-moderna e crescita urbana: un nodo intricato

Francesco Ventura





Mario Guido Cusmano
Le parole della città. Viaggio nel lessico urbano
Franco Angeli, 2009
160 pp., € 18,50

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  1. Il tema su cui s'intende avanzare uno spunto di riflessione è antico quanto la stessa urbanistica, per molti versi generativo della moderna disciplina, ed è riproposto, con vivaci tratti di pregnante attualità, da uno libro ricco di suggestioni, Le parole della città. Viaggio nel lessico urbano (Franco Angeli, Milano 2009), composto dalla brillante penna di Mario Guido Cusmano.

L'immagine di copertina, disegnata da Càbjan, dice subito, con efficacia e immediatezza da nessuna parola eguagliabile, che il lettore si sta accingendo a esplorare "(La) città" (questa è l'emblematica grafia adottata dall'autore per il titolo del primo capitolo) nel pensiero di un architetto-urbanista che in decenni d'intenso insegnamento ne ha percorso e approfondito con passione e sagace immaginazione lo spazio lessicale. Vi è rappresentata la città densa e complessa della tradizione, costellata com'è da cupole, torri e cuspidi emergenti dalle chiome di un volto vagamente classicheggiante, con occhi e carnose labbra femminili, dall'espressione soave, lievemente sorniona e insieme severamente imperturbabile, sorretto da robuste mani che coadiuvano collo e spalle nel sostenere quell'immane patrimonio che, seppur tutto contenuto in una compiuta acconciatura, ha la generosa ampiezza di un copricapo d'altri tempi. Testa e città, in questa figura allegorica, sono la medesima cosa, si fondono in un unico grande corpo. Ma un corpo di cui "(La) Città" è l'anima (psyché) o meglio la sua forza d'animo. Gli occhi di quel volto si rivolgono all'osservatore obbligandolo quasi magneticamente a orientare lo sguardo su "(La) Città", a fargli sentire quella sua presenza ineludibile, capace di resistere e sovrastare il tumultuoso e disarmonico trascorrere del nostro tempo.

Ognuno dei trentacinque snelli capitoli di raffinatissima prosa conduce il lettore nell'avventura intellettuale del pensiero urbanistico che nel secolo appena trascorso ha pensato e parlato in vario modo di città. Ciascun capitolo è un luogo della mente e della lingua, connotato da una o più parole esprimenti concetti chiave e costituenti una porta d'ingresso nello spazio lessicale della città degli urbanisti. Appositi segni grafici segnalano i legami di ogni luogo ad altri, rendendo possibile la costruzione di una mappa degli intrecci concettuali: la trama dei luoghi della città pensata e narrata. Non si tratta di un semplice glossario, né di una rassegna delle idee fiorite (e via via appassite) sulla città nella cultura urbanistica della modernità e in quella che le è succeduta. Questo spazio concettuale è lo scenario in cui l'autore assume volta a volta posizione dando forma al culto della città, la cui immagine va emergendo come in un ologramma. La prosa elegante rende la lettura particolarmente piacevole. Impossibile sfuggire al godimento estetico. E insieme il testo è scorrevole, perché non appesantito dalle note e dai riferimenti puntuali a tempi, luoghi e nomi di autori, come per lo più è d'uso nei saggi canonici. Il debito è risolto nella ragionata bibliografia essenziale che chiude l'agile volume.

Lo spazio culturale dell'urbanistica è come affrescato con rapide pennellate di significative evocazioni e allusioni a quelli che vengono interpretati come tratti essenziali del pensiero sulla città e del modo di parlarne. Ma non è imperniato su una dialettica diretta e serrata tra il pensiero dell'autore e le diverse posizioni. Ciò che spicca, che balza prepotente in primo piano è una vera e propria apologia de "(La) Città", quasi a risolvere in sé ogni argomento. È un testo, come altri di Cusmano (quali, a esempio, Oggi parliamo di città. Spazio e dimensioni del progetto urbanistico, Franco Angeli, Milano 2002), in cui con l'elegante musicalità della sua prosa egli canta "(La) Città", ne declama le doti, le virtù capaci di "lunga durata" e "resistenza". Lo scopo è testimoniarne l'evidenza. Un'evidenza che, tratteggiata con le parole, acquista tuttavia la corposità di un progetto disegnato. L'evidenza è tale perché non ha bisogno di argomenti, di dimostrazioni che la sostengano, non va ricondotta a qualche principio che sta altrove, è là in se stessa, in ciò che "(La) Città" è in quanto tale, sotto lo sguardo di chiunque voglia e sappia coglierla. L'evidenza è tale perché "(La) Città" s'impone sulle negazioni che la minacciano, che tentano di aggredirla, che sembrano volerne decretare l'imminente scomparsa in un assedio alle sue virtù mai come nel nostro tempo così massiccio e insistente, eppure "agli occhi di chi sa vedere" -sembra dire Cusmano- alla fine impotente.

