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SCELTI
DA: GABRIELE MASTRIGLI
I MERCOLEDÌ DELL'ARCHITETTURA |
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Utopie
realizzabili Una conversazione con Pier Vittorio Aureli e Manuel Orazi Gabriele Mastrigli |
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Mercoledì dell'architettura ad Ascoli Piceno Incontri di architettura e cultura urbana 3 novembre 2004 ore 18.30 Libreria Rinascita - Palazzetto della Comunicazione Utopie realizzabili presentazione deli libro di Yona Friedman Quodlibet introduce: Gabriele Mastrigli intervengono: Pier Vittorio Aureli, Umberto Cao, Manuel Orazi, Cristiano Toraldo di Francia "Il signor X si sente terribilmente insoddisfatto" (Yona Friedman) |
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A ormai più di un anno dall'uscita della nuova traduzione italiana "aggiornata"
di Utopie realizzabili di Yona Friedman, il libro sembra essere
stato diligentemente digerito da quella che Friedman stesso chiama la
"mafia dei media" (stampa, televisione a cui oggi secondo Friedman si
aggiunge emblematicamente anche Internet). Del libro la maggior parte
dei recensori ha per lo più messo in evidenza la pars costruens:
l'ottimismo visionario del pensatore ungherese, profuso, per usare le
parole di Franco Purini di "intensa energia riformatrice, attraversata
di risonanze illuministe, che si muove verso la prefigurazione di nuove
libertà per i cittadini". È rimasto in secondo piano il presupposto
del libro stesso: il j'accuse che Friedman ribadisce, a trenta
anni dalla prima edizione del libro, nei confronti delle odierne "società
immobilizzate", incapaci di "scegliere e reagire", con i loro "decision
maker che non hanno strumenti per decidere". L'atto d'accusa -la
"terribile insoddisfazione" senza la quale non si rende necessaria nessuna
utopia realizzabile- è rivolto verso il progresso tecnologico come surrogato
dell'azione politica in tutti i suoi molteplici aspetti, fenomeno già
apparso evidente a Friedman nei primi anni Settanta. Quel progresso
si ripresenta oggi come il più grande tabù della società contemporanea
cosiddetta globale, che, a destra come a sinistra, cavalca una post-neomodernità
in cui lo sviluppo delle tecnologie -in particolare quelle legate ai
mezzi di comunicazione di massa- è allo stesso tempo la condizione inevitabile
dei fenomeni, e la soluzione dei problemi ad essi connessi. Per questo prima che una voce di speranza per il futuro, Utopie realizzabili dovrebbe essere letto come una radicale critica per il presente ("più che rientrare nell'ambito della 'futurologia' -chiariva Friedman già nel '74- questo libro rientra in quello della 'presentologia'"); un presente che, più che complesso appare a Friedman semplicemente "complicato": in cui cioè l'arbitrarietà è la sua sola struttura; tale poiché impedisce di "estrapolare da uno stato dell'entità il suo stato futuro". Qiryat Yam, Haifa. Sobborgo per immigrati, 1950 ca. GABRIELE MASTRIGLI: Nel dicembre del 1972 la missione spaziale americana Apollo 17 compie l'ultimo dei sette atterraggi sul suolo lunare, inaugurati con la passeggiata di Neil Armstrong del 16 luglio 1969. In appena tre anni -e contemporaneamente alla 'fine dell'architettura moderna' identificata da Charles Jencks nella demolizione del quartiere Pruitt-Igoe a St. Louis nel Missouri- il sogno della conquista dello spazio naufraga, ufficialmente per mancanza di fondi, riportando violentemente l'orizzonte del progresso dell'umanità su quella che Friedman due anni dopo chiamerà "astronave Terra", usando un'espressione di Kenneth Boulding e poi di Buckminster Fuller. "È una formula che mi ha sempre impressionato -continua Friedman- perché esprime in modo chiaro un'idea, peraltro forse del tutto occidentale e puritana: siamo abbandonati su una nave spaziale -che ha riserve limitate- e siamo i soli responsabili della nostra sopravvivenza." Dobbiamo leggere Utopie realizzabili come una presa d'atto della svolta post-moderna? MANUEL