Natura
morta con città globale Pietro Valle |
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La
città, un'infinità circoscritta. Un labirinto dove non
ti smarrisci mai. La tua mappa privata dove ogni isolato ha lo stesso numero. Anche se perdi la strada, non puoi mai sbagliare. Kobo Abe, Moyetsukita Chizu (La mappa bruciata), 1967 (1) |
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Ne
"La mappa bruciata" del giapponese Kobo Abe un investigatore,
alla ricerca di una persona scomparsa, è costretto a calarsi
nel sottobosco criminale di una Tokyo notturna e allucinata scoprendo
gradualmente che, per riuscire nel suo intento, deve immedesimarsi nella
persona scomparsa. L'indagine lo porta ad una graduale cancellazione
della propria identità che è fatta coincidere con la mappa
della città e il suo sistema di luoghi noti. L'investigatore
si perde in un labirinto che è allo stesso tempo urbano e mentale,
la persona scomparsa non verrà mai trovata e il romanzo si interrompe
a un punto morto senza offrire conclusioni. Nel suo svolgersi, tuttavia,
i ruoli si sono mescolati a tal punto che non sappiamo più se
stiamo leggendo le vicende di chi cerca o di chi è ricercato.
Rappresentare sembra implicare lo smarrirsi nel tentativo di fissare
qualcosa che non si conosce, il costruire un paradigma fittizio
che include il fallimento dei propri intenti iniziali. Tuttavia, quel
"non puoi mai sbagliare" riferito alla città, sembra
giustificare il perdersi nelle sue rappresentazioni, il parlare infinito
di una realtà che non si riesce mai a circoscrivere. Il romanzo di Abe può essere uno spunto per leggere in chiave fiction le vicende di "Città, Società e Architettura", la mostra alla Biennale curata da Richard Burdett che si è aperta all'Arsenale e ai Giardini nelle scorse settimane. L'architettura va alla ricerca della propria identità perduta che è riferita al più vasto contesto della città e si concentra su molteplici strumenti conoscitivi (mappe, statistiche, diagrammi, foto, ecc...) che, invece di circoscrivere la ricerca, smarriscono per strada sia la città sia l'architettura. La prima si cristallizza in una serie di convenzioni rappresentative che eludono la reale complessità urbana, la seconda è presentata come dato di fatto, una conseguenza naturale della città che non riesce a definire alcuno scarto tra la sua propositività progettuale e il presente. Alla fine della mostra ci sembra di avere assistito ad un'analisi inconcludente che ci ha fatto smarrire in un labirinto di figure iterate che non supportano alcun contenuto se non quello di ridurre la città a forma comunicativa. Lungo le Corderie dell'Arsenale sono presentate 16 grandi conurbazioni che sono rese confrontabili dalle medesime rappresentazioni e sono incorniciate dall'efficace allestimento di Cibic&Partners e Fragile (è la prima volta che non si produce un effetto di ridondanza percettiva in questo spazio, segno che la mostra è fin troppo chiara nei suoi intenti). Sembra quasi di leggere un libro di geografia urbana ampliato a scala ambientale: foto aeree, mappe colorate, diagrammi statistici, accattivanti scatti di autori noti e presentazioni di grandi development urbani (spesso frutto dell'investimento del grande capitale finanziario) che spuntano qua e là mimetizzati tra gli altri dati come se nulla li distinguesse da essi. È una mostra di riduzioni della città che servono la governance, termine proposto da Burdett per indicare l'amministrazione politico-finanziaria degli sviluppi urbani con una chiara ottica di potere in cui l'architettura è solo uno dei tanti strumenti in gioco. La scelta dei codici visivi che supporta questa logica non è casuale. Le mappe e le foto aeree sono visioni a distanza che focalizzano alternativamente sulla grana del tessuto urbano o sulla figura globale della città senza addentrarsi in quello che essa contiene. Le fotografie mostrano un'urbanità artificiale e forzano a tal punto quest'ottica che diventano non più indagini del reale ma rappresentazioni del desiderio di ridurre la città a modello. Nelle vedute aeree di Olivo Barbieri si dispiega una città-giocattolo della quale è possibile incorniciare singole