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SOUTHCORNER.
Battaglie/Battles |
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Javier Marias "Domani nella battaglia pensa a me" Einaudi, Supercoralli, 1998 283pp, Euro 15.49 acquista il volume online a prezzo scontato! |
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I.
Domani nella battaglia pensa a me forse aveva bisogno d'un testimone che lo vedesse mettersi a letto, avere la certezza che qualcuno sapeva dov'era durante il sonno. J. Marias |
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Le celebri tavole di Paolo Uccello raffiguranti la Battaglia di San Romano sono ora tra loro lontane e conservate in luoghi diversi, Londra, Parigi, Firenze.
Come osserva lo Heydenreich "Paolo Uccello cerca di raggiungere un nuovo genere di decorazione murale, ispirandosi sia all'arte dell'arazzo sia a quella dell'intarsio". Di quella battaglia "resta lo stupore dei cavalli bianchi e neri, e anche di quelli rosa e celeste, lo stesso stupore arrogante dei cavalli delle giostre. Resta l'immobilità dei cavalieri, i loro gesti fissati negli attimi che precedono la morte". (1) Resta la vita immobile, la vita come la morte, la vita a un passo dalla morte, la vita imprigionata da fasci di lance ed aste, di bandiere, siepi di lance e di bastoni, che fissano in movimenti stabiliti, come nel cerchio delle giostre. Ruotano cavalli e cavalieri intorno all'asse assegnato, sulla scena d'un teatro, nell'orrore della rappresentazione, falsa era la finzione, finta la vestizione, dell'armatura che nasconde, i tratti del viso e il sangue, sul metallo lucente un cielo inesistente, dalla pedana emana luce artificiale, svuotata è ogni cosa e non restano segni, gesti o sguardi, né ricordi e ripensamenti, quando si è chiamati a battaglia, e il cavallo bianco e il cavallo nero, le lance d'alabastro e le luci d'avorio, gli elmi e i pennacchi, le criniere e i finimenti. Perché tanti ornamenti? Con tanta bellezza dunque si dispone la morte? Cavalieri coraggiosi, cavalieri senza volto e senza nome, che combattete sulla terra dura, alla luce di piccoli soli, nelle vostre corazze di rame e d'argento, sui vostri cavalli neri e bianchi, fasciati di ori e d'azzurro, dunque solo per la bellezza combattete, una bellezza che voi non sapete, perché dentro la battaglia è odio ed orrore, ma non per voi, che avete abbassato le celate, e fuori è uno scintillio di figure fantastiche. Voi cavalieri che combattete in un sogno, che sognate la battaglia e che non vi risveglierete, voi che non sapevate di andare in battaglia, e che vi siete preparati come al giorno migliore, voi che avete confuso la realtà con il sogno, perché con tanto amore onoraste la morte? Forse da bambini avete sognato di diventare cavalieri e d'andare in battaglia e preparare i cavalli e le armi e indossare la corazza e impugnare le lance e mettervi in posa e disporvi a schiera come un sol uomo, e forse da bambini non v'importava di morire perché non sapevate com'è la morte e quando arriva, e non credevate che arriva in battaglia, schierati dietro il condottiero migliore, e forse da bambini non sapevate che sareste andati in battaglia e che sareste stati in prima fila a fronteggiare le schiere nemiche e che, per sempre immobili, fissati da un testimone anonimo, attoniti avreste atteso la morte, la vostra morte per sempre prima di addormentarvi, per non sentirsi soli quando si è chiamati a battaglia, per non arretrare quando il nemico avanza e la battaglia è perduta. Presto si dispongono in rigido prospettico ordine i segni della scomposizione, le lance spezzate, intrecciate, i fili tesi, una rete invisibile già accoglie corazze spoglie, stanche, in disuso. Eppur di poco manca in alto sul fondale d'un tiro di caccia, d'altro gioco, d'altro giorno, d'altra fuga. "Basta respirare nel mondo, la minima oscillazione del nostro respiro, perché tutto si complichi e arrivi… la minima oscillazione del nostro respiro come il lievissimo va e vieni che non possono evitare di avere le cose leggere". (2) Perché lo spazio immobile non imprigiona il tempo, allo stesso modo in cui ogni armatura non rivela l'identità di chi la indossa. E così ogni volta, impercettibilmente, riprende la battaglia, ma non ci svela il suo segreto, e ogni volta, inesorabilmente, noi ci prepariamo senza sapere del destino che ci attende sempre pensando alla morte "che a quanto sembra arriva e come, e arriva in un solo momento che sconvolge tutto e tutto colpisce". (3) e allora nessun colpo di lancia si sospende e s'alza impazzita la cavalcatura… tutto si dimentica e tutto svanisce e qualsiasi racconto ci allontana da allora. Troppe storie e troppi racconti, troppi nomi, troppa fretta nessuno ricorda più nulla solo nomi, solo fretta e tanta letteratura com'è misera la nostra possibilità di sapere. |
[08jun2002] | |||
II.