ORAZI: Direi di no, anche se il libro è stato scritto proprio nell'anno in cui secondo Fredric Jameson l'età postmoderna ha inizio - più precisamente Jameson ne individua il momento esatto con l'alzarsi dell'ultimo elicottero dall'ambasciata americana di Saigon. A meno di non considerare il libro di Yona Friedman come un argine di fronte alla montante ondata del Postmoderno, che trovò il primo terreno fertile proprio in architettura. La nuda logica argomentativa senza note né citazioni e il linguaggio piano di Friedman verrà purtroppo sommerso e dimenticato dall'orda dei Blanchot, dei Lacan, dei Derrida ("non esiste nulla al di fuori del linguaggio") e dei molti pappagalli che ne imiteranno lo stile in tutti gli ambiti disciplinari. Il grande storico austro-inglese Eric J. Hobsbawm ha scritto, secondo me in modo magistrale, che la prova del nove per chi ha qualcosa da dire è il processo: se siamo innocenti avremo l'urgenza di dimostrarlo quindi saremo attenti a essere chiari e precisi nella nostra arringa di difesa, viceversa se siamo colpevoli cominceremo col dire che i fatti non esistono, che esistono solo interpretazioni, che tutto è narrazione e così via, ma i fatti esistono e la realtà non la si può spazzare a lungo sotto il tappeto. Per farla breve, chi ha proposte concrete nate dall'urgenza materiale come nel caso di Friedman, che vorrei ricordare è stato un rifugiato e poi uno dei fondatori di quello Stato d'Israele che dovette fronteggiare un drammatico problema di alloggi per i nuovi immigrati, non ha molto interesse a citare Walter Benjamin. PIER VITTORIO AURELI: La particolarità del testo di Friedman risiede nel fatto che il modo in cui teorizza lo spazio abitabile è radicalmente diverso da ciò che generalizzando potremmo definire come il pensiero post-moderno sulla città e lo spazio abitato. La geografia postmoderna della città contemporanea ha inizio nei primi anni settanta a ridosso della crisi energetica, che suggella ciò che i geografi urbani definiscono come la Urban Restructuring della Città moderna. Se la città moderna è riconducibile alla banalizzazione di modelli chiaramente teorizzati ed espressi -la tecnica dello Zoning, la separazione dei flussi di traffico, la proposta di nuove tipologie edilizie, l'integrazione del paesaggio entro lo spazio costruito- la città post-moderna non è stata fondata da modelli o dichiarazioni di principio, ma è emersa quale lenta e diffusa ristrutturazione della stessa città industriale. Questo processo di ristrutturazione si è costituito in base a piccoli e differenziati movimenti sociali che situano la scaturigine del fenomeno urbano all'interno di un corpo sociale frantumato sempre meno intelligibile che ha liberato forze nuove, ma che ha offerto al potere politico ed economico la possibilità di eludere le proprie responsabilità di governo. Naturalmente all'interno di questo ordine cognitivo abbiamo abbandonato da tempo qualsiasi tentativo di rappresentare il territorio urbano come forma pensabile nella sua interezza e nei termini precisi di un progetto di città chiaramente fondato. Ossessionati dall'idea di pluralismo e dalle sue forme sempre più complesse di consenso, siamo rassegnati all'ingestione di tutte le irriducibili complessità e contraddizioni del mondo urbano dal quale non possiamo fare altro che derivare teorie e manifesti retroattivi, vale a dire concettualizzazioni a posteriori di ciò che esiste già. Il Manifesto Retroattivo -il dispositivo teorico postmoderno per eccellenza- non postula più modelli radicalmente alternativi alla realtà urbana esistente; al contrario esso costituisce la realtà stessa come plausibile verità alla quale semmai adeguare le proprie attrezzature mentali. Con Utopie Realizzabili Yona Friedman sembra radicalmente ribaltare questa situazione, proponendo ciò che oggi possiamo definire l'ultima teoria moderna della città. Infatti Friedman, seppure dal punto di vista dei contenuti sembra fa riferimento ad un luogo comune caro alla "scienza