porzioni mentre il resto scompare nella nebbia soft focus di un orizzonte indefinito. Le sue immagini sembrano quasi appartenere allo sguardo di un neonato che riconosce solo la realtà a suo diretto contatto, una realtà prensile che esclude altre scale se non quella dell'immediato. Nell'uso dei diagrammi per identificare quantitativamente le città, non è essa a ridursi a dato ma questo a diventare realtà fisica come nella presentazione di Shangai dove le vertiginose cifre della crescita urbana si trasformano in grattacieli scalettati, visioni di Stadtkröne che sembrano giustificare il boom speculativo dell'high-rise invece di spiegarlo. Nulla ci viene detto sui criteri che informano numeri e grafi ma la loro traduzione diretta in realtà fisica (sempre più evidente in molta architettura recente) è un ulteriore indice della riduzione del progetto a conseguenza naturale (leggi: statistica) dell'analisi della città (un'analisi puramente quantitativa) senza possibilità di scarti da essa. L'architettura è nascosta nella lettura della città, non si vede, non mostra neanche la sua natura quantificatoria forse perché è solo un'estrusione di dati statistici già noti e sapientemente pilotati per arrivare dove si vuole arrivare. Si giunge al punto in cui i dati non servono più e rimane solo la figurazione che essi assumono. Tra essi e la loro traduzione progettuale non vi è quindi differenza: sono entrambi forme o, meglio, convenzioni. I progetti sono dati di fatto alla pari della realtà fisica esistente ridotta dai codici statistici che la leggono. Per questo motivo, il progetto di architettura esce sconfitto dalla Biennale: ad esso non è concessa nessuna distanza dal reale, nessuna prefigurazione, nessun'alterità, nessun valore critico. Allo stesso tempo non gli è concessa neanche presenza fisica, perché la realtà materiale, l'odore della città, è escluso da questa mostra. Il progetto e la realtà urbana possono solo assumere morfemi artificiali, quanto più astratti, tanto più sicuri da ogni rischio. Tra la città reale e quella portata all'Arsenale c'è la stessa differenza che c'è tra vita e natura morta, ove quest'ultima è una selezione di oggetti addomesticati e artificialmente disposti per essere letti tassonomicamente, una celebrazione della realtà ove essa può esistere solo in una forma sospesa e imbalsamata. Ma vi è di più: nei suoi saggi sulla natura morta in pittura, Norman Bryson spiega che essa ha il potere di trasformare il consumo (i cibi e gli oggetti della tavola dipinti) in produzione (di rappresentazioni del potere e della ricchezza che permettono il loro possesso). (2) Se mutuiamo questo concetto, abbiamo una perfetta sintesi della procedura operata da questa Biennale: il consumo della città ridotta ad immagini e diagrammi sulla tavola imbandita della mostra diventa produzione di quantità urbane che celebrano il potere economico che le governa. Tra astrazione e speculazione economica si crea un legame indissolubile: il progetto è ambiguo strumento del potere politico-economico e convenzione didattica che offre una spiegazione addomesticata del reale. I meccanismi del potere politico e del liberismo economico vanno, infatti, perfettamente d'accordo con la ricerca accademica. Burdett non poteva trovare migliori alleati delle scuole d'architettura nel perseguire il suo programma di riduzione della città. Chi altri se non le scuole, infatti, elaborano delle forme trasmissibili per tradurre la complessità del reale? Nella ricerca di molte delle scuole internazionali di architettura si dà oggi prevalenza all'elaborazione di linguaggi formali che traducono la realtà in dati immateriali. È questa conseguenza di una realtà contemporanea sempre più orientata alla comunicazione dove anche l'architettura perde presenza fisica per assumere efficienza mediatica. Al padiglione Italia ai Giardini, Burdett ha radunato 13 istituti internazionali di ricerca (tra cui OMA che qui, risulta significativamente, tra le scuole) che sembrano fare a gara nel mostrare sistemi sempre più sofisticati per definire la forma urbana: assistiamo qui a elaborazioni ben più articolate di quelle dell'Arsenale. Le trasfigurazioni della