Eventi

I CORPI DELL'ARCHITETTURA DELLA CITTA'
convegno a cura di Antonino Terranova

ACHILLE BONITO OLIVA



[31may2001]
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L'UOVO DI COLOMBO

Una spada di Damocle è sospesa su tutta la storia dell'arte dall'anno 1474. Quando Piero della Francesca terminò di dipingere la pala d'altare per il duca Federico da Montefeltro, ora custodita nella Pinacoteca di Brera a Milano.

Un uovo, frutto dell'unione di Giove con Leda, staziona sospeso sul capo della Vergine con il Bambino Gesù sulle ginocchia. Simbolo chiuso di perfezione e misura aurea dello spazio. La geometria euclidea, nei suoi canoni di proporzione, armonia e simmetria, garantisce perenne immobilità all'uovo, forma di equilibrio dell'arte nei suoi rapporti con il mondo. La perfezione è garantita dalla posizione aerea dell'oggetto sospeso, protetto dall'impostazione concettuale dell'opera ed assistita dal rigore prospettico dello spazio.

L'uovo esibisce una forma scorrevole e nello stesso tempo riservata, impenetrabile allo sguardo in quanto garantita e protetta dal sospetto di una sostanza interna racchiudente i principi della vita e della conoscenza. Solo l'arte può esibire la sospensione di quello involucro ovoidale, protettore di origine della vita ed anche portatore di un'esterna perfezione formale. L'arte dunque è capace di innalzare sul piano simbolico l'oggetto quotidiano, di tenere sospeso l'uovo per molti secoli sulla testa dell'umanità.

Nel 1492 Cristoforo Colombo ha staccato l'uovo dalle alte sfere dell'iconografia artistica e lo ha riportato sul piano gravitazionale di un tavolo da pranzo. Famoso l'uso che ne ha fatto utilizzandone circolarità e peso interno, per dimostrare la circumnavigazione della terra davanti alla corte di Spagna. All’inizio del terzo millennio alcuni giovani artisti riprendono entrambe le lezioni di Piero della Francesca e Cristoforo Colombo, per segnalarci la forma aurea dell'uovo, evidenziandone non tanto il sospetto di possibile vita all'interno, quanto piuttosto la sua levigata possibilità formale.

In un'epoca come la nostra, dominata dalla spettacolare vetrina della telematica, essi assumono il guscio vuoto dell'uovo non come emblema di leggerezza, bensì come innata possibilità di sintesi formale che l'artista può ancora realizzare nel frammentario quotidiano in cui viviamo. Dall'uovo pieno di simboli al guscio vuoto, l'arte svolge un tragitto che riconosce le peripezie della storia, ma non si dimette dal suo unico ruolo possibile, quello di indicare la forma come raggiunto processo di conoscenza contro le derive edonistiche del puro spettacolo del mondo.

L'uovo vuoto è l'affermazione dell'ultima generazione artistica all'inizio del Terzo millennio che, in difesa della vita, intende recuperare il senso quotidiano dell'esperienza di Cristoforo Colombo e la disciplina spirituale di Piero della Francesca, non per minacciare il mondo ma per tenerlo con il fiato sospeso e lo sguardo rivolto in avanti, attraverso l’opera che costituisce il corpo dell’arte.



L'ARTE

Infatti non esiste coscienza intellettuale dell'arte, piuttosto quella dell'opera d'arte capace di formulare una visione del mondo ben oltre il suo artefice. Un esempio lampante è Balzac, scrittore conservatore, con i suoi romanzi che rappresentano, come un affresco, la società del proprio tempo in maniera critica e penetrante.

