home > extended play

Extended Play

Pattern Recognition

Mario Carpo



[in english] Metamorfosi è una parola chiave della nostra cultura figurativa dopo un decennio di innovazione digitale. Le forme prodotte da tecnologie meccaniche sono fisse, stabili e solide. Le forme prodotte da tecnologie elettroniche sono volubili. Cambiano e si trasformano incessantemente, talvolta per scelta, talvolta per caso. Questa differenza epistemica fra le forme dell'universo meccanico e le forme dell'universo digitale è inerente alle due tecnologie: il mondo meccanico produce oggetti; il mondo elettronico produce sequenze di numeri, a loro volta generatrici di oggetti.

[05mar2006]
Secondo la filosofia neoplatonica del Rinascimento, le idee abitano una gerarchia di cieli ordinatamente sovrapposti al nostro mondo sublunare: ogni cielo corrisponde a un pianeta e a un più alto livello di generalità dell'idea. Quando le idee attraversano l'ultimo cielo per discendere nella materialità dell'atmosfera terrestre si incarnano in un'infinità di eventi diversi, che tuttavia conservano una matrice comune – non più una forma ma, per Ficino e Pico, una formula, un'idea attenuata. Anche i file numerici, come essenze neoplatoniche, vivono in cieli cui non abbiamo accesso e, per diventare eventi concreti, devono negoziare il loro passaggio attraverso vari mediatori dell'esperienza sensibile, che oggi si chiamano interfacce. Ogni interfaccia è diversa e il risultato finale, l'epifania materiale offerta alla nostra percezione, non è mai del tutto prevedibile. Dipende da macchine, sistemi, reti, ed entro certi limiti, dalle scelte personali dell'utilizzatore.

Ma il prodotto finale di un processo digitale non è mai un prodotto finito. È sempre l'epifania occasionale ed effimera di un processo algoritmico che può generarne altri, in numero illimitato e tutti diversi, intenzionalmente o imprevedibilmente. L'articolo in alto a sinistra della pagina A5 di uno stesso giornale, nello stesso giorno e nello stesso luogo è lo stesso per tutti i lettori. Ma la stessa pagina web aperta simultaneamente dallo stesso browser in due computer diversi produrrà nella maggior parte dei casi due immagini più o meno simili, ma non identiche – anche se il testo alfabetico può essere lo stesso. I caratteri grafici, la taglia, l'impaginazione, i colori, la quantità di testo presenti simultaneamente sullo schermo dipendono da così tanti parametri che due visualizzazioni identiche della stessa pagina web sono piuttosto l'eccezione che la regola. Inoltre, il contenuto stesso della pagina (ad esempio la pubblicità) sempre più spesso cambia e si adatta automaticamente in funzione e spesso all'insaputa dell'utilizzatore.

Queste mutazioni imprevedibili sono per alcuni uno stimolo creativo, per altri uno strumento di lavoro, per altri una noia. Non tutte le metamorfosi di un contenuto digitale possono essere completamente controllate dall'autore, cosa che non senza ragione alcuni autori deplorano, e varie tecnologie sono state inventate con lo scopo preciso di evitare questa deriva imprevedibile – e nel campo figurativo, per congelare l'immagine e obbligare ogni utilizzatore a consultare composizioni grafiche visivamente identiche. Il formato PDF della società Adobe ® utilizza le tecnologie del web per trasmettere in effetti fotocopie elettroniche – fax spediti via Internet. Non senza successo: evidentemente, la nostra civiltà non può più fare a meno della rigidità inflessibile della pagina tipografica – epifania meccanica per eccellenza. La pagina tipografica è una pagina topografica: la standardizzazione dei luoghi che compongono la matrice di stampa è indispensabile a varie operazioni su cui si fonda la prevedibilità ufficiale della vita moderna – formulari, tariffe, documenti legali, francobolli, timbri, targhe.




Greg Lynn, prototipi per Alessi Coffee and Tea Towers (2001). Copyright Greg Lynn Form.


I moduli per la dichiarazione dei redditi devono essere identici per tutti (anche se teletrasmessi da un sito web), perché la riga 33A-14 dev'essere per tutti a pagina 7. Fatto che prova in maniera determinante come la dichiarazione dei redditi non potesse esistere prima della diffusione della stampa a caratteri mobili: perfino nell'era elettronica, gli uffici delle imposte sono costretti a utilizzare le tecnologie più sofisticate per ridurre la volubilità ectoplasmatica delle immagini digitali alla fissità meccanica dell'immagine a stampa. I siti web dei vari ministeri e servizi nazionali che si occupano del pagamento delle imposte sono vere opere d'arte elettronica, e l'emulazione digitale della macchina di Gutenberg perfezionata negli ultimi anni dalle burocrazie degli stati moderni avrebbe entusiasmato Marshall McLuhan: l'uomo tipografico è a tal punto integrale allo stato moderno che lo stato moderno, anche dopo l'adozione delle tecnologie elettroniche, è costretto a rendere perenne la mimesi del mondo tipografico. (1)