normale" del pensiero postmoderno, ovvero all'auto-organizzazione, alla partecipazione diretta e al rifiuto delle istituzioni pubbliche, nella forma egli costruisce la propria proposta come un vero e proprio progetto di ambiente abitabile, un progetto inesorabilmente definito, esplicito nel suo linguaggio privo di metafore accomodanti e risolto nei suoi aspetti organizzativi e amministrativi. Friedman, al contrario delle utopie proposte a partire dagli anni Sessanta, che spesso non sono altro che illustrazioni ricche di suggestioni, ma anche evasive e, alla fine, prive di un progetto vero e proprio, propone la propria visione del mondo urbano attraverso un dispositivo teorico fondato su una chiara e comprensibile idea di ciò che la città dovrebbe essere. Questo dispositivo corre deliberatamente il rischio di lasciarci sbigottiti, imbarazzati e forse anche infastiditi di fronte a tanta implacabile caparbietà definitoria e propositiva così radicalmente antitetica all'accattivante bricolage teorico postmoderno, attraverso il quale abbiamo fatalisticamente legittimato, se non celebrato, qualsiasi forma dello spazio abitato. GABRIELE MASTRIGLI: Utopie realizzabili è quasi sempre associato all'immagine della Ville Spatiale, un continuum tridimensionale e permeabile che ricorda più la New Babylon di Constant, di quanto non evochi quella "moltitudine di gruppi o di comunità chiuse (non comunicanti)" di cui Friedman parla nella conclusione del libro. Come si conciliano le due immagini e in quale altre esperienze rileggere il tema della "territorialità a superficie ridotta"? PIER VITTORIO AURELI: Sono d'accordo nel rilevare la discrepanza tra il Friedman architetto "visionario" della Ville Spatiale e il Friedman teorico di Utopie Realizzabili. Nel primo caso siamo nel pieno del narcisismo delle buone intenzioni che pervade gran parte della così detta avanguardia utopica, megastrutturalista e visionaria degli anni Sessanta e che ha nella New Babylon di Constant ma anche nelle visioni degli Archigram e Cedric Price le sue rappresentazioni più emblematiche. Nel secondo caso abbiamo a che fare con la formulazione di una visione che rifiuta la scorciatoia dell'illustrazione e della metafora facile e che, invece, tenta di tenere assieme principio teorico e necessità, addirittura elevando quest'ultima a principio assoluto e identificandola con il limite fisiologico dell'individuo nel rapportarsi alle cose e agli altri, costruendo così una ecologia sociale nel senso originale del termine. Per questo motivo Friedman abbandona le suggestioni facili di ambienti continui e si concentra nella definizione di un dispositivo che fissa nell'idea di limite e di dimensione la propria logica costitutiva. Probabilmente in questa idea emergono le esperienze di Friedman quale architetto e carpentiere in Israele durante la costruzione dei primi insediamenti (l'economia relazionale del Gruppo Critico potrebbe essere ricondotta ai principi insediativi del Kibbutz) e la diffusione negli Stati Uniti e in Europa, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, delle comuni nelle quali piccoli gruppi individui "autogestivano" la propria esistenza ispirandosi liberamente alle idee di Fourier o ai precetti delle comunità Shaker. In quegli anni vi era un grande interesse, da parte di architetti, artisti e urbanisti, nei confronti dell'idea di comunità quale spazio definito in cui colmare immediatamente la distanza tra desiderio e soddisfazione senza percorrere i tempi lunghi della riforma generalizzata a tutto il territorio urbano. Un caso poco conosciuto, nel quale l'idea di comunità si sviluppa attraverso un compiuto programma urbano, sono le ricerche che Oswald Mathias Ungers e sua moglie svolsero sulle comunità americane tra il XIX e il XX secolo quando Ungers era Preside a Cornell e che furono pubblicate nel 1972 nel libro Kommunen in der Neuen Welt. Ungers intendeva l'idea di comunità come un arcipelago di micro-città capaci di urbanizzare istantaneamente il nuovo