Nell'arte figurativa è il manierismo a fondare una particolare coscienza intellettuale che riflette sulla propria natura metalinguistica e sul rapporto dell'artista con il mondo esterno. Per meglio sviluppare tale posizione riflessiva - una libera lettura del mondo non censurata dal potere -, l'artista manierista assume la posizione della lateralità, da cui osservare le dinamiche della storia, elaborando un dispositivo linguistico con cui rappresentare il proprio dissenso. L'azione metaforica dell'arte, poggiante sulla rappresentazione, è per sua natura indiretta e diversa dall'azione pratica che richiede frontalità e decisione. Con la lateralità l'artista sceglie la posizione tipica del traditore: chi guarda il mondo e non lo accetta, vuole cambiarlo ma non agisce, piuttosto produce una riserva iconografica, un deposito di immagini espressive e protettive di una coscienza intellettuale critica e autoriflessiva.

Il rigore stoico di tale posizione risiede proprio nella consapevolezza dell'artista di operare nel campo della Metafora e dell'Allegoria che non significa agnosticismo e neutralità verso il mondo. Nel xx secolo le avanguardie storiche con i loro espliciti manifesti, dichiarazioni di poetica collettiva capaci di aggregare drappelli di artisti, sembravano voler ribaltare la strategia della lateralità in una frontale dichiarazione di guerra contro la società. Ma è la coscienza metalinguistica dell'arte, per cui sua realtà è il linguaggio, che persiste in questi movimenti fino alle neoavanguardie e alla transavanguardia e costringe gli artisti ad accettare l'ineluttabilità di un potere dell'immagine circoscritto alla rappresentazione critica più che all'azione sovversiva.
Fino agli anni ottanta l'arte è riuscita a creare una testimonianza di sé capace di darsi come differenza rispetto alla società dello spettacolo e dunque a manifestare un livello di analisi esplicito ed evidente.

Ora, nell'estetizzazione del quotidiano prodotta dallo sviluppo telematico che trasforma ogni democrazia in telecrazia, sembra problematico conservare un quoziente critico. La forma artistica è bombardata da una produzione industriale di immagini capace di realizzare in superficie la sintesi delle arti, promossa programmaticamente dalle avanguardie storiche come riscatto di una totalità formale contro la parzialità del quotidiano.

Ma come fa l'arte attuale a conservare, rappresentandola, la coscienza intellettuale se la sperimentazione tecnologica è stata assunta a fini puramente spettacolari dal sistema industriale? Prima la sperimentazione di nuove tecniche e materiali rappresentava proprio un sintomo di tale coscienza. Gli artisti operavano in un laboratorio artigianale di immagini che doveva rappresentare la differenza rispetto al prodursi del quotidiano, resistenza della qualità rispetto all'invadenza della quantità. Tale istanza è stata salvaguardata anche nell'arte del dopoguerra fino agli anni ottanta. Ora sembra lo spazio progettuale si sia ancora più ristretto e permanga soltanto nell'intenzione soggettiva di un'opera affidata al progetto dolce del processo creativo. Il risultato è la costruzione di un ordine formale, visibile resistenza morale proposta verso un esterno caotico e frammentario.

Anche se l'opera adotta tatticamente i caratteri dell'eclettismo stilistico - contaminazione, destrutturazione, assemblaggio e riconversione di frammenti linguistici di diversa provenienza - tuttavia accetta sempre alla fine una sistemazione formale rispondente ad una diversa intenzionalità. Tale intenzionalità nasce dal bisogno dell'artista di esprimere un esplicito livello di resistenza attraverso la forma.

Essa documenta un ampio quoziente concettuale che non mortifica la temperatura dell'opera, senza ridurla a pura dichiarazione didattica o affermazione platonica di poetica. E proprio il raggiunto risultato formale a permettere di esprimere in maniera coinvolgente, nella sua interna qualità, la riuscita del processo creativo, il passaggio dall'intenzione dell'artista all'intenzionalità dell'opera, testimonianza chiara del valore di resistenza. Tale valore è amplificato maggiormente da un supporto concettuale forte e pregnante, come uno scheletro capace di reggere il peso della carne.