città presenti hanno raggiunto un tale livello che paiono dominate dal desiderio di perdersi in un labirinto di rappresentazioni dove diagrammi e astrazioni formali non hanno più neanche autorità e sono diventati scrittura automatica, esperanto multimediale che si autorigenera spontaneamente. Rispetto alla schematicità dell'Arsenale, il display delle scuole trasforma la città in fantasmagoria, in caleidoscopio che sembra autocelebrarsi nell'infinito rispecchiamento nei propri apparati. Lo spettacolo della rappresentazione dimostra qui che il suo successo è inversamente proporzionale alla volontà di affrontare criticamente la condizione fisico-sociale delle città. Lo studio di essa si riduce al progetto della forma e questo pare l'obiettivo di molte scuole: perseguire la presunta autonomia della ricerca nell'elaborare figure parallele che non si sporcano con la realtà. Nel fare ciò non paiono rendersi conto che esse diventano strumenti passivi di un potere che neanche riconoscono: la presunta autonomia delle forme rientra, infatti, oggi nella politica del consumo comunicativo di figure mediatiche autonome sfruttate dal potere per presentare una realtà pacificata (come la mostra all'Arsenale ben dimostra). Nella ricerca di una morfologia urbana condotta attraverso figure si elude, quindi, sia il faticoso processo di traduzione del progetto nel reale sia un ricerca teorica libera dai meccanismi di potere. Amministratori delle città e ricercatori didattici vanno quindi significativamente d'accordo in questa Biennale, i due opposti si incontrano: il pseudo-realismo dei dati statistici si sposa con la presunta libertà della ricerca formale, entrambi sono strumenti di consenso. Solo con queste premesse si può comprendere il vero significato del progetto di VEMA, la città immaginaria che Franco Purini ha pianificato affidandone la progettazione delle parti a venti gruppi di giovani architetti italiani e presente al nuovo Padiglione Italiano alle Tese delle Vergini all'Arsenale. Coerentemente con una carriera tutta incentrata sulla ricerca morfologica, Purini persegue una forma in vitro senza affrontarne né la fattibilità rispetto ai meccanismi che dominano il territorio né la coerenza teorica (per lui, le figure sembrano sempre sublimare il pensiero...). VEMA, inoltre, non solo è irrealistica ma anche formalmente convenzionale perché sfrutta banali procedure di contiguità dei progetti su un reticolo planimetrico ortogonale o artificiali sovrapposizioni di layer dove, significativamente, il luogo costituisce l'ultimo livello ed è chiamato "il ricordo del terreno originario". Dispiace vedere che tra gli invitati a VEMA ci sono figure di tutto rispetto che vedono la loro ricerca livellata al comune denominatore di un vuoto formalismo imposto dal curatore e si trovano affiancati a progettisti senza pensiero che esibiscono qui il loro talento estetizzante. Se Purini è indeciso tra figure ereditate dal suo passato razionalista e nuovi stilemi digitali, la forma è decisamente mortuaria ne "Le Città di Pietra" curata da Claudio D'Amato Guerrieri. La città sembra diventata qui una sorta di memento mori di una Tendenza (con tanto di altarino ad Aldo Rossi) ormai ridotta a sterile esercizio accademico che sogna città ipogee in un presunto contesto mediterraneo capace di mettere insieme la contemporaneità con gli antichi greci e il Fascismo. Perfetta espressione di una parte dell'università italiana completamente avulsa dal reale e dalla conoscenza della contemporaneità, "Le Città di Pietra" mostra come sia ancora lunga la strada per liberarsi di trent'anni di presunta "autonomia dell'architettura" la quale non è riuscita ad incidere sulla città reale e ha prodotto solo roccaforti accademiche. Nei padiglioni nazionali ai Giardini la celebrazione della rappresentazione della città che non vuole incontrare la città (è questo, in fondo, il tema inconscio che emerge quest'anno) si allarga a contemplare ipotesi behavioriste (La Francia che coinvolge gli spettatori in una sorta di comune-souk etnico), ludico-partecipative (l'Inghilterra con il suo album dei ricordi di Sheffield) o da reality-show (la Spagna con le sue interviste in