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Di fronte al nuovo Museo di Bilbao di Frank Gehry c'è un enorme barboncino fatto di
vasi di fiori costantemente annaffiati attraverso l'armatura di sostegno. E se a Roma, appoggiato al Monumento in Piazza Venezia, vi fosse
un grandissimo gatto, alto trenta metri e anch'esso di fiori e vegetazione? Ma perché proprio a Piazza Venezia, perché un gatto, perché
la verzura?
Cominciamo con la vegetazione. Come si sa la
conversazione e valorizzazione del verde sono al primo posto a Roma. Eccetto in pochissimi punti, tra cui il Villaggio Olimpico dove si
sta edificando -ormai da troppi anni- il nuovo auditorium, dal paesaggio della città sono sparite le gru. Un bene, per un verso, dato che
a Roma si sono perpetrati scempi non di poco conto: l'ampliamento clerico-piemontese che ha distrutto il circuito delle grandi ville a
corona della città, la soprelevazione di quasi tutte le costruzioni del centro, l'edificazione degli argini lungo il Tevere contro cui
anche Garibaldi lottò intuendo che il rapporto con il fiume sarebbe stato per sempre perso. E poi, e siamo in questo secolo, gli
sventramenti umbertini e mussoliniani, come il corso Rinascimento, l'area dell'Augusteo, il quartiere tra il Colosseo e Piazza Venezia, i
Borghi al Vaticano.
Nel secondo dopoguerra i progetti guidati dall'Ina-Casa sono state isole di intelligenza, ma attorno sono nate
feroci speculazioni edilizie come quelle di Cinecittà, del Prenestino, del Tiburtino. Ma anche i quartieri ricchi sono diventati assurdi
perché si è costruito senza pietà su una infrastruttura viaria fatta per densità molte volte più basse.
A partire dagli anni
Sessanta la mano pubblica ha operato con grandi "pezzi di città" da lanciare nelle periferia: Corviale, Laurentino, Vigne
Nuove.
Si voleva fare una città diversa, dotata di servizi civili. Ma spesso si sono rivelate solo buone intenzioni, ed è
faticosissimo fare funzionare ancora oggi i complessi per l'intreccio perverso di molti problemi (i tipi edilizi adottati, un'utenza
spesso ai limiti dell'emarginazione sociale, il ritardo nei collegamenti, il mantenimento di estese terre di nessuno). La città è
cresciuta con enormi porzioni illegali. E di fronte allo stato di fatto non ci si è che potuti arrendere. Un altro stato di fatto è
stata la progressiva costruzione lungo ampi settori del raccordo anulare. Per cui, invece di una città aperta e sbilanciata verso
l'entroterra regionale come era stato pianificato, abbiamo un sistema baricentrico, a macchia d'olio.
Il Piano regolatore del 1962
è stato non eseguito nelle sue linee guida.
Quel piano cercava di mettere fine al sacco speculativo del dopoguerra proiettando la
città al futuro e al passato contemporaneamente. Si basava su due grandi scelte: l'asse attrezzato (poi Sistema Direzionale Orientale)
che si estendeva su ottocento ettari e invertebrava la città aprendola alla regione (e alleggerendo il centro), e poi una gigantesca
clessidra formata da due ampolle che combinavano natura, paesaggio, archeologia per decine di chilometri verso l'entroterra. Una linfa
storico-ambientale era iniettata nel cuore della città penetrando da Nord attraverso la villa Borghese e da Sud attraverso i Fori. Ora
mentre per lo Sdo c'è ormai poco da fare, divorato come è stato dall'abusivismo e dai tentennamenti, il sistema Sud di quel disegno (che
ha preso il nome di Parco archeologico dell'Appia) è ancora sostanzialmente integro.
Integro quale possibilità, non quale progetto realizzato e fruibile. Una serie di decisioni devono ancora essere
prese.
Innanzitutto è necessario attuare lo smantellamento della Via
dei Fori Imperiali, l'ex via dell'Impero realizzata da Mussolini per connettere con un asse-parata il Colosseo alla Piazza Venezia. Lo
smantellamento è decisivo non tanto alla microscala, quale specifica necessità archeologica come i nuovi scavi del Foro di Nerva
testimoniano, ma per l'intera città e per un suo ruolo vivo in Europa.