L'arte agli inizi del nuovo millennio, nei casi migliori, è il frutto di una coscienza intellettuale del mondo lucida e raffreddata. Non cade nella trappola metafisica di una produzione formale estraniata rispetto alla quotidianità del visibile. Anzi adotta un'inversione metodologica assumendo maggiormente la posizione della lateralità, una sorta di fiancheggiamento apparente con il quotidiano che la mimetizza e la preserva. Tale tattica implica la strategia di un conveniente tradimento, il passo laterale del torero che in tal modo meglio può colpire il toro.

Coscienza intellettuale dunque significa conoscenza del nemico, lucida visione della complessità del sistema sociale, della sua omologazione internazionale in un circuito che dinamizza più l'occhio che la coscienza.

Certamente questo implica lo spostamento dell'artista dal pathos della distanza nella posizione di un più cinico tradimento, motivato dall'accettazione di una terrificanza storica senza scampo, dove l'oggetto artistico sembra condannato ad una peripezia incanalata in un perimetro di pura degustazione.

Eppure l'artista continua a produrre le sue forme, i suoi oggetti. Evidentemente ritiene di accumulare tracce di una resistenza soggettiva surgelando così l'idea dell'arte a futura memoria. Una sorta di esercizio stoico non indirizzato esclusivamente alla salvezza di una razza in via di estinzione, piuttosto necessità di conservare esistenza ad un ruolo.
Dalla storia dell'arte ci provengono esempi, tramandati dall'immortalità dell'opera, di un ruolo creativo esercitato contro il potere del presente e a favore della possibilità del futuro. Il tempo contro lo spazio.

La lezione sembra assorbita dall'arte di oggi, accumulo di scorte formali in uno spazio già molto intasato, nella speranza di un tempo migliore, meno annodato e contraddittorio.
In questo senso esplicita è la resistenza degli artisti, la testimonianza assunta dalla produzione di forme che insistono più su un livello concettuale di differenza interna e meno su quello spettacolarmente esterno. Riducendo ogni metafisica spettacolarità, l'arte sembra voler stimolare nello spettatore la dignità silenziosa di una riflessione lenta e progressiva, la contemplazione di uno stato di diversa visibilità.

Vedere per credere! In un tempo in cui non sembra esserci spazio per credenza alcuna, ecco riapparire il sospetto laico di un tempo migliore, trasparente e semplice, permissivo ed invitante all'introspezione e alla possibilità di organizzare il quotidiano in una forma rispondente allo sguardo interno di una coscienza che salda in uno spazio comunitario l'artefice dell'arte e il suo gratificato beneficiario.



LA CASA DELL'ARTE

Oltre la pelle (pittura, scultura, fotografia, video, immagine computerizzata e via Internet) l'installazione, come forma prevalente del corpo dell’arte, nasce da un confronto e relazione con la telematica, a partire dal problema posto da una malattia come l'anoressia, potenzialmente mortale. L'anoressia è uno stato paradossalmente patologico nella società di massa, dominata dallo standard e dal desiderio di realizzare quello che io chiamo una sorta di sosialismo, essere sosia di un modello che tende sempre più a superare le differenze e a essere dominato dal senso della scomparsa, dell'assottigliamento. L'anoressia che tende alla morte, una malattia che tende a distruggere la concretezza e lo spessore del corpo, è anche abitata da una involontaria intenzione di aggressività, il corpo che si assottiglia, tende a perdere la carne e ad evidenziare lo scheletro, direi proprio la corazza dello scheletro e quindi in questo senso una struttura forte, aggressiva e penetrante. Se noi ribaltiamo questo concetto di anoressia nel campo della telematica vediamo che possiamo in questo modo rappresentare la smaterializzazione, la dematerializzazione dell'oggetto dell'arte che tende in questo senso ad essere penetrante e ad entrare negli spazi domestici, mettendo in crisi e discussione la statica architettonica del museo e delle gallerie. Dunque la telematica sviluppa un'idea di spazio felicemente precario.