Ma sotto il canto e con il canto, che pur rifugge da definizioni dogmatiche, viene pensato e detto che cos'è "(La) Città" e di contro, cosa non lo è e non può esserlo, ossia cosa, nel nostro tempo, ne va negando -seppur invano ma non senza danni- l'evidenza. Questa Città, ossia "(La) Città" è quella "pre-moderna" (la parola, quasi sempre scritta col trattino a distinguere e insieme a evidenziare il prefisso, è tra le più ricorrenti). La città dunque della tradizione, quella consegnataci dall'opera di generazioni di uomini e popoli nel corso del basso medioevo europeo. Una città millenaria che incarna come non mai l'esser città della città.

Ma si sarebbe in errore se si pensasse che ciò implichi o sia un invito a volgere lo sguardo all'indietro, ossia a guardare o addirittura contemplare e chiudersi nel passato; il passato cioè perfetto, compiuto. Cusmano, al contrario, mette sotto gli occhi, invita con raffinato garbo a guardare il presente: la "Città esistente". Certo, di quel passato tutti sappiamo e vediamo la presenza cospicua delle vestigia, almeno dove non siano state improvvidamente cancellate. Ma non è delle vestigia di un passato ormai compiuto che l'autore canta le lodi e testimonia le virtù, quanto della "compiutezza" quale essenza presente e viva. È tale dote che fa permanere la "città nella storia", di cui anzi è il motore e insieme regola delle sue stesse capacità di trasformarsi senza perdere identità, costituita proprio da quell'essere-città, che la "crescita urbana moderna" invece non-è e non-può-essere se viene meno quell'antica e perdurante centralità, oggi detta- un po' impropriamente fa notare Cusmano -"Centro storico". È per questa sua "compiutezza" che nulla della sua essenza le si può togliere, aggiungere o mutare senza che ne vadano perdute le virtù più preziose, intime e quasi segrete: "compiutezza" (appunto), "complessità", "ruolo", "dimensione", "misura misurabile" "immagine", "forma", "traducibilità dello spazio", "bellezza", "urbanità", "identità", "luogo", "paesaggio", "rapporti fondativi"...

Questo libro, da un lato denuncia il misconoscimento de "(La) Città", il voltarle le spalle, in cui per certi versi è rimasto avvolto il modernismo e i suoi epigoni e dall'altro segnala il rischio di una riduzione delle vestigia antiche a pura memoria di un passato ormai compiuto in cui sembrano cadere vari atteggiamenti e pericolosi abbracci contemporanei. La "Città nella storia", invece, ossia quelle sue virtù essenziali sono ricche di cospicue radici preziose, capaci sempre di nutrire, di impartire "severe lezioni", e perciò sono vive hic et nunc, custodendo a un tempo nel proprio grembo una fonte inesauribile di "progettualità" carica di futuro. "(La) Città" che Cusmano affresca e racconta lumeggiandone alcune "parole chiave" è -in altri termini (non usati dall'autore)- il "diveniente", ossia ciò-che-permane nel perenne divenire urbano, di cui è "legge" e "fondamento"; quindi capace di "guidare" e "sostenere", senza soccombere, gli accadimenti: quegli "accidenti", propri dell'imprevedibilità in cui il divenire consiste, che "cadono sopra" l'aristotelico Ypokeiménon ("fondamento", ovvero "ciò che sta sotto sorreggendo").



2. Ma un libro che fosse solo capace di appagare -virtù innegabile di questo raffinato testo- una pur diffusa e varia molteplicità di lettori, avvinti tutti però dalle medesime o analoghe affinità elettive dell'autore, o ai quali la lettura gliele faccia rinvenire e riconoscere là dove erano sopite e non viste, rischierebbe di rimanere chiuso nel reciproco e rassicurante compiacersi di una cerchia, per quanto ampia, di cultori de "(La) Città". La forza di un testo, infatti, sta anche nel suscitare interrogativi, dai quali possano, se lo si vuole, prendere avvio discussioni e confutazioni e così sviluppi del pensiero e della conoscenza. Il libro di Cusmano ha indubbiamente anche questa valenza, se solo lo si riesca ad indagare e interpretare oltre l'abbagliante fascinazione della (sua) città "pre-moderna", senza che ciò implichi una qualche negazione culturale degli attributi e virtù che sostanziano tale fascino.

