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Concorsi

FORUM: CONCORSI DAVVERO

Concorsi d'architettura, una partita col morto

Ugo Rosa



Questa mia triste tirata è una postilla al pezzo di Domenico Cogliandro sui concorsi universitari.

Il concorso d'architettura, infatti, si configura sempre di più come una specie di lamentoso prolungamento di quell'ululato penoso che, uscendo dai tenebrosi ventricoli delle università, si propaga nottetempo facendo accapponare la pelle alle probabili vittime.

Dal concorso universitario a quello d'architettura il passo, infatti, è breve perché in ambedue i casi abbiamo a che fare con zombies, cadaveri scomparsi, vaste estensioni cimiteriali, dottori criminaloidi che non sanno da dove cominciare a vivisezionare il poveraccio sotto i ferri. Senza neppure il beneficio della grazia ironica e lieve di Arsenico e vecchi merletti con la cui versione cinematografica, qualche secolo fa, Frank Capra m'incantò per la vita (complici uno smagliante Cary Grant ed un Peter Lorre indimenticabile).

Credo che gli architetti italiani possano cominciare a chiedersi se sono ancora vivi o se, invece, non stanno oramai solo agitando inconsultamente le zampette come ranocchie ripescate dal frigo e sottoposte a scariche elettriche sperimentali. In questo caso essi non sarebbero solo trapassati (status, peraltro, riposante e refrigerato) ma, altresì, anche oggetto di ricerca scientifica e, magari, di manipolazione genetica; questo finalmente giustificherebbe, agli occhi della comunità scientifica e della più complessiva umanità, la loro passata esistenza rendendoli, almeno da morti, utili a qualcosa. In effetti, le modalità con cui da qualche tempo si è rimesso lentamente (e, per ora, teoricamente…) in moto l'ingranaggio di assegnazione degli incarichi nel nostro paese depongono a favore dell'ipotesi di una sperimentazione effettuata su corpi oramai inanimati.

Da un punto di vista strettamente sentimentale, devo dire, trovo auspicabile l'opzione cadaverica. La preferisco, innanzi tutto, perché consona alle esigenze umanitarie dell'epoca e, poi, perché tutto sommato sarebbe comunque meno sgradevole di quella che, ipotizzando l'architetto vivente e reattivo, dovrebbe poi assumerlo come cavia follemente recalcitrante sotto i ferri. Ciò non sarebbe politicamente corretto, addolorerebbe il ministro dell'ambiente, quello della cultura e, ne sono ragionevolmente persuaso, apparirebbe "inopportuno" perfino al presidente del consiglio. Anche il santo padre, ci scommetto, avrebbe da dire la sua.

Perciò vada per il cadavere.

D'altra parte bisogna ammettere che sono state rispettate le ultime volontà del caro estinto, le quali, come s'è appurato dai sondaggi d'opinione, convergevano verso un unico punto: la pratica diffusa del concorso d'architettura.

Il pullulare di iniziative concorsuali va dunque correttamente inquadrato oltre che come occasione per riciclare i poveri resti a favore dell'umanità e del progresso, attraverso la sperimentazione medica, anche come estremo e rispettoso omaggio alla salma. In fondo gli architetti stanno avendo quello che avevano fortemente voluto e meritato e in linea di massima, in quanto specie praticamente estinta sul territorio nazionale, non possono proprio lamentarsi (semmai dovrebbe attivarsi per loro il WWF).

Sfogliamo un periodico specializzato che dedica ogni settimana diverse pagine ai concorsi ed agli appalti, diamo un'occhiata ai bandi e scopriremo con stupore e gratitudine che se si vuole costruire non ci sono impedimenti di sorta.

Si prospettano al volenteroso progettista magnifiche possibilità concorsuali. Basta iscriversi, pagare qualcosa, ricevere la cartografia di base, fare il progetto e poi spedirlo. Tutto ciò non prima di aver dato uno sconsolato sguardo all'elenco dei componenti della giuria.

Se, infatti, c'è un alto tasso di professori d'università (cosa che si verifica in nove casi su dieci) le possibilità di emergere sono assai scarse se non sei accreditato presso le accademie di architettura (il che vuol dire, in altre parole: professore ordinario, associato, ricercatore, o nel peggiore dei casi cultore della materia e accolito dei suddetti).