Che cos'è l'installazione, la videoinstallazione, se non uno spazio vaporizzato strutturabile e destrutturabile che può essere ogni volta ricostruita a seconda dell'invaso architettonico entro cui va a posarsi? Quindi in questo senso l'idea di arte totale, quale precipitazione multimediale e interdisciplinare, espressione di sincretismo linguistico. Che cos'è l'installazione se non la capacità, l'astuzia dell'arte di attraversare quest’epoca di smaterializzazione dominata dalla telematica? Ecco che la videoinstallazione diventa quella che possiamo chiamare la casa dell'arte. Casa dell'arte ma non un habitat che ha come referente il radicamento territoriale della civiltà contadina; la casa quale alveo materno, archetipo definitivo, indistruttibile, ferocemente mediterraneo, da cui si viene e a cui si ritorna, ineluttabile, ineludibile e direi anche inossidabile. La casa dell'arte è una casa precaria, è una casa mobile che ha più a che fare con un'altra tematica che mi è molto cara che è quella della diaspora dell'arte.

L'artista è nomade, è artista che opera attraverso un linguaggio che non è radicato a una tradizione autarchica, circoscritta geograficamente, ma è la sintesi, la conseguenza di una memoria culturale che è stratificata in senso verticale ed ampia in senso orizzontale. Attraverso il linguaggio, attraverso materiali smaterializzati, vaporizzati, impalpabili, ecco che l'artista costruisce la sua casa dell'arte. Una casa montabile e smontabile, come le tende del nomade nel deserto, che protegge l'artista ma non lo blinda come una trincea né gli assicura sopravvivenza definitiva. Egli ha bisogno di una casa mobile, in cui sostare e da cui partire. 

Non a caso il video, nel momento in cui si intreccia con l'installazione, assicura un clima che non è nè diurno nè notturno; è quel clima che io chiamo del dormiveglia, uno stato ambiguo, uno stato di abbandono e di lucidità, uno stato intermedio, ambivalente, strabico e complesso. Ecco che allora la casa dell'arte appartiene più alla cultura della diaspora, di un eterno movimento a cui l'artista per scelta si abbandona ma non in maniera passiva, come chi subisce il destino tragico imposto da altri. Per questo motivo questo termine va adoperato al plurale, “diaspore dell'arte”, per evitare anche il ricatto di un termine di cui bisogna avere un grande rispetto in quanto ci ricorda il destino tragico del popolo ebraico e anche di altri popoli, che hanno subito, costretti, la diaspora. Ovvero abbandonare il territorio materno, il luogo di nascita, di sviluppo e direi di estensione della propria peripezia esistenziale.

Le diaspore dell'arte assicurano laicità al significato di questo termine e designano anche la scelta dell'artista, un destino necessario e progettato dall'artista stesso. Ecco che allora la videoinstallazione diventa il luogo di incontro non solo dell'artista che ha progettato questo spazio vaporizzato, ma anche lo spazio di un appuntamento col sociale, con lo spettatore, immesso all'interno non con uno sguardo passivo, bensì con la peripezia del proprio corpo, con l'attività motoria della propria struttura psicosensoriale. Ecco che allora la casa dell'arte diventa lo spazio dell'oasi, là dove trovano insieme sosta, beneficio, accoglienza, direi anche bevande, l'artista e lo spettatore stesso. Un luogo dove sostanzialmente ci si può abbandonare allo spettacolo e anche al riposo, riposo inteso in questo senso come sosta fomentata dalla qualità vaporizzata dello spazio.

E in tal senso allora “Conservare l'inconservabile” significa poter montare e smontare l'opera, significa poter depositare il progetto dell'artista nell'archivio della memoria e risuscitarlo quando ce n'è bisogno.