Beninteso, la variabilità generativa che è propria delle tecnologie digitali ha già cambiato in maniera significativa le forme architettoniche, il disegno industriale e più in generale la forma esteriore e visibile del nostro ambiente costruito. E non è che l'inizio. La storia dell'ascesa delle tecnologie elettroniche nella concezione e nella produzione di oggetti e forme architettoniche non è ancora stata scritta, e forse non dovrebbe esserlo ancora per qualche tempo. In un primo momento, verso la fine del decennio trascorso, l'attenzione dei progettisti si è concentrata sulle possibilità formali offerte da funzioni continue generate da algoritmi matematici, che i computer manipolano facilmente. La matematica di queste operazioni è essenzialmente la matematica dell'infinito e degli infinitesimi – il calcolo differenziale; non sorprendentemente, questa prima maniera dell'architettura digitale è caratterizzata da forme fluide, curve e continue e da geometrie complesse (in particolare, geometrie topologiche) che possono essere descritte da funzioni matematiche, visualizzate sullo schermo e materializzate in tre dimensioni da tecnologie file-to-factory (stereolitografia, rapid prototyping, ed altri utensili di produzione a controllo numerico). (2)

Conformemente al modello digitale, un solo algoritmo può generare un'infinità di funzioni matematiche e di forme o superfici diverse, che avranno tutte in comune l'algoritmo invisibile che le ha generate ma anche, nella maggior parte dei casi, qualche attributo visibile che ne denota la matrice comune. Data la variabilità continua del processo generativo, la costruzione materiale di un prototipo richiede che il processo sia bloccato su un'istantanea immobile, e che solo questa istantanea, isolata e separata dalla sequenza cui appartiene, venga materializzata e costruita in tre dimensioni. Secondo questa logica, ogni prodotto è un pezzo unico. Ma questa logica cambia se più segmenti della stessa sequenza vengono costruiti l'uno dopo l'altro. In questo caso, la logica diventa quella di una produzione in serie, ma una serie di pezzi unici: tutto il contrario della logica meccanica, dove la produzione in serie, per definizione, riproduce parti identiche. Questo è il nuovo paradigma della produzione digitale, e grazie in particolare all'esposizione omonima organizzata dal Centre Pompidou a Parigi l'inverno scorso, questo modo di produzione è oggi spesso detto "non-standard". (3)

Un'altra espressione in uso da qualche anno è "mass-customization", che ugualmente denota la produzione in serie di pezzi unici. (4) Questa definizione è un ossimoro rispetto ai principi tradizionali della riproducibilità meccanica, ma descrive precisamente i nuovi principi della riproducibilità elettronica. In una serie non-standard ciò che conta non è la forma del prodotto in serie, ma la differenza fra i prodotti della serie. Dato che le prime sperimentazioni di concezione e produzione digitale in architettura utilizzavano in priorità matematiche differenziali e geometrie topologiche, molte forme architettoniche dette non-standard tendono ancor oggi ad essere tonde. Ma la rotondità non è un attributo essenziale delle tecnologie non-standard. Al contrario, considerare il non-standard come un principio formale può confondere.


Haresh Lalvani, The Column Museum (1999). Da: Haresh Lalvani, "Meta-Architecture," AD, Architectural Design, Hypersurface Architecture II, vol. 69, 9-19, 1999, Profile 141, guest ed. Stephen Perrella: 32-37. Fig. 4, p. 35. Copyright Haresh Lalvani. Computer modeling, Neil Katz; Computer rendering, Mohamad Al-Khayer.

Il termine non-standard non descrive forme, ma un modo di produzione. Questo modo di produzione, grazie alle tecnologie digitali, produce in serie oggetti diversi – tondi o angolari, sferici o cubici, lisci o ruvidi, piatti o piegati. La forma degli oggetti 1 o 2 o 3 della serie è irrilevante; ciò che importa è che gli oggetti 1, 2 e 3 sono diversi fra di loro – e ciò malgrado, prodotti in serie. Uno degli esempi più eloquenti di produzione non-standard all'esposizione parigina, la celebre teiera progettata da Greg Lynn per Alessi, sintetizza in un prototipo più aspetti dei nuovi modi di produzione. Ma l'esposizione di un solo oggetto (al Beaubourg, una sola teiera in una teca in vetro) rischia di tradire lo spirito del progetto: infatti, il prototipo di una serie non-standard non è l'oggetto, ma l'intera serie – in questo caso, novantanove teiere tutte diverse e nello stesso tempo simili, perché prodotte in serie utilizzando la stessa tecnologia e lo stesso algoritmo generativo (come al Beaubourg spiegava la voce fuori campo registrata dell'autore, e come meglio si evince dai saggi pubblicati nel catalogo). (5)