mondo senza neanche uno sfondo urbano vero e proprio. Questa idea era stata ispirata dai concerti di Woodstock e Altmont nel corso dei quali luoghi rurali ed isolati venivano istantaneamente urbanizzati da gruppi di persone che si riconoscevano in ideali definiti e socialmente selettivi, riproponendo così le realtà delle comuni politico-religiose del secolo precedente come quelle degli Shaker e dei Rappisti. Ungers aveva in mente anche la situazione particolare di Berlino Ovest degli anni Sessanta, cioè una Shrinking City completamente isolata dal resto del territorio e composta da sobborghi fortemente autonomi l'uno dall'altro e abitata da persone completamente affrancate da un uso allargato del territorio. Nel corso degli anni Settanta questa intuizione fu sviluppata in termini positivi fino ad arrivare alle "12 Tesi sulla città" nelle quali Ungers, Koolhaas e Kollhof teorizzarono Berlino come Arcipelago Verde: una federazione di comunità urbane limitate e fortemente caratterizzate socialmente e formalmente, immerse in una foresta che doveva assorbire tutto ciò che era transitorio e generico. Questa idea di città ebbe una influenza decisiva su due concezioni urbane che, a mio avviso, rappresentano gli ultimi due grandi manifesti della città contemporanea, vale a dire Bigness di Koolhaas e la Ville dans le Ville di Leon Krier. Entrambe queste teorie propongono la discretizzazione della città in parti fortemente concentrate contro l'illusione che la città possa essere concepita come un continuum senza soluzioni di continuità. Sia Koolhaas che Krier, la cui formazione era stata profondamente segnata dal lavoro di ricerca di Ungers sulla città e dal sarcasmo polemico di Superstudio, criticavano ferocemente l'Urbanisme Spatiale di Friedman e gran parte delle utopie urbane degli anni Sessanta come concezioni astratte prive di appigli alla realtà nelle quali la critica alle condizioni della città esistente diventava una scusa per esibizionismi iconografici. In Utopie Realizzabili, Friedman abbandona del tutto le mitologie del Villaggio Globale degli anni Sessanta, assumendo una posizione nettamente contraria all'entusiasmo più o meno ingenuo verso il paradigma della comunicazione che aveva caratterizzato molta cultura architettonica riformista nel secondo dopoguerra. Le idee che Friedman esprime nel suo piccolo trattato in parte richiamano la tradizione del Bottom-up Urbanism che proprio nei primi anni Settanta aveva avuto una discreta diffusione negli Stati Uniti e in Europa attraverso l'urbanistica partecipata, l'Advocacy Planning e i gruppi di pressione anti-istituzionali che si formavano a ridosso delle questioni ecologiche allora non ancora menzionate nelle agende politiche delle agenzie governative. Ma Friedman, al contrario di questa tradizione, che come sappiamo non è quasi mai riuscita ad andare oltre un tatticismo resistenziale e antagonista, sviluppa le sue "anti-utopiche" Utopie Realizzabili non soltanto come protesta o controproposta rispetto ai processi istituzionali di decisione pubblica, bensì come una teoria fondativa che formula una nitida ipotesi di governo. Sta esattamente qui lo scandalo assoluto di questo piccolo libro, nell'aver teorizzato in modo semplice e accessibile la proposta di un governo del territorio facendo ricorso al principio fisiologico della necessità, sbarazzandosi così di tutte le sofisticazioni post-umaniste che hanno tragicamente zavorrato l'aspirazione fondamentale e sacrosanta di ogni individuo a costruirsi un ambiente confortevole. MANUEL ORAZI: L'errore che hanno fatto tutti gli architetti e i critici, nessuno escluso -nemmeno Reyner Banham-, finora è sempre stato quello di associare le sue proposte teoriche con i disegni de L'Architecture mobile: in quei disegni, piuttosto elementari, Friedman tendeva a sottolineare l'aspetto tecnologico (i giunti o il sistema della tensostruttura copiati di sana pianta da quelli ideati da Konrad Wachsmann) solo per dimostrare che si trattava di strutture fattibili