In hoc signo vinces! Contemporanee a quelle di Paolo Uccello sono le due battaglie di Piero della Francesca, facenti parte del ciclo di affreschi eseguiti in San Francesco di Arezzo tra il 1452 e il 1466. La battaglia di Costantino e Massenzio più che uno scontro, rappresenta la ritirata del nemico di fronte all'esercito di Costantino che precede il suo gruppo tenendo in mano il simbolo della croce. (R. De Fusco, Il Quattrocento in Italia) Guerrieri armati ti difendono il sonno Sentinelle alla tua notte. Notte prima della battaglia In hoc signo vinces! Domani nella battaglia vincerai! Domani non sarai più nel sogno che discende con le ali dell'angelo ma nei colori chiari del primo mattino. Domani nella battaglia vincerai e già il nemico è in fuga Domani nella battaglia avanzerai circondato dalla tua schiera di cavalieri, dal tuo esercito dalle mille zampe e dalle mille lance che conficcano il cielo. Domani nella battaglia vincerai e non sarà neanche battaglia, già si distende chiara l'acqua del fiume a risalire la valle e case ed alberi e passi di viandante e già riflette l'acqua del fiume il suo sereno paesaggio e il tuo certo avanzare e la tua vittoria. Ad altre battaglie ho riservato il sangue e l'orrore dei volti e del pugnale che colpisce alla gola, d'armi inclinate che tagliano il cielo e di bandiere offese di figure strappate e di pezzi d'uomini e d'animali e di pietà che non arriva da chi impugna la spada, perché il destino si compia e non importa s'altri uomini dimenticheranno il bel sogno, perché il destino si compia, che si genufletta il re sacrilego e cada la tua spada sul suo capo. |
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III.
I cavalli nella neve L'immaginazione di Mimmo Paladino aveva trasformato un monte di sale bianco con trenta cavalli di legno semibruciato nella visione simbolica di un avvenimento catastrofico. (I. Raimanova, La Montagna Bianca) La macchina scenica creata nel 1990 per la rappresentazione del dramma di Schiller "La sposa di Messina" fu poi ripetuta nel 1995 nella Piazza del Plebiscito a Napoli. "Il giorno dopo, quando le prime pattuglie di sissit, dai capelli bruciacchiati, dal viso nero di fumo, camminando cauti sulla cenere ancora calda attraverso il bosco carbonizzato giunsero sulla riva del lago, un orrendo e meraviglioso spettacolo apparve ai loro occhi. Il lago era come un'immensa lastra di marmo bianco, sulla quale eran posate centinaia e centinaia di teste di cavallo. Parevano recise dal taglio netto di una mannaia. Soltanto le teste emergevano dalla crosta di ghiaccio. Tutte le teste erano rivolte verso la riva. Negli occhi sbarrati bruciava ancora la fiamma bianca del terrore. Presso la sponda un groviglio di cavalli ferocemente impennati sorgeva fuor della prigione di ghiaccio. Poi venne l'inverno, il vento del Nord sibilando spazzava via la neve, la superficie del lago era sempre pulita e liscia come per una gara di hockey sul ghiaccio. Nei giorni opachi dell'interminabile inverno, verso mezzogiorno, quando un po' di luce sbiadita piove dal cielo, i soldati del colonnello Merikallio scendevano al lago, andavano a sedersi sulle teste dei cavalli. Parevano i cavalli di legno di una giostra. "Tournez tournez bons chevaux de bois." La scena sembrava dipinta da Bosch. Il vento nei neri scheletri degli alberi, faceva una dolce e triste musica infantile, la lastra di ghiaccio si metteva a girare, i cavalli di quella giostra macabra caracollavano sul ritmo triste della dolce musica infantile, scotendo la criniera. "Hop là!" gridavano i soldati". (4) E non si stende come pietà il sale a nascondere dei nostri corpi l'orrore, e a ricordare la bellezza della battaglia gli agili destrieri poggiati e sommersi e sollevati neri del fuoco della battaglia e del terrore bruciati dall'ardore dei cavalieri neri sui fianchi bianchi della montagna. Quanti eravamo, un attimo ancora, che inizia almeno la battaglia che non sia solo fuoco