La concezione e produzione numerica di serie non-standard rivoluziona il concetto di serialità e anche la nozione stessa di riproducibilità cui siamo abituati da cinque secoli di cultura meccanica. Nel mondo meccanico la produzione in serie genera economie di scala, a condizione che i prodotti in serie siano identici. La riproduzione identica è il prezzo, per così dire, delle economie di scala. Grazie alla produzione in serie (ad esempio, alla catena di montaggio) si producono oggetti di qualità costante e a minor costo. Ma tutti i prodotti che escono dalla stessa catena di montaggio sono identici. Questo postulato è l'ipostasi dell'ideologia modernista che ha ispirato, in positivo o in negativo, gran parte del XX secolo. La replica identica ("standardizzata", come si diceva nel secolo scorso) può piacere o non piacere, e la produzione in serie può rappresentare per alcuni un ideale ugualitario, per altri un incubo totalitario. Ma in difesa della logica dello standard i modernisti del XX secolo potevano invocare un argomento oggettivo: indipendentemente da ogni ideologia e dal gusto personale, la standardizzazione era allora un imperativo morale. Standardizzare permetteva di produrre meglio e a minor costo. Un'architettura standardizzata avrebbe dato a tutti una casa, così come in America la produzione in serie aveva dato a quasi tutti un'automobile. Incidentalmente, la stessa automobile per tutti: non più fatta su misura, ma fatta in serie. Come sembra Henry Ford abbia detto, il cliente poteva ancora sceglierne il colore, a condizione che fosse nero.

Possiamo ancora amare la riproduzione identica, o detestarla, per gli stessi motivi ideologici estetici o sociali che sono sempre esistiti e continueranno a esistere. Ma la giustificazione morale della standardizzazione modernista non vale più. Grazie alle tecnologie digitali, oggi possiamo produrre in serie, automaticamente, oggetti diversi o identici indifferentemente ed allo stesso costo unitario. In breve, produrre in serie oggetti diversi non costa più caro che riprodurre copie identiche. Per il momento questo principio si può applicare solo a piccoli oggetti e per piccole serie, ma si generalizzerà. Ed in teoria il principio è già acquisito: la logica modernista dello standard, con i suoi presupposti economici, tecnologici ed etici, è già stata archiviata. Peggio, se applicata al contesto tecnologico attuale, la logica modernista può portare a scelte sbagliate. Ma il dovere morale di sfruttare tutte le potenzialità della tecnologia attuale per produrre meglio e a minor costo rimane. A che servono le tecnologie non-standard? Che uso possiamo farne? Perché, e per chi?



NUOVI STANDARD. Tutti i prodotti di una serie non-standard sono diversi, ma entro certi limiti. Gilles Deleuze, che aveva anticipato il problema molti anni fa (in un libro, Le pli: Leibniz et le baroque, che, non per caso, è stato molto influente per un'intera generazione di architetti e teorici americani) (6) avrebbe detto che la variazione in una serie non-standard è inscritta nel paradigma objet-objectile: una stesso objectile innerva infiniti objets diversi che conservano tuttavia una matrice comune. (7) Oltre ai limiti inerenti ai programmi informatici, le variazioni in una serie non-standard sono determinate dal tipo di macchine utensili che possono essere integrate in una catena di produzione a controllo numerico. Ma questi limiti fisici sono temporanei, e saranno progressivamente dislocati da macchine più grandi, più efficaci e più versatili. Al contrario, i limiti inerenti al programma informatico sono di natura epistemica, e probabilmente propri a questo modo di produzione: la serialità non-standard dipende per definizione da una matrice algoritmica comune a forme diverse. Questa condizione di riproducibilità implica un'analoga e corrispondente condizione di riconoscibilità: tutti i prodotti di una serie non-standard sono diversi ma in qualche modo si assomigliano. Cos'hanno in comune? Tecnicamente, un algoritmo matematico. Ma percettivamente, è difficile dire. La somiglianza di due forme visive è un mistero che nessuna tecnologia è riuscita a quantificare, nessuna scienza cognitiva è riuscita a descrivere, e nessuna filosofia è riuscita a definire.

La tradizione classica per secoli ha perfezionato l'arte dell'imitazione (letteraria o visiva). Cos'hanno in comune l'archetipo e la copia? Se la copia è ben fatta, come prova il celebre topos di Zeusi e delle vergini di Crotone, nessuno può dire. (8) La somiglianza della copia all'archetipo è una quintessenza indefinibile, un certo qualcosa, un nescio quid. La copia ben fatta assomiglia al modello come il figlio al padre: si vede bene che si assomigliano, ma non si può dire perché né in cosa. Il naso? La bocca? Niente in particolare – è l'insieme che conta. La psicologia della forma nel secolo scorso ha cercato di chiarire la questione, così come varie altre scienze cognitive presenti e passate – senza molto successo. Il problema è cruciale per molte applicazioni attuali dell'intelligenza artificiale: malgrado investimenti colossali dell'industria, e particolarmente dell'industria militare, le macchine non hanno ancora imparato a riconoscere i volti. Né a identificare due immagini simili, né a decifrare un'immagine incompleta, se non per interpolazione di diagrammi geometrici elementari (come nel caso di un'impronta digitale). Naturalmente, da qualche decennio si sa che il figlio e il padre hanno in comune un'impronta genetica, ma la scienza continua a ignorare il mistero morfogenetico della trasformazione dello stesso codice chimico in due volti diversi ma simili. Allo stesso modo, benché a un livello più elementare, perché opera umana e non della natura, due oggetti prodotti e formati dallo stesso algoritmo si assomigliano in qualcosa che l'occhio avvertito può rilevare, e la matematica può dimostrare – ma la formula matematica non è leggibile nell'oggetto, e l'oggetto non la svela.