e non utopiche, ma non vanno interpretati letteralmente perché Friedman vuole che siano gli abitanti stessi a dargli una forma precisa, per un habitat umano con impatto minimo. La sua proposta restava teorica e invitava anzi gli altri a farla propria e infatti, nella sua prima formulazione, nasce come un manifesto scritto quando ancora viveva a Haifa, non a caso presentato ai CIAM (il decimo e penultimo, Dubrovnik 1956). Friedman si rese conto del fraintendimento a cui davano luogo le sue immagini e anche per questo smise di produrne: di fronte alla deriva formalista degli architetti e artisti che gli furono più vicini -il Groupe d'Études de l'Architecture Mobile (GEAM) formato da Paul Maymont, Frei Otto e molti altri come il gruppo giapponese dei Metabolism in cui militò anche il giovane Isozaki- che non rinunciarono a imprimere la propria orma formale sui progetti di città spaziale e mobile, Friedman decise di distaccarsi dall'architettura interessandosi alla sociologia, alla matematica, alla scienza della comunicazione per veicolare meglio le proprie idee e a interlocutori meno ottusi degli architetti che fino ad allora peraltro ne avevano completamente ignorato la portata politica e sociale. Se non si considera questo aspetto non si può comprendere compiutamente Utopie realizzabili. Quanto a Constant c'è da dire che non fece eccezione: era naturalmente affascinato dalla città come opera d'arte e alla teoria del gioco del sociologo olandese John Huizinga e, nonostante qualche affinità e una schietta amicizia personale, Friedman ha dichiarato su di lui: "Penso che la gente dovrebbe essere in grado di giocare se questo è ciò che vuole. È un'opera d'arte? Sì, la città può diventare un'opera d'arte. Se la gente lo vuole, perché no? Io provo a impormi solo al minimo". (1) GABRIELE MASTRIGLI: Il concetto di Gruppo Critico è senz'altro il risultato più rilevante di Utopie realizzabili. Friedman ne è consapevole e lo dichiara esplicitamente: la limitazione del numero di individui e "oggetti", oltre che di "collegamenti" tra essi, è garanzia del buon funzionamento di un'organizzazione dotata di una struttura definita. Tutto questo appare oggi, in tempi di connettività totale, poco più che un'eresia. Può oggi il Gruppo Critico essere ancora il punto di partenza per quella che Friedman chiamava una ecologia sociale? MANUEL ORAZI: È un'eresia solo apparente o meglio lo è nella misura in cui diamo credito all'idea generalizzata secondo la quale tutti sarebbero in contatto con tutti e quindi se lancio un messaggio tutti lo ascoltano, ma questo non è vero: pensa all'ultima pubblicità della Telecom in cui Ghandi parla alle masse di tutto il mondo assorte nell'ascolto del suo messaggio, quella sì che è un'utopia irrealizzabile perché gli ostacoli alla comunicazione sono insormontabili, non solo per ragioni tecniche o linguistiche ma perché più mediato è il messaggio e più diventa ambiguo, anche nel semplice caso di una traduzione, per questo deve essere il più mirato, semplice e diretto possibile - sempreché si abbia qualcosa da dire. Le due paginette del paragrafo "Una moltitudine di comunità non comunicanti" andrebbe fatto leggere al dinamico duo Toni Negri & Michael Hardt e già che ci siamo anche al simpatico Prestinenza Puglisi, che fra i nostri critici di architettura mi pare essere quello più ostaggio al culto di questo falso mito della comunicazione. PIER VITTORIO AURELI: Roland Barthes definiva "verosimile critico" ciò che non si esprime in dichiarazioni di principio e che si muove all'interno di una certa "estetica del pubblico", ponendosi al di là di qualsiasi metodo e compiacendosi della sua ostentata evidenza. È indubbio che il verosimile critico contro cui si scaglia Friedman è lo stesso che domina ancora la nostra cognizione della città, vale a dire concezioni della città quali comunicazione, flussi, network, uso allargato del territorio, nuove tecnologie quali indiscussi garanti di accessibilità sociale e la stessa globalizzazione. Il