Il fascino emanato da "(La) Città", infatti, così come evocato dall'efficace poetica di Cusmano, ossia la sua apologia, la sua brillante difesa dalle odierne insidie, non può illuminare la forza, le ragioni, di ciò che si presenta come sua negazione. L'apologia, in quanto tale, non può volgersi a riconoscere e quindi misurare la potenza di ciò che si avanza come minaccia. Si può rischiare cioè di sottovalutare, senza avvedersene, l'entità e la natura della minaccia che si vorrebbe neutralizzare. Sicché quest'ultima compare, per contrapposizione, quasi solo come assenza: privazione di quelle virtù e di quegli attributi propri della "Città pre-moderna". L'insidia è costituita dalla pura e semplice "crescita urbana", che non ha -non può avere- in potenza le antiche e durevoli virtù, sedimentate e consolidate nel millennio trascorso, che vengono riconosciute alla "Città pre-moderna" così carica di progettualità e di futuro. La "crescita urbana moderna" non può avere, in questo senso, futuro. Ma allora dovremmo concludere per nostro conto che a insidiare "(La) Città" è una minaccia di fatto im-potente.

Questa è l'aporia (o l'interrogativo) che sembra affacciarsi. Perché mai dovremmo difendere "(La) Città", o perché avrebbe bisogno di esser difesa, se così potenti, solide e durevoli sono le sue virtù rispetto alle non-presenze di queste medesime virtù in ciò che ne è -proprio per queste assenze- la negazione? La "crescita urbana moderna" nega quelle antiche "virtù", misconoscendole, ma così negandole nega se stessa, ossia si nega come città. Costruisce sì qualcosa, che invade e tende a dilagare nel territorio, assediando la città antica, ma senza con questo edificare "(La) Città". È in questo senso "logico" che può intendersi la negazione: una negazione che è autonegazione. Una negazione che, consistendo nel disconoscimento della Città della tradizione (delle sue fondamentali virtù), è costretta a negare (a) se stesa (l'essere "(La) Città"). A contraddirsi allora è quel pensiero, o quel vasto coacervo di pensieri e discorsi che, continuando a usare la parola "città" (ormai accompagnata da vari lemmi che Cusmano puntualmente esamina) per nominare l'urbanizzazione moderna e contemporanea, volta le spalle alle antiche virtù (illuminate da Cusmano nella città "pre-moderna"), finendo così per negare l'essenza stessa della "Città" che, se pur in vesti radicalmente nuove, pretenderebbe ri-affermare battezzando impropriamente il dilagare urbano con quella nobile parola. Il perdurante uso del termine "città" semmai -dice più o meno Cusmano- ancorché sommerso da una moltitudine di specificazioni contemporanee, altro non è che uno dei molti indizi di quanto "(La) Città" sia necessaria, di come non se ne possa fare a meno.



3. Si è così inteso esplicitare ciò che nel libro resta un'argomentazione per lo più implicita, in quanto la confutazione di ampi settori del variegato pensiero urbanistico corrente vi è presente in forme indirette, morbidamente allusive e delicatamente sfumate. Ora, se la confutazione di quel dire della città che si smentisce da sé, poiché si contraddice, ha un'invincibile forza, non per questo può ritenersi "fondata" l'affermazione dell'essenza, e dunque della permanenza al di sotto del divenire, de "(La) Città". Si sta dicendo: "fondata" nel senso forte, originario, di ciò che non può essere smentito, negato, di ciò che permane senza esser travolto dal divenire. La consapevolezza che questa "città", di cui quella "pre-moderna" possiede le virtù, sia negabile, sembra affiorare, ma con qualche inevitabile grado di ambiguità, nel discorrere di Cusmano, come di altri pensieri affini. (Forse non si può pretendere di più, perché negli scritti di urbanistica non è d'uso porre simili temi; e tuttavia essi sono, appunto, "fondamentali", oggi come non mai). Ed è proprio l'incombente tramonto del "fondamento", ancorché non ne siano poste a tema l'estreme conseguenze, che giustifica il ricorso all'apologetica, ossia impone, a coloro che si prendono cura e intendono coltivarne le qualità, la concreta, fattiva difesa de "(La) Città", a cominciare dall'esaltazione di quelle che si ritengono sue virtù essenziali al centro di questo libro. Una difesa tuttavia che resta più debole della forza che il fascino de "(La) Città" sembra esercitare. Una debolezza che può non apparire tale se l'avversario -o nemico mortale- si facesse innanzi solo nelle vesti di quegli inconsistenti pensieri urbanistici che disconoscono ciò che per altri versi sembrano o dicono di voler ri-affermare, continuando a usare, in combinazione con vari lemmi, la parola "città" per il dilagare urbano del nostro tempo.