Vari modelli di automobili attualmente in commercio sono stati progettati e costruiti utilizzando le stesse tecnologie digitali, e in qualche caso gli stessi programmi. Infatti, in qualche caso particolarmente evidente la curvatura di certe lamiere o plastiche di automobili anche di marche diverse si assomigliano – una volta si sarebbe detto che due automobili hanno la stessa "linea", o che sembrano disegnate dalla stessa mano. Ma in cosa precisamente consiste la somiglianza? Un ingegnere potrebbe probabilmente risalire alla funzione matematica comune a una certa famiglia di forme (ad esempio: in questo programma, la terza derivata di una certa curva, usata in particolare per..., è sempre inferiore a...); ma in primo luogo, e nella maggior parte dei casi, il riconoscimento della somiglianza si fa a occhio, come l'esperto riconosce lo stile di un pittore, una calligrafia, o due nasi – veri o dipinti. Pattern recognition: l'intelligenza umana riconosce una struttura generativa invisibile comune a due forme visibili diverse. Per il momento questa operazione è una nostra prerogativa, che le macchine non hanno ancora imparato.

I nuovi standard della produzione digitale non sono fondati sulla riproduzione di forme visibili, ma sulla trasmissione di algoritmi invisibili. Per questo, i nuovi modi di riconoscimento nel mondo digitale non saranno più fondati sulla ricerca dell'identità, ma della somiglianza. Se questa può sembrare una rivoluzione rispetto alla cultura visuale in cui siamo cresciuti e a cui siamo abituati, in termini storici non è una novità. Per secoli, prima della standardizzazione dell'immagine meccanica all'inizio dell'età moderna, siamo vissuti in un mondo algoritmico e normativo, non visuale e ripetitivo.




Haresh Lalvani, Prototipi di colonne e superfici in lamiera realizzati con Milgo-Bufkin (1997-99). Da: Haresh Lalvani, "Meta-Architecture," AD, Architectural Design, Hypersurface Architecture II, vol. 69, 9-19, 1999, Profile 141, guest ed. Stephen Perrella: 32-37. Fig. 3, p. 34. Copyright Haresh Lalvani. Sviluppo del progetto da Milgo, Bruce Gitlin e Alex Kveton; Foto Robert Wrazen.

DALL'ALGORITMO AL CLICHÉ, E RITORNO. In un celebre articolo pubblicato per la prima volta nel 1942, Richard Krautheimer aveva studiato le molte repliche medievali di un archetipo celebre, la chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme, per arrivare alla conclusione che queste repliche erano tutte diverse le une dalle altre, e tutte diverse dall'originale. Eppure nel Medioevo erano considerate simili, e riconosciute come copie. Krautheimer concludeva suggerendo che questo fenomeno dovesse essere messo in rapporto con un'attitudine astratta e simbolica caratteristica della cultura medievale, e in particolare di una cultura dell'immagine in cui l'identificazione puramente visiva non era determinante: segni diversi potevano essere riconosciuti come simboli della stessa cosa. (9) Alla frontiera fra due mondi, è nell'opera di Leon Battista Alberti, umanista moderno formato dalla scuola medievale, che il paradosso di un'imitazione (o riproduzione) non visuale nel campo delle arti figurative assume un'evidenza particolare, in qualche caso quasi drammatica.

Il Sacello, o Edicola del Santo Sepolcro, nella chiesa di San Pancrazio a Firenze, attribuito ad Alberti, è stato costruito, sembra, fra il 1456 e il 1467. L'idea del committente, Giovanni Rucellai, di far costruire un sepolcro "simile" a quello di Cristo (in realtà, di Giuseppe di Arimatea) a Gerusalemme è suggellata dall'iscrizione sopra l'entrata ("sacellum ad instar iherosolimitani sepulchri"), datata appunto 1467. Alberti sapeva bene cos'è una replica identica: la ricerca della riproducibilità esatta è uno dei cardini teorici e ideologici dell'intera opera albertiana, nelle scienze, nella tecnica e nelle arti. Eppure, come nei molti casi studiati da Krautheimer, anche in questo caso l'archetipo e la copia, pur avendo in comune alcune proporzioni e schemi geometrici e un nome, visivamente non si assomigliano. Non risulta che Alberti sia mai stato a Gerusalemme, e si può presumere che quasi nessuno a Firenze avesse visto l'originale: i pellegrini dell'epoca non spedivano cartoline illustrate (e non tornavano dalla Terra Santa con taccuini illustrati: le prime immagini degli edifici di Gerusalemme furono pubblicate a Roma e a Firenze all'inizio del XVII secolo). Ma non si può neanche presumere che Alberti e il suo committente volessero ingannare il pubblico con un falso facsimile. Se nessuno aveva visto l'originale del Sacello del Sepolcro a Gerusalemme, molti dovevano aver visto innumerevoli repliche dello stesso costruite ovunque in Occidente (così come Alberti doveva conoscere bene quella trecentesca nella chiesa di Santo Stefano a Bologna). E queste repliche erano tutte diverse. Se ne conclude che ancora alle soglie dell'età moderna il valore simbolico, l'identificazione e il riconoscimento di una forma architettonica non dipendessero necessariamente dalla conformità visuale. Tutte queste repliche erano visivamente diverse, eppure – anche per Alberti, uno dei primi moderni, e uno dei fondatori della cultura moderna dell'immagine – tutte queste forme diverse potevano significare la stessa cosa. (10)