Proviamo a immaginare un sistema storico ambientale
continuo che parta dalle pendici del Campidoglio, attraversi una riconquistata unità dei Fori, abbracci il Colosseo e l'arco di
Costantino, continui per il Palatino e il Circo Massimo, si estenda nella grande zona verde delle Terme di Caracalla e poi nel sistema del
Parco degli Scipioni a ridosso delle mura aureliane e, superata la magnifica porta di San Sebastiano, risucchi le Catacombe di San
Callisto e si prolunghi lungo l'antico tracciato della via Appia antica (con le sue emergenze paesistiche e archeologiche, con i suoi
ruderi e stratificazioni) per chilometri e chilometri. Incontrerebbe nel suo percorso anche il mausoleo delle Fosse Ardeatine a prova che
anche l'architettura contemporanea, se di qualità, potrebbe avere un posto.
Questa struttura territoriale e storica a un tempo
potrebbe vivere di giorno e di notte: passeggiate a piedi e in bicicletta, un servizio di pulmini elettrici, manifestazioni culturali e
ricreative per tutte le età e le culture vi si potrebbero svolgere a partire da un grande edificio di servizi su via dei Fori (vedi
immagine di P. Del Grande e M. Carta). Soprattutto il grande parco sarebbe unico. Andiamo a Bilbao per vedere la nuova architettura, a
Parigi per le sue mostre, a Roma per la storia e per la natura. Dove un simile luogo nel globo? Roma potrebbe rilanciarsi in grande,
puntando sulla sua stessa essenza. Ma bisogna partire con coraggio proprio dallo smantellamento della via dei Fori. Su questo non vi
possono essere compromessi soprattutto da parte di una Giunta che ha l'ambiente al primo posto del suo programma.
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Ma il Parco, nonostante la conquistata unità dei Fori, troverebbe nel suo naturale
incunearsi a Piazza Venezia e quindi alla Piazza del Campidoglio, l'ingombrante e del tutto estranea presenza del Monumento a Vittorio
Emanuele. Certo si potrebbe demolirlo, come voleva Bruno Zevi. Ma il fatto che la maggioranza non voglia perseguire questa via, non vuol
dire che il Monumento non possa essere riassorbito dentro un grande disegno storico ambientale. Ecco perché, tra le tante proposte fatte
in passato, quello di investirlo di vegetazione è la più convincente.
Se il Sud d'Italia ha un imprinting greco, quello di
un'architettura come inno al cielo e al paesaggio, e il Nord, invece, ha nei suoi germi l'artificialità dell'accampamento militare
progressivamente trasformato in città, a Roma l'imprinting è etrusco: quello dello scavo nelle rocce delle necropoli rupestri, della
combinazione tra natura e architettura dei tanti centri dell'Etruria che si spandono al Nord e al sud di Roma. Roma è anche città di
storia, anzi è la città "storica" per eccellenza, come Los Angeles è regione, Parigi è cultura, New York cosmopolitismo.
Insomma nel suo sangue, e nel paesaggio, nelle famose colline, nelle forre che arrivano dal Nord, nel tufo, nella vegetazione,
nell'accumularsi delle costruzioni in tremila anni di storia, Roma vive un organico sposalizio tra architettura e natura.
E non è il gatto, di questa Roma umida, naturale, mista e stratificata, di
ruderi e architettura, il simbolo? C'è nel luogo comune un pezzo di verità. Indiciamo un concorso internazionale serio e fattivo per
segnare l'arrivo del parco Archeologico dell'Appia tra il Campidoglio e Piazza Venezia. Il gatto d'edera potrebbe essere un'idea tra
mille. I segni servono, le architetture comunicano aspirazioni profonde di una collettività.
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Si è aperto il cantiere del Museo dell'Ara Pacis di Richard Meier. Si tratta di un
vero evento perché da decenni il centro di Roma non prevedeva la realizzazione di un disegno compiutamente architettonico. Inoltre,
almeno per chi ritiene che la progettazione non debba avere zone off limits, questo cantiere rappresenta una svolta positiva e
un'inversione di tendenza.