E proprio qui io trovo coincidenza tra la videoinstallazione e la telematica. E qui che io trovo possibile un confronto dignitoso, non patetico, tra la casa dell'arte e la forza penetrante della telematica che spesso aiuta lo spazio domestico del singolo, ma lo può anche passivizzare; invece la casa dell'arte è uno spazio attivo, che dà protagonismo, non solo allo spettatore ma identità all'artista che la ha progettata. Di quale progetto noi parliamo? Non certo del progetto abitato ancora dalla superbia razionalista dell'artista degli anni venti e trenta, una superbia generosa, supportata dal concetto di utopia, un'utopia che nel suo significato doveva già dare coscienza all'artista che si trattava di un non-luogo.

Ecco che l'artista è consapevole che l'arte è un non-luogo a procedere. Perciò la videoinstallazione lavora tra utopia e distopia. Allora la videoinstallazione diventa lo spazio del riscatto, diventa la prova che si possa ancora praticare il concetto di progetto. Ma si tratta di un progetto dolce, un progetto che non può oggi riversare all'esterno la forza aggressiva dell'artista che vuole positivamente dare un ordine morale al mondo. E invece la prova di uno spirito resistenziale, di una capacità costruttiva del linguaggio di organizzarsi in maniera delicata e non autoritaria.

Contro l'uso indiscriminato, potenzialmente autoritario della telematica, l'artista è quello che propone le proprie suppellettili al servizio della fantasia, dell'immaginazione e dell'unica avventura possibile per transitare nel terzo millennio.



PUBBLICO E DINTORNI

La multimedialità non potrà mai mettere in discussione l'Arte perché come modello è visibile e rintracciabile già nella storia dell'arte, semmai potenziarla.

Basti pensare ai manifesti delle avanguardie storiche, ai grandi artisti del secolo, a Wagner, il grande padre delle avanguardie, all'arte del passato, alla prospettiva rinascimentale, al Palazzo Spada, al colonnato di Borromini, già spazio virtuale, per la ridotta lunghezza reale rispetto a quella rappresentata.

Dunque la virtualità era stata già elaborata concettualmente senza l'assistenza, la protesi della tecnologia, già presente nell'iconografia dell'arte occidentale. Finanche nella caverna di Lescaux si può rintracciare un tipo di figurazione ed un'impronta che può ricordare il computer. Se la scuola forma e la televisione informa, l'arte non forma o informa alcunché: l'arte vive nella sua autonomia, complessità, formazione linguistica e non ha alcuno scopo, l'arte non comunica nulla, nel senso che per comunicare ha bisogno del suo terminale che è il pubblico.

Il pubblico viene spesso sottovalutato come terminale, visto sempre come il punto che non ha rilevanza strutturale nella produzione dell'arte e questo è un errore. Visto solo come un valore simbolico che dà statuto di realtà all'opera, all'immagine realizzata dall'artista.

Il pubblico in un museo, a teatro o al cinema non è semplicemente il terminale a cui bisogna comunicare necessariamente il messaggio, ma piuttosto rappresenta un elemento strutturale di un sistema, quello che io chiamo sistema dell'arte. Che si sviluppa nella civiltà contemporanea attraverso una divisione del lavoro. Essa comporta l'artista con il suo strappo linguistico dal tessuto codificato della storia dell'arte e della storia dei linguaggi, il critico che dà spesso visibilità a questo strappo attraverso una lettura critica o una capacità di diffusione, il mercante che vende l'opera, il gallerista che l'espone, il museo che gli dà cornice storica, il collezionista che, pro domo sua, attraverso lo scambio del denaro si appropria dell'oggetto e lo conserva per una fruizione solipsistica, personale, solitaria e privata, i mass-media specializzati che pubblicizzano l'arte e il pubblico che la consuma e la contempla.

Nessun critico, credo, si sia mai posto il problema del pubblico, stabilito che l'opera non può essere sottoposta alle ipotetiche trasformazioni della televisione di Stato o di quella commerciale, e che l'opera d'arte non può rimanere scioccata dagli eventi politici: l'opera d'arte conserva il frutto dell'elaborazione linguistica di cui, in maniera artigianale, l'artista è il demiurgo e l'elaboratore. Alla fine il prodotto viene consegnato all'esterno senza un processo di controllo della creatività.