Alberti è uno degli inventori del sistema moderno degli ordini architettonici. Ma gli ordini che Alberti definisce nel suo trattato di architettura, De re aedificatoria, non sono modelli visivi. Concepito per una diffusione manoscritta, il testo del De re aedificatoria non è illustrato, e come Alberti insiste, non può né deve esserlo. La posterità non ha ascoltato, ma per Alberti, conformemente allo spirito e alla lettera del metodo retorico e architettonico delineato nel trattato, gli ordini non sono immagini: gli ordini albertiani sono in primo luogo una definizione normativa e una serie di regole di composizione, morfologiche e proporzionali. Oggi diremmo, un algoritmo. La forma visibile che ne risulta è in parte aleatoria, perché le stesse norme possono determinare forme architettoniche parzialmente diverse: in termini deleuziani, un solo objectile in molti oggetti; in termini aristotelici (con cui Alberti sarebbe stato più familiare) una sola forma in molti eventi, o le varie specie di uno stesso genere. Pochi anni più tardi, ma in un contesto culturale e tecnologico non ancora dominato dalla diffusione dell'immagine a stampa, il cosiddetto trattato di architettura di Francesco di Giorgio (che esiste in più versioni elaborate nel corso di più di un decennio) illustra bene le conseguenze visuali di un simile approccio algoritmico e generativo: le parti degli ordini illustrate da Francesco di Giorgio sono presentate in capriccioso disordine, un'accumulazione di esempi che potrebbe continuare teoricamente ad infinitum – forme tutte diverse e tuttavia identificate da alcuni attributi comuni. Solo qualche decennio più tardi, nei manuali a stampa illustrati del XVI secolo, la regola degli ordini diventerà un catalogo di forme standard, pre-disegnate, ready-made. (11)


Francesco di Giorgio. MS Saluzziano 148, fols. 15v-16r. Torino, Biblioteca Reale. Copyright Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

Ma all'inizio dell'età moderna, e alla vigilia della diffusione del libro stampato, il modo di produzione delle forme architettoniche privilegiava ancora modelli algoritmici e generativi, non facsimilari e iterativi; e il modo di identificazione dei segni architettonici dipendeva ancora dal riconoscimento di forme simili, non dall'individuazione di forme identiche. Pattern recognition: questo è il principio operativo che ha ispirato la cultura visuale d'Occidente dall'antichità classica fino alla diffusione delle immagini a stampa all'inizio dell'età moderna. E l'immagine a stampa non si è limitata a standardizzare il linguaggio degli ordini architettonici. In un certo senso, è l'intera capacità umana di associare significati e immagini (di identificare, quindi di semantizzare segni non alfabetici) che è stata sottoposta a un processo di standardizzazione. Nei limiti di una stessa serie di stampa, ed eccezion fatta per varianze accidentali o marginali, un'immagine a stampa è la replica identica di uno stesso cliché – sempre la stessa, la stessa per tutti. Ma da questo segue che se l'immagine cambia di poco, il significato cambia del tutto. Nel mondo algoritmico la ricerca di somiglianze, o il riconoscimento di strutture nascoste (pattern recognition) permettono di conferire lo stesso senso a segni diversi che hanno qualcosa in comune; nel mondo facsimilare, dove ogni replica è per definizione visivamente identica alla matrice, se un segno ha un significato un altro segno, anche solo marginalmente diverso, ha un altro significato – o non ne ha.

Come nel caso degli ordini architettonici, le immagini a stampa hanno trasformato imprese, blasoni, emblemi e stemmi di famiglie, città, corporazioni e altre istituzioni medievali in stereotipi visuali: destinati alla riproducibilità identica, non significano più nulla se la loro forma si altera. Gli eredi di questa metamorfosi tipografica sono i logo, i marchi commerciali e i marchi di fabbrica che caratterizzano il corporate branding contemporaneo – e perfino le bandiere e gli emblemi nazionali, da cui dipende l'identificazione di uno stato o di un esercito in armi. C'è una certa logica nel fatto che il disegno del passaporto di un paese europeo sia oggi un marchio registrato – cioè uno standard visuale. Dopo tutto, il termine "standard" deriva etimologicamente da "étendard", da cui ad esempio l'italiano "stendardo": lo standard era all'origine una bandiera che identificava un gruppo di soldati in armi. È ancora così, ma i soldati di oggi devono anche fare attenzione alla riproduzione grafica precisa di ogni insegna o emblema nazionale, fino ai caratteri tipografici utilizzati per le targhe dei carri armati, ai distintivi sulle uniformi, e beninteso al disegno e al colore della stessa uniforme (che, come il termine "uniforme" suggerisce, non ammette variazioni individuali): un soldato senza un'uniforme riconoscibile non è protetto dalla Convenzione di Ginevra.

