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Bernard Cache.
Negli universi della precisione

Marco Brizzi
  Bernard Cache è autore di numerosi saggi di teoria dell'architettura. Nel 1995 ha pubblicato per MIT Press il volume Earth Moves e successivamente "Terre Meuble" per l'editore francese Hyx. Sulla rivista ANY e su ARCH'IT ha pubblicato In difesa di Euclide. Con Patrick Beaucé ha fondato Objectile, atelier per la progettazione di oggetti di produzione industriale dalle forme complesse e non standardizzate come espressione delle tecnologie digitali. Con questa intervista rilasciata nel gennaio 2000, Cache sottolinea alcuni aspetti della sua ricerca recente.





Pavillon Semper, 1999
MARCO BRIZZI: Il rapido sviluppo della digitalizzazione ha portato l'architettura, in una prima fase, verso interessanti speculazioni teoriche, mettendo spesso da parte la ricerca sulle metodologie e le applicazioni pratiche. La tua attività insiste in particolar modo sulla necessità di stabilire un rapporto diretto con le fasi produttive dell'architettura. Quali sono gli intenti della tua ricerca e come cambiano, in questo senso, le possibili interpretazioni dell'architettura digitale?

BERNARD CACHE: A dire il vero, il mio interesse nelle nuove tecnologie mi appare come una conseguenza logica della teoria dell'architettura, così come l'insegnavano Vittorio Gregotti o Manfredo Tafuri. Era anche naturale, lavorando con un filosofo "machiniste" come Gilles Deleuze, interessarsi da vicino alle macchine reali. Mi stupisce ancora vedere quanti giovani degli anni Settanta si sono precipitati sulla comunicazione piuttosto che approfondire l'analisi dei rapporti di produzione. Credo che la digitalizzazione della comunicazione non sia altro che un epifenomeno in confronto a quello che succederà quando la produzione sarà divenuta digitale. Ci sono ancora delle persone che credono che l'informazione possa sussistere fuori della materia, come uno spirito senza corpo. Da qui l'assimilazione della virtualità alla smaterializzazione. Quando invece quello che sta avendo luogo è un processo all'interno del quale è la materia che diviene sempre più intelligente, in cui i nostri oggetti, il nostro inquinamento incorporeranno sempre più informazioni. In architettura, la focalizzazione dell'interesse sulle tecnologie di rappresentazione non ha fatto altro che approfondire il divorzio tra una pallida architettura quotidiana estetizzata dalla computer grafica, ed un'architettura d'avanguardia svincolata da qualsiasi referente sia urbano sia storico. Credo che ci sia una via intermedia tra i cubi limpidi e le navicelle interstellari, che hanno come ottica comune il "ray tracing". L'aberrazione di questa situazione si vede ancora meglio nelle scuole d'architettura dove fioriscono progetti sprovvisti di qualunque realtà. La terza via tra il cubo ed il blob (1) ci è indicata dalla possibilità effettiva dei rapporti di produzione sulla base delle macchine a controllo numerico. E quando si parla di rapporti di produzione si tratta di un insieme di cose al di là della tecnologia. Sicuramente, esiste il problema della struttura delle macchine (3 o 5 assi), della loro velocità, ma accanto a questi fatti materiali, esistono problemi. Problemi creativi: in che modo i software che generano i percorsi degli utensili permettono di raggiungere altri obiettivi, diversi da quelli di natura meccanica? Economici: quali sono le combinazioni di costi fissi e di costi variabili che permettono di pensare ad una produzione industriale d'oggetti non standard? Giudiziari: come stabilire la responsabilità degli incidenti nel caso in cui la generazione dei programmi non e più affidata alla fabbrica ma agli stessi designer? Commerciali: come fare a stabilire una trasparenza dell'informazione sui tempi di produzione in modo che gli architetti possano essi stessi giungere a dei preventivi? La risposta a questo tipo di problemi determina la misura in cui possiamo incurvare il cubo senza cadere nel blob.

[31jan2000]



Musée Semper, 1998.
 
In questa prospettiva di concretezza numerica, l'architettura potrà probabilmente riconsiderare il suo rapporto con la qualità materiale, elaborando forme complesse che attraverso l'intervento meccanico raggiungeranno elevati livelli di precisione. Tutto quello che l'architettura della prima età della macchina aveva in qualche modo smarrito potrà essere rimesso in discussione…

Molto giusto. Credo che uno dei concetti più interessanti su cui lavorare oggi sia quello della tessitura 3D. Occorre rendersi conto che questo aspetto resta escluso dall'attuale campo dell'informatica. Per esempio, quando si rappresenta un muro di mattoni con un software CAD, quella che si produce è un'illusione di 3D, realizzata con la mappatura di un disegno 2D usata per coprire la forma 3D. È questo problema che, dall'inizio, abbiamo cercato d'aggirare con Objectile. Di fatto, molto rimane ancora da fare perché la potenza dei computer di oggi non permette di calcolare tessiture 3D. Questa è la ragione per cui, molto spesso, Objectile non può rappresentare i suoi progetti se non sotto forma di simbolizzazione tecnica, come può essere il percorso dell'utensile di una macchina a controllo numerico. Ovviamente, l'informatica attuale non fa che rinforzare il paradigma delle superfici lisce, che apparve per via dei processi industriali d'estrusione del metallo o del vetro, ma anche per tutta una seria di altre ragioni come l'igienismo e la volontà di controllo. Come diceva Nietzsche: "Cresce, il deserto". È oggi possibile cambiare paradigma e sostituire quello della modulazione a quello dell'estrusione. È possibile ritornare ai valori che suggeriva Gottfried Semper quando parlava del tessile come della tecnica più primitiva all'origine delle altre belle arti. Ma questa origine è sempre da ri-definire.