Alcune volte l'artista è un errore biologico rispetto all'opera d'arte nel senso che essa ha una complessità a futura memoria che lo stesso artista non riconosce: quanti artisti si sono suicidati disperati di non riuscire a raggiungerla nemmeno attraverso il duplicato, per una nostalgia verso la perfezione?

Van Gogh realizzò la prima opera di body-art, per disperazione si tagliò l'orecchio e lo diede a Gauguin, consegnandosi ad un altro artista e riconoscendone una grandezza che forse nella storia dell'arte non è riconosciuta.

Dunque l'artista dimentica a memoria i procedimenti tecnici che adopera. Ecco che già sottraiamo l'arte, l'operazione creativa alla dittatura del discorso sulla telematica, tecnologia, elettronica, cibernetica ecc.

L'arte sviluppa un procedimento complesso, realizza un prodotto particolare dotato di una forma di strabismo, ambiguità, ambivalenza: essa scavalca il presente e cavalca il futuro.
L'artista non ha consapevolezza completa di ciò che ha realizzato, la complessità diversifica il prodotto artistico rispetto a quello televisivo, dove l'input lineare risponde ad un servizio e tende a creare una sorta di piazza telematica fondata sulla somma delle solitudini dei consumatori.

Se si pensa che la casalinga può rimanere a casa e attraverso la televisione ordinare via cavo la propria spesa; se si pensa pure che i teleutenti cattolici in America hanno già creato le macchine in cui introducendo i denari possono confessarsi e c'è anche lo scontrino con la penitenza che devono scontare in base ai peccati confessati. Ecco che si stabilisce un rapporto aulistico, analitico con la telematica, una ristrutturazione del corpo del consumatore: sostanzialmente la telematica tende ad assottigliare non solo il corpo dell'arte ma anche del consumatore, proprio perché la funzione dell'informazione diventa assolutamente asettica, neutrale e il più possibile oggettiva.

L'arte può avere una funzione riparatoria nel senso che può conservare all'uomo-utente il suo apparato psicosomatico, perciò deve misurarsi con il pubblico. L'identità artistica la sviluppa l'artista mentre quella culturale il sistema dell'arte, il plusvalore, il valore aggiunto che l'opera acquista attraverso la solidarietà professionale di altri soggetti autonomi, protagonisti della propria creazione. Il pubblico non è più quello generazionale, monoculturale, specializzato che va nelle gallerie private, nelle biblioteche, nei luoghi di formazione come i cosiddetti cenacoli di una volta, nei salotti culturali.

Bisogna affrontare un doppio tipo di pubblico, quello che io ho definito il pubblico indiretto e il pubblico istantaneo. Il pubblico indiretto è proprio quello non specializzato, intergenerazionale, interculturale, transnazionale. La transnazionalità è sotto gli occhi di tutti: oggi a Berlino vivono trecentomila turchi; è chiaro che il concetto di nazionalità non può essere collegato a un parametro di stanzialità, articolato e sottoposto ad una positiva contaminazione linguistica, culturale ed antropologica.

Come a casa si può cambiare canale e decapitare il protagonista di qualsiasi programma televisivo, questa volubilità, questa ipersoggettività falsa che la telematica incentiva nello spettatore, sviluppa automaticamente una richiesta di presenza spesso al limite del presenzialismo del soggetto pubblico, a cui si deve concedere strutturalmente la possibilità di muoversi attraverso varie opzioni diversificate. C'è un titolo bellissimo adoperato da Giovanni Macchia a proposito di Leopardi, “Il viaggiatore immobile” (lui lo diceva in termini positivi), che in termini negativi potrebbe stigmatizzare molto bene la definizione dello spettatore telematico.