Il mondo pre-tipografico non conosceva la standardizzazione dei segni visibili. Il Senato e il popolo romano non legiferavano sul disegno delle insegne delle legioni, su cui pennuti di forme diverse assolvevano indifferentemente la stessa funzione simbolica: in ogni caso, tutti sapevano che l'insegna della legione era un'aquila. Analogamente, il mondo post-tipografico perderà gran parte del valore semiotico (e per certi versi quasi totemico) che la cultura commerciale attuale continua ad attribuire all'identicità facsimilare. La riproduzione elettronica ci riporterà probabilmente in un universo algoritmico simile a quello che ha preceduto la diffusione dell'immagine a stampa: in questo caso, dovremo riacquisire varie tecniche di pattern recognition che cinque secoli di cultura tipografica ci hanno quasi fatto dimenticare. Dovremo imparare nuovamente a riconoscere somiglianze, analogie e prossimità visuali; e dovremo dimenticare, almeno in parte, il culto feticistico per l'identicità che è ancora oggi perpetuato dall'industria culturale. La storia prova che questo cambiamento è in un certo senso un ritorno, dunque a priori non impossibile. Resta da provare che sia necessario.



ECONOMIA DEI NUOVI STANDARD. La produzione non-standard è oggi spesso considerata una moda, un eccesso o un lusso insensato. La personalizzazione di un prodotto industriale può sembrare una vanità e uno spreco di risorse tecnologiche e creative. Al contrario, rispetto alle tecnologie meccaniche del passato, la logica non-standard può in molti casi portare a prodotti migliori e a minor costo.




Objectile (Patrick Beaucé, Bernard Cache). Living Factory Project. Tables Projectives (2003). Copyright Objectile.


Evidentemente, è difficile provare che la produzione in serie di 99 teiere diverse comporti economie significative di qualunque natura. Ma quella serie, come si è suggerito, è un prototipo. Sovente i creatori sono costretti ad anticipare la logica di un modo di produzione non ancora maturo a una scala puramente dimostrativa. Tecnologie simili potranno presto essere applicate, anziché a un servizio da tè, a grandi strutture di ingegneria. Oggi le componenti prefabbricate di ponti e volte sono per la maggior parte sopradimensionate, perché la prefabbricazione permette di ottenere economie di scala e facilità di assemblaggio solo a condizione di riprodurre parti identiche: la dimensione della sezione più sollecitata determina le altre, e in tutte le altre sezioni della stessa componente strutturale gran parte del materiale è sprecato. Quando si potranno produrre in serie componenti strutturali fatte su misura ma allo stesso costo unitario, ogni elemento di una grande struttura di ingegneria potrà utilizzare tutto e solo il materiale indispensabile in quel punto preciso. Nello stesso tempo, la forma della struttura potrà adeguarsi al diagramma delle sollecitazioni, e seguire geometrie più varie e complesse del trilite in precompresso (o in America, di travi a I) cui siamo abituati. (12) Le grandi strutture ridiventeranno opere d'arte, come erano un secolo fa, quando il materiale da costruzione era raro e l'intelligenza abbondante (ora è il contrario).

E a una scala più domestica, chi può ancora permettersi il lusso di ordinare mobili fatti su misura? I falegnami non esistono più, e i pochi che esistono ancora sono artisti del legno. In un'epoca non lontana la costruzione di mobili su misura era ancora una possibilità – e in qualche caso, una necessità. Ma l'unità di misura modulare della residenza più o meno permanente dello studioso di oggi, da Vancouver a Mosca, è una libreria prodotta da IKEA. Se questo trend dovesse continuare, in un giorno non lontano le case degli studiosi e degli studenti ovunque nel mondo saranno costruite in funzione di multipli o sottomultipli interi dello scaffale Billy. Al contrario, le nuove tecnologie digitali permettono già oggi la produzione in serie ma su misura di mobili semplici come tavoli o librerie – prodotti a scala industriale e a costi industriali, ma con parametri variabili e teoricamente diversi per ogni cliente. E in effetti, la "tavola proiettiva" presentata da Bernard Cache alla stessa esposizione parigina già citata è un'interpretazione un po' più sofisticata di questo stesso principio. (13) Accanto al prodotto, Bernard Cache ha esposto al Beaubourg il processo produttivo: uno schermo ordinatore su cui il cliente può scegliere vari parametri, fra cui le dimensioni. L'ordine arriva istantaneamente in fabbrica (file to factory) e il mobile è consegnato il giorno dopo.