concetto di Gruppo Critico sarà importante negli anni futuri perché esso definisce un fatto fondamentale nella costruzione degli insediamenti umani: la dimensione, nel senso che ogni costruzione sociale necessità di un limite preciso sia fisiologico, che politico, e culturale. In fondo questo era un tema caro anche a Le Corbusier il quale, a sua volta, lo aveva ereditato da Fourier. L'idea di Falansterio e L'Unitè d'Habitation si fondano sul principio della grandezza conforme che non indica semplicemente un dato funzionale ma riflette la necessità di dare una riconoscibilità solenne alle forme di vita collettiva, configurando il loro limite dimensionale come consapevolezza piena del vivre ensemble. Friedman costruisce l'intelligibilità di questo limite ricorrendo al principio di necessità fisiologica che sorge qualora si debba regolare la convivenza tra individui ed in questo, come ho già avuto modo di scrivere, la teoria di Friedman ricorda una teoria che per certi versi potrebbe essere l'opposto di Utopie Realizzabili: Il Principe di Machiavelli. Il tema fondamentale che sembra accomunare questi due trattati è quello della partecipazione popolare alla costruzione di una comunità di individui che per Machiavelli è lo Stato, mentre per Friedman è il Gruppo Critico. Machiavelli e Friedman fondano la partecipazione sul principio di necessità. Il momento rappresentativo e pubblico di queste due costruzioni sociali è l'intelligibilità assoluta del progetto che si assume la terribile ma necessaria responsabilità di guidare le forme di partecipazione alla sua attuazione. In uno straordinario passo del Principe, Machiavelli afferma che egli vuole fondare la propria teoria "sulla verità effettuale della cosa piuttosto che sull'immaginazione di essa". Ciò vuol dire che la teoria non ricorre ad artifici retorici o illustrativi per convincere, ma si evolve attraverso un processo argomentativo che offre costantemente la possibilità di comprendere le condizioni reali del soggetto e, soprattutto, l'imprescindibile necessità del progetto per dare forma operabile a queste condizioni. Lo stesso carattere profondamente analitico emerge anche nelle Utopie Realizzabili. Il carattere assertivo, il procedere per dilemmi, l'aggressività logica, che in Machiavelli era venata da uno sconsolato pessimismo antropologico mentre in Friedman sembra essere animato da una fede quasi illuminista nel genere umano, è ciò che fa di questi due trattati politici e sociali due veri e propri progetti universali che però non si arenano tra le secche della teoria ma, attraverso il loro linguaggio austero e semplice, sono accessibili, pratici e potenzialmente congiunturali. Nel momento in cui imperversano discorsi pieni di metafore e di autocelebrazione e nessuno vuole più addossarsi l'onere di decidere qualcosa o parlare di cose importanti, Friedman ci propone, da lontano, un modo assoluto di dire le cose, di chiamarle con il loro nome addossandosi l'onere del progetto, questa tragica ma necessaria responsabilità. |
[03nov2004]
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NOTA: 1. Yona Friedman relates his beliefs and experiences, in Sabine Lebesque; Helene Fentener van Vlissingen, Yona Friedman. Structures Serving the Unpredictable, Rotterdam, NAi Publishers 1999, p. 118. Questa dichiarazione tra l'altro smentisce quanto invece scrisse Banham sul presunto debito del metodo di Friedman verso Huizinga (vedi Reyner Banham, Le tentazioni dell'architettura. Megastrutture, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. 65). |
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PLAYLIST |
Yona
Friedman "Utopie realizzabili" Quodlibet, 2003 Traduzione di Susanna Spero pp240, €14,00 leggi il commento di Pier Vittorio Aureli |
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pagina books review è curata da Matteo Agnoletto. per proporre o recensire pubblicazioni scrivete a agnoletto@architettura.it laboratorio
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