diretta a diverse donne coinvolte nelle città) che non cambiano sostanzialmente la linea generale. I progetti di architettura, se ci sono, vengono presentati con banali cataloghi di realizzazioni (Germania, Paesi Nordici) assecondando quella logica del dato di fatto già incontrata all'Arsenale che nulla dice del rapporto critico tra città e progetto. Non sono spiegati i processi che, partendo dall'analisi della città in diverse discipline, portano al progetto di architettura (paradossalmente, anche l'urbanistica è assente in questa Biennale) e non ci sono neanche gli artificiosi itinerari della forma che avevano prodotto processi compositivi che raccontavano il loro farsi (la forma è data qui solo nella sua presenza finale). La cifra finale di questa Biennale è quindi il silenzio, silenzio della città sul suo farsi, silenzio delle sue relazioni con le tecniche che la influenzano, silenzio sui processi decisionali che la modificano. Essa rimane ieratica, presenta dati non discutibili, formule non controllabili e buone intenzioni generiche come nei sei punti per il futuro presentati da Burdett alla fine delle Corderie. Questa Biennale non sembra avere bisogno dell'architettura o, perlomeno, l'ha ridotta a fenomeno ininfluente sugli eventi urbani. Poco si dice su chi fa le scelte che condizionano i cambiamenti ed è implicitamente dato per assunto che il grande capitale speculativo e la crescita spontanea siano fenomeni naturali. Nulla è detto della dimensione politica delle scelte come nulla è lasciato a un'interpretazione critica o proiettiva verso un futuro altro (l'unica eccezione è forse l'Irlanda con la sua proiezione territoriale nel Super Rural). Allo stesso tempo, è dato a tutti il potere della comunicazione senza far capire che le sue redini sono tenute da pochi. In questa Biennale esplode il problema della globalizzazione e della riconoscibilità dell'identità delle diverse città. La possibilità data a culture diverse di esibirsi sul palcoscenico della mostra non passa più attraverso l'affermazione delle differenze. Tutti sono livellati nei canoni dei dati e delle rappresentazioni descritte all'Arsenale, tutti impiegano lo stesso efficientismo figurativo-statistico: non c'è bisogno di affermare un'identità culturale, non c'è più neanche la caricatura esotica della cultura non-occidentale che caratterizzava il discorso culturale colonialista e post-colonialista analizzato con tanta lucidità da Edward Said. Ancor più, le città in mostra non hanno odore né sapore, non mostrano sporcizia o povertà o, perlomeno, riducono questi dati a entità controllabili. Le presunte differenze cozzano con una generale omologazione e l'affermazione delle identità nazionali scompare in molteplici rispecchiamenti della medesima identità globale. È il superamento di una cultura moderna ottocentesca che aveva inventato l'esotismo, la tradizione, la storia, la sociologia, la filosofia politica e altre discipline come elementi di riflessione sul moderno. Tutto è inghiottito in un generale editing che, nel mostrare qualcosa di più ampio degli edifici, esibisce la sua potenza livellatrice che riduce la realtà a figure lasciando le cose come sono. Pietro Valle pietrovalle@hotmail.com | [30sep2006] | |||
NOTE: 1. Kobo Abe, Moyetsukita Chizu, Tokyo 1967, tradotto in inglese in The Ruined Map, New York 1980. Abe è tra i più interessanti scrittori giapponesi del dopoguerra, la cui opera è stata purtroppo tradotta in Italia solo sporadicamente negli anni '60 e '70. Tra i suoi romanzi più famosi ricordiamo La Donna di Sabbia, che, portato in film da Hiroshi Teshigara, vinse il premio speciale della giuria a Cannes nel 1964. A metà strada tra deliri psicologici e racconti di fantascienza, i romanzi di Abe sono straordinarie esplorazioni della condizione contemporanea, influenzati dal Nouveau Roman di Robbe-Grillet, dalla fantascienza di J.G. Ballard e dal surrealismo di autori del nuovo mondo come Julio Cortazar (non a caso, La Mappa Bruciata si conclude come Blow-Up di quest'ultimo). 2. Norman Bryson, Looking at the Overlooked. Four essays on Still Life Painting, Cambridge 1993. |
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