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ex-porre - considerazioni sparse sulla biennale, l'architettura contemporanea, le mostre...

Pippo Ciorra



Come ben sa il buon Brizzi, l'argomento è per me ostico e non particolarmente invitante. Bisognerebbe andare a fondo, scoprirsi, affermare se di una mostra conta più il contenuto, l'allestimento, la sede, il catalogo, o non so cos'altro (la "comunicazione"?). Tutte cose su cui mi piacerebbe mantenere riserbo, sia perché difficili da decifrare, sia perché mi piace tenermi stretta la libertà di cambiare idea di volta in volta, a seconda di fattori che difficilmente possono schematizzarsi in "ingredienti" ricorrenti. Comunque, dato che è risaputa la mia incapacità di "starmene zitto"...

1. Non è detto che il successo o l'insuccesso di una mostra dipendano molto dal "formato" (tradizionale, digitale, didattico, interattivo...) e dal tipo di allestimento. Alcuni esempi lampanti: le immagini e i video di Mutations all'Arc en Rêve di Bordeaux sono stati un grande successo di critica e di pubblico, nonostante l'implicita difficoltà di lettura dei tre allestimenti, la diversità dei tre percorsi di ricerca, l'imprecisa collocazione "disciplinare". Alla Triennale di Milano Use, la sezione europea di Mutations curata da Multiplicity, nonostante non fosse affatto male, che usasse con intelligenza e creatività le tecnologie digitali e fosse indubbiamente migliorata rispetto all'edizione di Bordeaux, ha attirato un numero di visitatori che ai vertici della Triennale è apparso abbastanza insufficiente. Allo stesso tempo la mitica Less Aesthetics More Ethics di Fuksas, capace di mobilitare una straordinaria attenzione da parte della stampa specialistica e non, e di dar vita a una specie di festival delle nuove tecnologie, a conti fatti non riusciva né ad attirare folle nettamente superiori rispetto alle edizioni precedenti, né a lasciare traccia indelebile nella storia della cultura architettonica globale. Viceversa alcune delle mostre che hanno segnato il corso delle vicende architettoniche recenti (Deconstructivist Architecture al MoMA, del 1988; The Un-Private House, sempre al MoMA, del 1999) si basavano sul fragile paradosso di mostrare il mutamento radicale della condizione tecnologica, sociale e percettiva dello spazio attraverso tecniche espositive tutto sommato tradizionali. Vai a capirci qualcosa.

[05sep2002]
2. Una prima possibile risposta ci viene in mente proprio andando a vedere la Biennale e la sua vasta articolazione di eventi interni ed esterni. Mai come quest'anno infatti le due mostre principali (NEXT e la sfilata dei Padiglioni Nazionali) sono state assediate da una miriade di mostre, sottomostre, mostre a margine, lecture series, convegni, concorsi e concorsini. L'impressione, che viene anche da alcuni eventi recenti nel campo dell'arte contemporanea –inclusa la Biennale dell'anno scorso- è che la tendenza vincente sia quella di moltiplicare gli eventi espositivi intorno a uno o più eventi "centrali", meglio se garantiti da sedi di grande autorevolezza culturale e istituzionale (Biennale, Triennale, Documenta, eccetera...). La formula vincente, quindi, sembra essere quella dell'ammucchiata selvaggia di eventi, che si nutrono a vicenda, ottimizzano gli spostamenti, attenuano la vigilanza critica verso proposte culturali che altrimenti, da sole, rivelerebbero intera la loro intrinseca debolezza.

3. Un'altra e più ottimistica visione, il cui paladino è certamente Gabriele (Mastrigli), assegna un ruolo fondamentale al fatto che le mostre si completino con una diffusione ragionata e adeguata, nello spazio e nel tempo, dei propri risultati. Pubblicazioni quindi, su ogni genere di supporto, possibilmente a cadenza regolare nel tempo. Gabriele ha ovviamente ragione, ma la sua visione non può inquadrare istituzioni come la Biennale o la Triennale, che proprio dal cambiamento da un'edizione all'altra, da un curatore all'altro, derivano la propria identità. In tutto questo Sudjic, per opposizione a Fuksas, ha scelto una via facile, quella della pura "rassegna", e allo stesso tempo rischiosa, perché condanna i visitatori alla visione canonica e non molto gratificante di disegni e modelli. Non cerca un punto di contatto con l'"opinione pubblica", dando quindi per scontato che il pubblico delle mostre di architettura è costituito essenzialmente dagli "architetti", autoreferenziati e autoreferenziali.

  4. Ammiro il coraggio polemico di Sudjic ("nella mia mostra non c'è neanche un video") ma allo stesso tempo registro come il titolo finisca sempre per rivelare un punto di debolezza delle mostre di architettura della Biennale: presuntuoso e poco credibile quello di Hollein ("Sensori del futuro" dediti a riprodurre scene di un terremoto già successo...), addirittura truffaldino quello di Fuksas, leggermente traslato quello di quest'anno, per una mostra che semmai fotografa il "presente" di progetti redatti per la maggior parte nel secolo scorso.

5. Un'ultima considerazione, che riguarda ancora l'"attualità" della biennale NEXT o meglio ancora l'attualità della "prossima" architettura. L'impressione è strana. Da un lato Sudjic mette in fila un centinaio di "pezzi d'autore" che dovrebbero di molto rassicurarci sui destini della nostra ibridissima arte. Dall'altro alcuni importanti progetti recenti sembrano volerci convincere del contrario: a Las Vegas Koolhaas ha "realizzato" gli spazi Guggenheim semplicemente mettendo il logo dell'istituzione museale globale su un paio di capannoni; a Parigi si è da poco inaugurato il Palais de Tokyo, kunsthalle inserita in una vecchia struttura novecentesca lasciandola praticamente com'era, senza "architettura". Qual è la "prossima" architettura, allora, quella ottimistica e in irresistibile ascesa di Sudjic o quella che non serve più, incamminata all'allegro suicidio di Koolhaas e del Palais de Tokyo? Quella di NEXT rischia allora di essere un'architettura bella e sterile, una specie di corpo morto in attesa di riprendere vita in forme e tecniche diverse, alimentate dalla capacità di guardare con un nuovo sguardo alla realtà delle nostre città, da un uso meno ingenuo del digitale, da uno scambio intenso e fruttuoso con l'arte e le altre discipline che si incrociano "nel territorio".

6. Rimane il discorso sull'architettura italiana, ancora una volta poco e mal rappresentata in questa Biennale. Ma non ho nessuna voglia di rovinarmi l'umore per il resto della giornata. Propongo quindi di rimandare la discussione specifica a recensioni più serie e ragionate, scritte DOPO aver visto la mostra...

Pippo Ciorra

 

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