Ai due estremi della scala dimensionale nella produzione dell'ambiente costruito, questi due esempi suggeriscono come in molti casi le nuove tecnologie digitali siano già oggi più convenienti delle vecchie tecnologie meccaniche. A un certo punto, lo stesso principio si imporrà verosimilmente ad altre scale del processo produttivo: la produzione in serie industriale di prodotti di forma diversa e fatti su misura migliorerà la qualità e diminuirà il prezzo di molti oggetti architettonici, oggetti tecnici e manufatti diversi, comprese probabilmente le camicie, che non saranno più ridotte a una gamma di quattro taglie (S, M, L, XL) – un paradigma, come si ricorderà, singolarmente influente per la storia delle teorie architettoniche della fine del secolo scorso. Ma il vantaggio economico e funzionale delle tecnologie non-standard, che sembra dimostrato, è solo uno dei termini in gioco.

Un cambiamento tecnico-sociale di questa importanza può avvenire solo se un vantaggio economico collettivo è accompagnato da un consenso ideologico. Le nuove forme generate dalle tecnologie non-standard dovranno essere accettate culturalmente. A una nuova condizione di riproducibilità dovrà corrispondere una nuova condizione di riconoscibilità, da cui dipende in definitiva il valore stesso degli oggetti in un'economia di mercato. Nel mondo meccanico, alla logica della riproducibilità esatta corrisponde l'identificabilità di forme identiche. Nel mondo algoritmico (pre-tipografico o digitale), alla logica della varianza produttiva corrisponde la riconoscibilità di somiglianze e di schemi astratti (pattern recognition).

Nell'ultimo romanzo di William Gibson, Pattern Recognition, la protagonista, un consulente pubblicitario, è afflitta da un'insolita condizione medica: un'allergia a ogni logo commerciale. Nel corso del romanzo, che a tratti assume il ritmo di un thriller, la protagonista cercherà di rintracciare gli autori di una misteriosa opera d'arte digitale – un universo visivo in cui i segni di identificazione non sono forme riprodotte identicamente, ma algoritmi nascosti o parzialmente invisibili – da cui il titolo. (14) In un'installazione dei due architetti Diller e Scofidio, esposta ancora recentemente al Museo Whitney di New York, un caleidoscopio di marchi commerciali proiettato su uno schermo è sottoposto a un processo di deformazione continua (morphing) che trasforma impercettibilmente un marchio in un altro. (15) Vari marchi commerciali famosi appaiono brevemente sullo schermo in dissolvenza incrociata in una sequenza di forme in movimento costante. Ma nel tempo soggettivo della nostra percezione il marchio famoso rimane impresso più a lungo, perché è il solo momento significante in una serie di immagini senza senso. A partire da quando, precisamente, il segno si svela ed emerge dal disegno indistinto, prima di velarsi e scomparire di nuovo? Quando assistevo alla proiezione, nella stessa sala un gruppo di adulti e, stranamente, di bambini stavano giocando allo stesso gioco – pattern recognition. Sistematicamente, i bambini riconoscevano i marchi commerciali (Coca-Cola, ma anche Nintendo, Intel, Microsoft...) prima dei loro genitori.

Osservazione occasionale e non generalizzabile, ma non sarebbe illogico se il livello di pattern recognition dei giovani di oggi avesse già superato quello dei loro genitori. Gli adulti di oggi si sono formati in un universo facsimilare e meccanico, e sono quindi portati in primo luogo all'identificazione di forme identiche. I giovani di oggi si sono formati in un universo elettronico e algoritmico, e sono con ogni probabilità più abituati al riconoscimento di forme simili estrapolate da immagini variabili, mutanti, imprecise o incomplete.

Il futuro della produzione non-standard dipenderà non solo dai vantaggi economici e tecnologici che presto o tardi porteranno i nuovi sistemi a sostituire i vecchi, ma anche da un nuovo equilibrio fra identificazione di forme e riconoscimento di somiglianze che presto o tardi ispirerà un nuovo universo visivo. Dopo cinque secoli di cultura tipografica, questo equilibrio è oggi dominato da procedure meccaniche di identificazione facsimilare. Nel nuovo contesto digitale i processi di pattern recognition riassumeranno probabilmente la stessa importanza che avevano nel mondo pre-tipografico. E c'è una certa ironia nel fatto che la nuova cultura delle macchine – ma una cultura di nuove macchine, che Lewis Mumford avrebbe chiamato neotecniche – avrà, oltre a tante altre conseguenze, anche quella di riformare la percezione, che tornerà a essere ciò che in un certo senso è sempre stata, con l'eccezione del plurisecolare interludio tipografico: non un'operazione meccanica ma un'estensione organica dell'intelligenza umana.