Il fatto che si possano interpretare certi tratti della "città pre-moderna" come virtù essenziali dell'esser "città" e che si possa insieme interpretare come potenza la loro capacità di permanere, durare e resistere a lungo, non testimonia che si sia in presenza di un qualche "fondamento". Il pensiero contemporaneo ha portato (fondatamente) al tramonto l'aristotelico Ypokeiménon, che sta sotto permanendo e sorreggendo gli accadimenti. Ciò non di meno, il rapporto stabilito dal pensiero greco tra "divenire" e "fondamento", tra "mutevole" e "immutabile", in forza del suo potente e plurimillenario dominio, struttura ancora -almeno formalmente- i diversi modi correnti di pensare e dire il mondo in cui viviamo (incluso quel grandioso, plurimillenario evento che usiamo chiamare "città"). "(La) Città", qualunque sia la sua essenza, le virtù che le si vogliano attribuire, è "nella storia", non in quanto "fondamento", ma, come tutte le altre cose, in quanto "accidente", ossia anch'essa è contingente e non-necessaria. Ogni modo di intendere la Città, così come qualunque sua forma di negazione, è opinione, espressione di preferenza, mito, fede, interpretazione, ipotesi, volontà progettante, dunque sempre smentibile, sempre esposta al fallimento. Ne consegue che, in linea di principio, non si dà un'opinione, una preferenza, un'interpretazione, un'ipotesi che possa prevalere sulle altre in forza delle sue pretese "virtù", ossia in forza di se stessa, della sua propria evidenza, o perché ad alcuni accada di smentirsi nel tentativo di negarla o di volerla oltrepassare. Evidente è il divenire e, nel pensiero del nostro tempo, solo il divenire, proprio perché è la più perentoria, irrevocabile negazione di ogni immutabile.

L'opera di Cusmano è tesa alla strutturazione di una progettualità basata sulle "virtù" che una raffinata interpretazione è in grado di mettere in luce nella città pre-moderna. Si esplica in un aver cura e in un coltivare quel prezioso patrimonio al fine di farne germogliare e fiorire il "progetto implicito" (che è qualcosa di diverso dalle molteplici e varie pulsioni conservatrici che si accalcano intorno alle vestigia delle vecchie città). Nel nostro tempo, dove il "fondamento" tramonta, tale scopo entra in competizione con una crescente moltitudine di differenti e opposte progettualità, determinate da scopi diversi ed eterogenei, tutte legittime ed equipollenti in linea di principio. L'evidenza del divenire, infatti, è l'autentica "base" di ogni progettualità. Il divenire è ciò senza di cui non sarebbe pensabile la libertà progettuale, e senza di cui, quindi, non si porrebbe nemmeno quella "immaginazione urbanistica", che Cusmano mutua dalla "immaginazione scientifica" di Wright Mills. (Quella "immaginazione" mortificata dal dogmatismo di cui ha sofferto il Movimento Moderno contribuendo al suo declino). E a un tempo, il divenire, nel mentre è la condizione in cui si dà la libertà più radicale al progettare, destina alla caducità ogni progettualità. Sicché il prevalere di una progettualità su altre in competizione non può che essere temporaneo, contingente e circoscritto a determinati luoghi e dimensioni dell'arte di edificare e abitare. Ciò apre (piaccia o no) a un paesaggio globale dell'urbanizzazione, possente e pervasivo, tale da farsi percepire come una giustapposizione di progetti diversi e contrastanti, il cui esito complessivo si fa innanzi come un affastellarsi, senza più confini territoriali, anche su e intorno alle antiche città, di continuamente nuove e impreviste funzioni, manufatti e sempre più arditi, tecnologici congegni edilizi e urbani; ossia il "paesaggio del nostro tempo", che nessuna individuale progettualità ha contemplato e voluto: esito imprevedibile (l'imprevedibilità è l'essenza del divenire) di azioni intenzionali.

[3 giugno 2010]
  D'altra parte, è da questa essenziale incompiutezza, da questa radicale imperfezione, che trae alimento e ragione qualsiasi progettare e la conseguente competizione tra progettualità. Una competizione che implica l'impegnarsi, per chi se ne voglia far carico, anche nell'indagare, riconoscere e misurare -come si accennava più sopra- la potenza delle progettualità avverse e insieme la relativa debolezza della propria. La potenza di ciascuna progettualità -sempre contingente e dunque non imbattibile- varia da caso a caso, da tempo a tempo, da luogo a luogo e richiede quindi specifiche valutazioni; ma in generale si può solo dire che essa è funzione del grado di coerenza all'evidenza del divenire del pensiero che la sostiene, ossia alla "verità", al "fondamento" del nostro tempo.

Francesco Ventura
francesco.ventura@unifi.it
 
       

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