La volubilità di cui ho parlato prima, la mobilità ottico-percettiva dello spettatore incentivata dalla televisione, ha sempre più sviluppato quel concetto di disattenzione che Walter Benjamin ci ha insegnato da oltre cinquant'anni attraverso L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. Ma se c'è uno scivolamento del soggetto verso una percezione sempre più giocata sulla disattenzione in tutti gli spazi, anche quelli urbani, c'è la possibilità di un aggancio e di lavorare su un'oscillazione tra attenzione e disattenzione.

Il pubblico istantaneo è quello che si può catturare attraverso un evento multimediale, una strategia espositiva: il pubblico oggi si muove attraverso un'attenzione nei confronti del macroevento espositivo e performativo e anche attraverso un'attenzione di microeventi esistenziali che si svolgono al proprio interno. Chi vede la televisione, si alza, risponde al telefono, si distrae anche se il pubblico sulla carta sembra strutturalmente avere un rapporto con essa non narrativo (anche se la televisione produce sempre drammi, telegiornali, storie, film commerciali attraverso una trama con un inizio ed una fine). Malgrado questo il pubblico entra ed esce, cioè ha una mobilità verso le strutture rigide e impressionanti della televisione.
La televisione viene dunque percepita in un'oscillazione tra attenzione e disattenzione. Allora perché non strutturare una sorta di spazio dove lo spettatore sia messo di fronte alla propria responsabilità, partecipazione al macroevento e dissipazione costruttiva, positiva, erotica, di rapporto e contatto?

Questo spazio è affollatissimo di un pubblico di tutte le generazioni, laureati e non, disoccupati, diplomati; estremamente variegato. Ecco il pubblico istantaneo, quello che si forma anche attorno ad un incidente automobilistico, per esempio, dove per strada tutti si fermano e dopo un po' scompaiono, si vaporizzano. Come l'evento che determina l'assembramento. Di questo pubblico non si conosce l'identità, in quanto partecipa senza attrezzatura. Si deve fare i conti con un pubblico che non è, ne per necessità deve essere attrezzato. Il problema della comunicazione a questo punto è fondamentale, che però non significa necessità multimediale a tutti i costi



COMUNICAZIONE

La comunicazione a questo punto scatta; anche l'interattività sia in positivo che in negativo, che in ogni caso l'arte ha sempre sviluppato.

Per esempio nel quadro di Holbein I due ambasciatori, dipinto attraverso una struttura geometrica perfetta, centralità prospettica, c'è un siluro che viaggia nell'aria e, per capire cos'è, ci si deve porre in una posizione di lateralità per vedere un cranio che vola nell'aria: c'è la morte che vola, in questo spazio di grande decoro dove i due ambasciatori sono vestiti per un perfetto dialogo diplomatico. Ecco che l'interattività già esisteva, nel senso che se si vuole aiutare il pittore a decifrare la sua opera, ci si deve fisicamente dislocare in un certo punto, in una posizione di lateralità.

L'arte non è minacciata dalla televisione. La tecnologia è una protesi che può sviluppare un particolare tipo di sensibilità, ma ogni prodotto è frutto di un'elaborazione e ogni elaborazione comporta l'applicazione di tecniche strumentali che sviluppano un tipo di incidenza che è e può essere strutturale. Mentre l'arte alla fine produce un'immagine, un segno, una realtà linguistica che, come un siluro - il teschio di Holbein - viaggia nello spazio e nel tempo.

Mentre prima con l'arte il desiderio era quello di passare alla storia, purtroppo con la telematica il desiderio si è molto ristretto e passa solo alla geografia. Ormai viviamo non più in un sistema di democrazia ma di telecrazia, dove l'arte trova la sua ragione d'essere nel ruolo di etica resistenza della complessità contro la semplificazione dei mass-media. La durata del tempo contro il consumo dell'istante.

Achille Bonito Oliva
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