D'altra parte se nella giuria ci sono: il sindaco, il segretario comunale e il geometra del comune le cose andranno, se possibile, ancora peggio. La miscela tra accademia e burocrazia, poi, è addirittura esplosiva: o si scannano tra loro o fanno comunella. In un caso o nell'altro chi vince è sempre il più forte (che, intendiamoci, può anche essere il migliore, ma solo per caso).

Così la sperimentazione va avanti, il ranocchio sgambetta e sembra vivo, l'ingegnere che smanetta all'apparato voltaico è concentrato e prende nota, il genetista sorride e pensa al roseo futuro (suo), l'infermiera pulisce le provette, l'impiegato sbadiglia, l'usciere legge il giornale. Caldo afoso, penombra, neanche un alito di vento. Calma piatta.

Certo, per noi architetti italiani che abbiamo già lasciato questa valle di lacrime, oramai il problema non sussiste. Ce ne stiamo in paradiso, tra banane ed ananassi, circondati dalle Urì, fumando il narghilè e ascoltando Glenn Gould che esegue le variazioni Goldberg senza neppure sfiorare i pedali. Una meraviglia. Ma i signori onorevoli Sgarbi e Urbani che, viceversa, portano ancora la croce di una dura esistenza materiale (perché fanno quel che fanno, si scannano a vicenda e, poveri loro, sostengono per giunta di avere a cuore le sorti dell'architettura…) non dovrebbero avere molte ragioni per stare allegri. Eppure (guardateli come cinguettano in tv) sembrano contenti e volete vedere? Tra un po' ci manderanno a dire che il governo ha intrapreso azioni decisive a favore dell'architettura, che già se ne vedono i risultati, che oramai la pratica del concorso è diventata usuale (non volevamo proprio questo noi architetti?) e che insomma possiamo ragionevolmente sperare in un nuovo rinascimento.

Deve esserci di sicuro un equivoco.

Il nostro paesello, infatti, ha già fatto fuori ben due generazioni di architetti (lo so perché ci stavo anch'io); per loro (per noi) l'argomento è praticamente chiuso. Sappiamo che recriminazioni e piagnistei non servono a nulla, perciò diciamo che è andata così e basta. Ma un quesito i nostri governanti dovrebbero porselo: si vogliono liquidare anche le prossime due generazioni? Se sì, allora va tutto come deve andare, questa prassi è la migliore e Vittorio Sgarbi può guardare al futuro con l'ottimismo della ragione. Se invece l'obiettivo non è quello, allora sarebbe necessario correre ai ripari, e in fretta. Con concorsi che provino a salvaguardare la trasparenza dei risultati, attraverso una selezione delle giurie che non metta perennemente sul trespolo le feluche accademiche ed i burocrati istituzionali. Perché tanto meno i componenti della giuria sono inseriti negli ingranaggi dello "scambio" (professionale e accademico) tanto maggiore sarà la garanzia di un risultato non preordinato.

Per quale motivo, allora, delle giurie non potrebbero far parte, a pieno titolo, anche studenti di architettura o architetti appena laureati? Non è detto, credetemi, che ne capiscano meno dei predetti accademici. Mentre invece è sicuro che non facendo parte di una consorteria e non avendo nulla da "scambiare" il loro giudizio sarebbe, quanto meno, più limpido.

Non solo.

Forse vi sembrerà banale, ma oggi esiste anche la concretissima possibilità di conoscere il parere (motivato) di molti (competenti) e in pochissimo tempo, sulla base di un'analisi dettagliata del progetto: esiste la rete, c'è Internet, usiamolo.

Ragionandoci sopra, ne sono sicuro, si può trovare il modo di avere giurie quanto più possibile aperte e libere da condizionamenti: è davvero inevitabile continuare a partecipare a concorsi il cui risultato può essere previsto in anticipo sapendo chi vi partecipa e chi c'è in giuria? E, colleghi architetti, sarebbe bene non prendersela troppo comoda; non illudetevi, fra un poco anche le "nuove generazioni" dell'architettura italiana potranno, anche loro, comunicare con i viventi solo battendo colpi sul tavolino.

Ugo Rosa
u.rosa@awn.it
[13sep2002]

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