Ex-perienza Luca Molinari |
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Piuttosto
che offrire un discorso che abbia le pretese della completezza preferisco
agganciarmi al testo appena pubblicato da Pippo Ciorra, come in un dialogo
continuo, riservandomi la possibilità di intervenire ancora in
seguito. È vero, l'argomento è capzioso e rischia di diventare un poco accademico, fortunatamente non esiste una regola universale ma semplicemente una somma di formule di buon senso che, anche se rispettate tutte insieme, comunque non garantiscono alcun, inevitabile successo. Una mostra, come un libro, un film od un disco è un evento pubblico la cui fortuna pubblica è un misterioso cocktail tra una forte idea curatoriale, un logo facilmente vendibile, un allestimento che inviti, non stanchi e, quando serve, stupisca, una forte e massiccia comunicazione, una realtà sociale ed economica che la circonda attenta e l'inevitabile, ma fondamentale, passaparola. Dosaggi occulti, che cambiano ogni volta e che fanno la fortuna o meno dell'evento e dell'Ente che, spesso, vi ha investito enormi capitali. Perché ormai non è da trascurare la dimensione economica delle mostre d'arte o d'architettura che, nel caso di grandi Enti pubblici, supera spesso i 500/600.000 Euro di investimento (per non parlare di eventi come la Biennale) "obbligando" ad una fortuna di pubblico, pena l'impossibilità di realizzare la programmazione a seguire. Dal mio privilegiato e, faticosissimo, osservatorio che è la Triennale di Milano posso dire che negli ultimi due anni, e molto grazie alle provocazioni continue del presidente Augusto Morello, che architetto non è, ci si è posto il problema delle mostre di architettura perché sono spesso "noiose", "per addetti ai lavori", "autoreferenziali". Provocazione anche rafforzata dal fatto che la Triennale di Milano espone architettura da settant'anni e basterebbe una accurata analisi della sua storia espositiva per costruire una storia del modo di far conoscere l'architettura al grande pubblico. Perché questo è uno dei punti centrali. L'ambizione della cultura architettonica di mostrarsi per suggerire ancora come e dove vivremo nel futuro. Muovendo dalla costante e patetica convinzione che l'architettura sia ancora l'unico importante motore nella costruzione dello spazio pubblico e domestico si costruiscono mostre che ci istruiscono mediaticamente su quali spazi noi ed i nostri figli ci troveremo a percorrere nel prossimo futuro. Questa è la furbizia mediatica di NEXT sebbene io sia fermamente convinto che non saranno i cento spazi di altrettanti cento, importanti autori, a condizionare il mio sguardo ed il mio modo di vivere ed esperire la realtà quanto il complesso labirinto di luoghi anonimi, autocostruiti e recensiti che io attraverso con lo sguardo ed i pensieri tutti i giorni. Non esiste monumento senza contesto, paesaggio, tessuto urbano e sociale (parole che ormai sembrano appartenere alla preistoria dell'architettura) e non vorrei quindi che dopo la sbornia anonimista (da Mutations ad USE per intendersi) si passasse alla contrapposizione monumentalista. Non credo alle tesi per negazione (come si fa a costruire una identità per opposizione ad un altro? Non basta dire "qui nella mia mostra non ci sono video" mi ricorda troppo certa sinistra italica che vive ancora grazie alla contrapposizione con il cattivo Berlusconi ) né credo al bisogno di costruire una cornice dorata (o color sabbia ) intorno all'architettura per renderla accettabile ed attraente. A noi piacciono le architetture sporcate dalla realtà. D'altronde per costruire una mostra che abbia un senso oltre che una presenza ci vuole tempo, per pensare, viaggiare, vedere, scrivere e approfondire, condizione che non è stata purtroppo concessa a nessuno dei due curatori delle ultime Biennali di architettura costringendoli ad inventare loghi e formule magiche per irretire i giornalisti ed i visitatori. Ma vorrei fermarmi solo su di un ultimo elemento che considero importante nella costruzione di una mostra di architettura, ma non necessariamente di tutte: i modelli in scala 1:1 e l'esperienza dello spazio simulato. Dai modelli in cartapesta e legno del Cinquecento alle ville razionaliste nel Parco della Triennale, passando per tutte le Esposizioni Universali degli ultimi 150 anni, si è creduto giustamente che uno dei modi migliori per comunicare e vendere l'architettura fosse quello di simularla in scala. Che modo migliore e più diretto che fare attraversare direttamente uno spazio piuttosto che obbligare a difficili interpretazioni dei geroglifici dell'architettura? Se la mostra di architettura vuole uscire, vuole comunicare all'esterno, se il suo curatore crede che l'architettura possa ancora provare a trasmettere idee e visioni, è costretta a confrontarsi e ad usare massicciamente tutti gli strumenti di comunicazione popolare che esistono ed i modelli sono uno di questi. Ed in questo la Biennale ultima, piuttosto che provare uno stimolante ed inedito ibrido tra tecniche tradizionali (il modello in legno) e digitali, ha voluto offrire degli autentici assolo di iperrealismo proponendoci, di fianco ad i modelli più tradizionali delle opere selezionate, frammenti di vetrate, pannelli di rivestimento, moquette e mattonelle, obbligando il povero visitatore ad ardite simulazioni mentali che moltiplichino la mattonella del caso su di una superficie ipotizzata di 10.000 metri quadri! L'esperienza dello spazio che verrà, rimane invece un tema centrale nella difficile comunicazione tra mondo dell'architettura e visitatore ed insieme può diventare un'intrigante provocazione progettuale per lo stesso architetto, come hanno dimostrato con due meno scontate simulazioni spaziali Eisenman e Zumthor. Io non credo ci sia una ricetta e mi chiedo spesso che senso possano avere oggi le mostre di architettura se non ripensate integralmente in termini espositivi e soprattutto concettuali. Una convinzione però rimane ed è che da una parte non ci si possa più permettere di isolare un discorso sull'architettura da una riflessione sulla realtà che direttamente ed indirettamente la impregna, e che dall'altra si debba sempre più spostare la propria attenzione su chi verrà ad attraversare la mostra, sulla sua testa, il suo sguardo e la sua lingua. Luca Molinari luca.molinari@triennale.it |
[14sep2002] | |||
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Luca Molinari è responsabile scientifico del settore architettura della Triennale di Milano. |
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