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Pippo Ciorra



Una delle critiche più feroci (e più fondate) che è stata fatta alla Biennale di Dejan Sudjic aveva a che fare con la qualità e la quantità della selezione italiana. Next Italy, infatti, aveva un carattere particolarmente povero e disomogeneo, schizofrenicamente diviso tra star internazionali (2), progettisti iperprofessionali da tempo indifferenti alle vicende dell'architettura (2), onesti progettisti (1) e spaesati autori di opere prime (1), oltre naturalmente a una larga presenza di stranieri attivi in Italia. Mettendo in fila Fuksas, Piano, Gregotti, Bellini, Pica e Garofalo, Dejan Sudjic ha compilato una sua personale rappresentazione del nostro paesaggio architettonico, com'era prevedibile e giusto che facesse, ma non è riuscito a riscattarne l'arbitrarietà con la chiarezza programmatica dei progetti esposti, né a comunicare un qualche pensiero sull'architettura italiana, sulla sua crisi, sulle strade che alcuni possono (e devono) indicare per uscirne. Ovviamente Sudjic non è il solo selezionatore che si è applicato negli ultimi anni ai destini del nostro malridotto movimento architettonico. Io stesso ho aperto le ostilità qualche anno fa con un paio di libri/mostre che mettevano insieme una decina di architetti, uniti –secondo il mio punto di vista di allora– da un comune atteggiamento progettuale verso i problemi dell'urbanizzazione diffusa e della città contemporanea.

[05dec2002]
I lavori di alcuni appassionati ricercatori dello sprawl, pur se probabilmente viziati da una visione troppo generazionale, servivano allora a identificare una possibile linea di ricerca e di crescita che potesse comunicarsi anche agli altri, consentire una discussione. Da allora ci siamo mossi sempre più velocemente verso "cataloghi" sempre più agili, insofferenti alle categorie critiche e alle dichiarazioni programmatiche, identificati solo dalla personalità e dal ruolo più o meno istituzionale del selezionatore di turno. Così è stato per la mostra allestita da Maurizio Bradaschia e Marco Casamonti a Graz (e poi in altre sedi europee), in cui cinquanta architetti venivano messi insieme sulla sola base di essere italiani, "giovani" (cioè under sixty secondo la peculiare anagrafe architettonica nazionale), e di mostrare il proprio lavoro in due tavole normalizzate. Quasi contemporaneamente all'operazione Graz è partita quella della mostra sull'architettura italiana a Tokyo, curata da Franco Purini e da altri, il cui catalogo non è ancora stato pubblicato, e che comunque raccoglie altri cinquanta nomi di progettisti selezionati sulla base di avere (quasi tutti) almeno un'opera costruita da esporre. Inutile dire che le sovrapposizioni tra i cinquanta di Graz e i cinquanta di Tokyo sono pochissime, anche se in tutti e due i casi i curatori sostengono di aver puntato a una lista generalista, non viziata da settarismi e schieramenti culturali.

Il gioco del commissario tecnico diffuso è continuato con la Biennale, come si è detto, e con una serie di iniziative più o meno contemporanee a NEXT. Alcune non collegate alla mostra veneziana, come un libretto piuttosto "leggero" di Prestinenza Puglisi, che nelle ultime pagine lascia cadere un altro elenco di una trentina di nomi di studi di architetti "promettenti", ma mette un'altra volta insieme, con splendida nonchalance, pazienti artigiani del laterizio, sofisticati professionisti, digitalisti ossessivi e artisti dediti all'installazione "da museo". In altri casi si tratta invece di eventi direttamente collegati alla biennale, nati in qualche caso in polemica diretta con la pretesa "indifferenza" di Sudjic alle proposte degli architetti italiani. È di caso della serie di conferenze "14-02" organizzate dal senato degli studenti IUAV e dal giovane "critico" Emanuele Piccardo, ancora una volta orientata alla "promozione e valorizzazione dell'architettura italiana", ma ancora una volta viziata dal non avere altri criteri e scopi oltre a quello promozionale, e quindi dal dover produrre una lista fatta di modi di lavorare, ricerche, approcci, tra i quali poteva accendersi ben poco dialogo.

Sempre collegata alla Biennale, in una singolare posizione di critica "concordata", era l'iniziativa Lonely Living, ancora una volta messa in piedi da Casamonti e dal gruppo di Aid'A (con la "consulenza scientifica" di Sebastiano Brandolini e Giovanni Leoni), ancora una volta basata su una compilation estemporanea, ancora una volta motivata dal puro intento di "promuovere l'architettura italiana", ancora una volta fatta per metà dai "soliti noti" e per metà da architetti meno conosciuti che si sono iscritti all'Aid'A (Agenzia Italiana d'Architettura) proprio per la legittima aspirazione ad essere "promossi", con tutto quello che ne consegue sul piano della fragilità culturale dell'iniziativa. L'episodio di Lonely Living ha molte aggravanti, dal tema "sociale" rabberciato e poco credibile all'autoconfinamento in un "ghetto" recintato ai Giardini, all'ennesima ricaduta in un approccio sterile e improduttivo al concetto di installazione "a tema", ma l'argomento in questione ora non è questo. Quello che invece appare più preoccupante è il fatto che da tante selezioni (per non parlare dei concorsi e delle iniziative della Darc) non riesca ancora a venir fuori un "nocciolo duro" di idee, proposte, identità progettuali che possano porsi come riferimento per tutta la discussione e la ricerca di architettura in Italia. Come è stato negli ultimi anni in Spagna, in Olanda, in Francia e in tutti i paesi i cui l'architettura è riuscita a riguadagnare un ruolo effettivo nella costruzione dello spazio e del paesaggio contemporaneo.

Le cause di questa situazione risalgono a tre ordini di motivi, lasciando fuori per una volta la cronica debolezza del nostro panorama edilizio, l'impossibilità di costruire bene, l'ambiguità dei concorsi eccetera eccetera. Il primo motivo ha ovviamente a che fare con la fragilità degli approcci dei "selezionatori", col fatto che fare un elenco è certamente più semplice (e crea più consenso) che motivarlo, con la perdurante assenza nella scena architettonica italiana di una consolidata abitudine al ruolo della critica. Il secondo motivo ci riporta invece verso gli architetti, che hanno nel frattempo perso l'abitudine di fare progetti che siano realistici e "teorici" allo stesso tempo, e quindi capaci di offrire temi e spunti per una discussione, e quindi una crescita, collettiva. Il terzo motivo è quello più complesso e doloroso, ha a che fare col ruolo delle nostre riviste maggiori e con la loro ambigua propensione verso l'architetto "artigiano" - soprattutto se nazionale, con il lutto non ancora del tutto elaborato della scomparsa dell'egemonia, culturale e accademica, della generazione neorazionalista, con il relativo terrore che tutto ciò incute nei nostri progettisti alla sola idea di impegnarsi nella definizione di qualche idea-manifesto per la nostra architettura e le nostre città.

Pippo Ciorra
pciorra@tin.it
Questo intervento è stato precedentemente pubblicato sulla rivista "Costruire", n. 235, del dicembre 2002.

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