e acqua incendio e gelo, foresta e lago, che non sia solo fuga e paura. Eppure noi già ora sappiamo quel che non saremo, dopo la morte, che ora, vivi, vediamo nascosti ad altri sguardi che noi non sapremo, non resta il fuoco della battaglia nel suo recinto perfetto e nessun silenzio nessun ammonimento, sulla tua giostra tragica torneremo a salire, sui tuoi cavalli affaticati e stanchi, per affondare ancora nel nostro stesso annientamento, dove l'ammonimento della bianca montagna nessuno ti libererà dei tuoi cavalli imprigionati di ghiaccio né il sale coprirà il grasso fiato bestiale della morte. |
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IV. Battaglie Continua a sognare, sogna di azioni sanguinarie e di morte; mancandoti il respiro, dispera; disperando, rendi lo spirito (W. Shakespeare, Riccardo III) Sconnesse erano già le nostre poche incerte parole intrise di dolore dell'incapacità di fare e di capire troppe menzogne e troppo orrore si posson dire con le stesse parole e non c'è amore e quale amore. Le parole non conducono verso le cose che non sanno indicare e procedono verso la loro stessa negazione giacciono in fondo ai mari elmi e corazze e coraggio di guerrieri. Non v'è battaglia per il nostro riscatto. Non v'è racconto che non sia raccolta di macerie e si disperdono nei labirinti dei sogni le poche direzioni intraprese già giunte alla loro oscura beffarda conclusione. Non basta più Guernica a dirci dell'orrore, non ci basta la rinuncia al colore, né grido di toro o di cavallo né lume disegnato. Perché l'arte si nutre dell'orrore viziosa parassita di una storia insensata alibi falsa della nostra liberazione. Né spettro mai vittima dell'ingiusta morte potrebbe raggelare il tuo sonno prima della battaglia perché tu non sei né vi sarà battaglia. Né angelo mai ti potrà rassicurare nel sonno che l'alba che sorge è l'alba della vittoria perché i tuoi sudditi già non ricordano le nobili cause di questa nuova storia. Non la chiamate storia questa storia che mente come un gigantesco inganno, che attraversiamo ciechi credendo di raccontare, truccando il ricordo e il mondo. "Vivere nell'inganno è facile" ma dov'è l'ardore dei giorni della forza che sconfigge l'inganno della conoscenza con l'inganno dell'illusione dove la corazza fiammeggiante che nasconde il sudore della paura dove le lance d'alabastro dove il nemico dove le spettrali maledizioni e la giusta vendetta dove il sonno odioso dei vigliacchi e il sonno soave dei giusti e dove il sole che illumina il campo vittorioso e copre della sua ombra le schiere sanguinarie. E noi che a lungo ci siamo preparati e abbiam creduto di capire e di sapere e che ci credevamo protetti dagli inganni del tempo che i nostri specchi han disegnato perché non v'è più l'alibi della memoria, e del tempo lontano e dell'elenco ora noi conosciamo tutti i nomi e le date e tra quei nomi c'è il nostro e la nostra incerta figura trafitta a morte nell'attimo assurdo dell'illusione di non esser venuto a battaglia solo per morire ma per poter poi ritornare per poter raccontare e ancora illudersi e capire. Questo breve scritto si pone l'intenzione di affrontare il tema della storia e forse della poesia, perché è senz'altro vero che l'artista-architetto, se è tale, non pensa mai a tutto questo e lascia che sia la sua opera a farlo, ma è altrettanto vero che sia giusto pretendere che, dietro un'"opera d'arte", e noi consideriamo tale l'opera di architettura, vi sia almeno una parvenza di verità, ovvero in altre parole, che colui che parla abbia davvero qualcosa da dire. SOUTHCORNER architettura@southcorner.it |
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NOTE: (1) "Presentazione a L'opera completa di Paolo Uccello", Ennio Flaiano, Milano 1971. (2) "Domani nella battaglia pensa a me", Javier Marias, Torino 1998. (3) op. cit., Javier Marias. (4) "Kaputt", Curzio Malaparte, Milano 1995. |
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