Lo slogan "C'è tanto da fare nelle
periferie, lascino gli architetti il centro" è stato coerente con lo strapotere di sovrintendenti, con quello dei teorici della
tipologia e con chi sostiene l'esistenza di una bellezza da congelare, imbalsamare, museificare. Al progetto di architettura si è così
spesso sostituita nel centro una prassi basata su rimedi provvisori realizzata attraverso interventi su arredo, illuminazione,
vegetazione, pavimentazione, facciate ciascuno autonomo dagli altri e governato solo dalle sue settoriali esigenze.
Rivendicare
"No limits al progetto" vuole dire ricordare che la complessa pratica intellettuale e tecnica che chiamiamo progetto di
architettura ha invece il compito di formare un quadro coerente e significante della realtà. Può anche tralasciare, in molti casi,
azioni che modifichino la materia edilizia propriamente detta per lavorare sui materiali secondi (vegetazione, illuminazione, flussi
fisici e virtuali grazie alle tecnologie elettroniche e interattive di oggi), ma il suo orizzonte culturale è quello comunque di
indicare una direzione complessiva. Ora si comprende perché da questo punto di vista progettare nel centro o progettare in periferia
cambia solo nelle possibilità, nei materiali concettuali e fisici e nel grado di consapevolezza critica richiesto al progettista.
Perché, naturalmente, una cosa è operare un paziente giovane e forte altra è lavorare su un quadro antico, stratificato e
delicatissimo. Per lavorare in questi contesti bisogna possedere mano ferma, grande capacità, istinto sicuro, coraggio e visione.
Con
queste premesse come non aderire a quanto il sindaco Rutelli e i suoi consiglieri hanno deciso? Scegliere, per riaprire alla
progettualità il centro di Roma, un architetto di chiara fama come Meier che, reduce dalla costruzione dell'impegnativo Getty Center e
vincitore del concorso per la Chiesa del 2000 nella capitale, si pone saldamente al centro degli schieramenti architettonici: cioè né
sulla sponda della tradizione post-modern né in quello della decostruzione. W Meier, allora: un'ottima scelta. E con questo potremmo
finire.
Si dà il fatto però che un poco per la stanchezza
dell'architetto, un poco per compromessi nell'impostazione dell'incarico, quello che Meier concepisce per Roma è un progetto di media
qualità. Non brutto, non offensivo, non sgradevole, intendiamoci, anzi elegante per alcuni aspetti, ma nel complesso deludente perché
tutto centrato su una poco significativa simbologia antica (lo gnomone della meridiana di Augusto) senza affrontare le molto più
complesse sostanze che si sono stratificate nell'area. L'errore fondamentale da parte dell'amministrazione (anche se in buona fede perché
mossa da un legittimo desiderio di concretezza) è stato quello di circoscrivere l'incarico a Meier al rifacimento della teca realizzata
per proteggere l'Ara Pacis nel 1938. Ma il vero problema non è tanto la creazione di un Museo più efficiente dal punto di vista
climatico, dell'illuminazione e della protezione dell'altare (e che abbia strutture commerciali, una biblioteca e un piccolo auditorium),
ma bensì quello della sistemazione dell'intera area. Si tratta di una delle zone più irrisolte del centro di Roma perchè vi si somma
errore a errore (a partire dalla distruzione del Settecentesco Porto di Ripetta per realizzare gli argini del Tevere per finire allo
sventramento attorno al Mausoleo di Augusto). Oggi Meier stesso farà parte, si dice, della giuria di un Concorso per la sistemazione
dell'area di Piazza Augusto Imperatore. Bene, ci domandiamo, ma non si poteva procedere diversamente? E cioè prima pensare a un progetto
che ridesse senso all'ambito urbano che va dalla Trinità dei Monti all'ex Porto di Ripetta (infatti l'eliminazione del porto ha tolto il
punto terminale a una delle più ricche sequenze spaziali barocche quella "dei Condotti"). All'interno di questo nuovo senso, si
poteva decidere una coerente strategia per il "dente cariato" del Mausoleo di Augusto e della piazza mussoliniana, e infine
prevedere, di nuovo "entro" questo disegno, il progetto del Museo dell'Ara Pacis.
Ci rendiamo conto che immaginare un
tale processo è oggi fantasticare, ma giusto è rivendicarne la necessità. In ogni caso, pur con i suoi limiti, il progetto di Meier
riapre una spiraglio al progetto di architettura anche nel centro. All'opinione pubblica misurarsi, dibattere, decidere.
Antonino
Saggio
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[20dec2000] |