Mario Carpo
NOTE:

1. McLuhan commentava nel 1967: "This process whereby every new technology creates an environment that translates the old or preceding technology into an art form, or into something exceedingly noticeable, affords so many fascinating examples I can only mention a few" (M. McLuhan, The Invisible Environment, in "Perspecta", 11, 1967, pp. 163-167: 164).
2. Cf. M. Carpo, Ten Years of Folding, in Folding in Architecture, a cura di G. Lynn, prefazione alla riedizione, London, Wiley and Sons, 2004 (1a ed. 1993), pp. vii-xiii.
3. Architectures non standard, catalogo della mostra (Parigi, Centre Pompidou, 10 dicembre 2003-1 marzo 2004), a cura di F. Migayrou e Z. Mennan, Paris, Éditions du Centre Pompidou, 2003.
4. Cfr. W.J. Mitchell, Antitectonics: The Poetics of Virtuality, in The Virtual Dimension. Architecture, Representations, and Crash Culture, a cura di J. Beckmann, New York, Princeton Architectural Press, 1998, pp. 205-217: 210-212 ("Craft/Cad/Cam") e note relative; Id., E-topia. Urban life, Jim, but not as we know it, Cambridge, Ma.-London, The Mit Press, 1999, pp. 150-152 ("Mass Customization") e note relative.
5. Più precisamente, un servizio da tè e da caffè (Alessi Coffee and Tea Towers: cfr. G. Lynn, Variations calculées, in Architectures non standard, cit., p. 91). Il progetto originale prevedeva 50.000 variazioni, di cui 99 realizzate, oltre a tre copie d'autore (cfr. le informazioni commerciali fornite da Alessi spa).
6. G. Deleuze, Le pli: Leibniz et le baroque, Parigi, Éditions de Minuit, 1988 (ed. ing.: The Fold: Leibniz and the Baroque, prefazione e traduzione di T. Conley, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1993).
7. G. Deleuze, Le pli…, cit., p. 26.
8. Cfr. Plinio, Nat. Hist., XXXV, 64; Cicerone, De Invent., II, 1; Senofonte, Memorabilia, III, 10, 2. Il topos di Zeusi rimarrà centrale nell'estetica del classicismo rinascimentale e nelle arti figurative almeno fino a Bellori (Idea, 1672).
9. R. Krautheimer, Introduction to an "Iconography of Medieval Architecture", in "Journal of the Warburg and Courtauld Institutes", V, 1942, pp. 1-33 (2a ed. riveduta in Id., Studies in Early Christian, Medieval, and Renaissance Art, New York-London, 1969, pp. 115-150). Le tesi di Krautheimer sono sgradite ad alcuni medievalisti contemporanei.
10. Giovanni Rucellai racconta in una lettera di aver spedito a sue spese un ingegnere e una squadra di aiutanti a Gerusalemme, perché ne tornassero con il "giusto disegno e misura" del Sacello del Sepolcro di Gerusalemme, con lo scopo di farne riscostruire un altro "a quella simiglianza" nella chiesa adiacente al palazzo di famiglia. Questa lettera è oggi ritenuta falsa, ma è stata per secoli ritenuta vera, ciò che prova che se non era vera, era almeno verosimile. Cfr. M. Carpo, Verbatim. Paradigmi dell'imitazione architettonica all'inizio dell'età moderna, comunicazione presentata al convegno Palladio e le parole, Vicenza, Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, settembre 2002; di prossima pubblicazione negli Atti del convegno; Id., Alberti's Media Lab, comunicazione presentata al convegno Perspective, Projections, Projet. Techniques de la représentation architecturale, Tours, Centre d'études supérieures de la Renaissance, 12-14 giugno 2003, di prossima pubblicazione negli Atti del convegno.
11. Cfr. M. Carpo, L'architettura dell'età della stampa, Milano, Jaca Book, 1998 (trad. ing. rivista, Architecture in the Age of Printing: Orality, Writing, Typography, and Printed Images in the History of Architectural Theory, Cambridge, Ma.-London, The MIT Press, 2001).
12. Cfr. G. Lynn, Classicism and Vitality, in Shoei Yoh, a cura di A. Iannacci, Milano, L'Arca Edizioni, 1997, pp. 13-16, 67-70.
13. Cfr. Objectile, B. Cache, P. Beaucé, Vers une architecture associative, in Architectures non standard, cit., 2003, pp. 138-139. Gli autori osservano: "nous avons pu expérimenter des situations où l'implementation de cette logique de composants dans un projet non standard a pu générer des gains de productivité d'un facteur 100 [...]. Ce n'est d'ailleurs qu'à la condition expresse de gains de productivité de cet ordre que l'expression "architecture non standard" a un sens" (ibidem, p. 138).
14. W. Gibson, Pattern Recognition, New York, G.B. Putnam's Sons, 2003.
15. E. Diller, R. Scofidio, Pageant, (1997), in Scanning: The Aberrant Architecture of Diller + Scofidio, a cura di A. Betsky et al., New York, The Whitney Museum of American Art, 1 marzo-25 maggio 2003.
Questo saggio è stato originariamente pubblicato in Focus. Vol. 3 of Metamorph. Catalogo della 9. Biennale Internazionale d’Architettura, Venezia 2004, curata da Kurt W. Forster. Venezia e New York: Marsilio e Rizzoli International, 2004, 44-58.

 

Per qualsiasi comunicazione
 è possibile contattare la
redazione di ARCH'IT


laboratorio
informa
scaffale
servizi
in rete


archit.gif (990 byte)

iscriviti gratuitamente al bollettino ARCH'IT news







© Copyright DADA architetti associati
Contents provided by iMage