Sempre più connessa con sistemi di controllo tecnico e produttivo, l'immagine digitale dell'architettura si sbarazza rapidamente della sua dimensione rappresentativa per diventare qualcosa d'altro: il modello digitale non riassume soltanto la possibilità di controllare il progetto e il suo livello di qualità geometrica, ma anche il sistema delle sue infinite serie di possibili varianti. Quale universo architettonico tende a configurarsi in questo modo, e che ruolo acquista in questo senso l'immagine nei confronti dell'oggetto?

Avrei due livelli di risposta. Il primo è che, alla fine, l'integrazione delle tecnologie di produzione fa sì che l'uso del computer possa in effetti essere sollevato dall'obbligo della rappresentazione. Sono sempre rimasto sorpreso dal fatto che le scuole d'architettura hanno integrato molto velocemente un programma come "Photoshop" piuttosto che programmi di fabbricazione. Per un certo periodo la rappresentazione realistica ha dato l'impressione che ci si fosse dimenticati della crisi della rappresentazione avvenuta all'inizio del secolo. D'altra parte, anche in pittura esiste un movimento di rivalutazione della rappresentazione, che era iniziato con la Nuova Oggettività e continuato con l'iperrealismo. Sono convinto che questo ritorno alla rappresentazione costituisca una tendenza di fondo e che, molto probabilmente, dovremmo tenerne conto anche in architettura. Per questo andranno ricordate le esperienze di architetti come Friedrich Schinkel sui diorama o quelle di Semper sull'iconografia dei due Musei di Vienna. Ma direi che questo ritorno non puo essere pensato senza integrare una distanza critica nei confronti dell'immagine. Questa distanza è totalmente mancata nel campo dell'immaginario informatico, al punto che oggi non si possa che distogliere lo sguardo davanti alla maggior parte delle immagini numeriche.




Pavillon Semper, 1999.
La distanza critica esercitata sulle immagini potrà quindi misurare, in modo solo apparentemente paradossale, l'abilità che gli architetti del ventunesimo secolo avranno nei confronti della più concreta e più esatta materia del costruire? Qual è, infine, il tuo punto di vista sul rapporto tra la ricerca nel digitale che si compie negli Stati Uniti rispetto all'Europa, e quali le risorse tecniche e culturali che tu riconosci nella ricerca europea?

Questo non è un paradosso, ma la continuazione di un'attitudine che risale all'Alberti. Ricordiamoci il capitolo 1 del libro II, che credo importante riprodurre integralmente perché sia letto con attenzione:

"Tra l'opera grafica del pittore e quella dell'architetto c'è questa differenza: quello si sforza di far risaltare sulla tavola oggetti in rilievo mediante le ombreggiature e il raccorciamento di linee ed angoli; l'architetto invece, evitando le ombreggiature, raffigura i rilievi mediante il disegno della pianta, e rappresenta in altri disegni la forma e l'estensione di ciascuna facciata e di ciascun lato servendosi di angoli reali e linee non variabili: come chi vuole che l'opera sua non sia giudicata in base a illusorie parvenze, bensì valutata esattamente in base a misure controllabili. È dunque opportuno costruire modelli del tipo suddetto, ed esaminarli e vagliarli a più riprese sia per conto proprio che con altri, finché non sia un solo particolare di cui non si sian determinate la natura..."

Questo ci dice l'Alberti. Nell'esatto momento in cui la costruzione legittima comincia ad essere compresa, s'instaura questa distanza critica o questa diffidenza per quanto riguarda suo uso architettonico. In effetti, il nodo del problema giace nella parola latina "lineamenta" che è il titolo del libro primo. Numerosi autori hanno già insistito sul fatto che il suo significato corrisponda a qualcosa di "meno ampio" e, allo stesso tempo, "più specifico" dell'italiano "disegno". Nella traduzione italiana, Giovanni Orlandi scrive una nota dicendo di rinunciare alla parola "progetto" perché nei capitoli successivi, l'Alberti stesso fa un uso restrittivo del termine.

Tuttavia, credo che un testo come il De re aedificatoria possa essere reinterpretato alla luce del nuovo significato della parola "modello" alla quale si riferisce l'Alberti per spiegare quello che intende per disegno architettonico. Di fatto, oggi usiamo la parola "modello" non tanto per indicare la costruzione di un prototipo materiale, ma l'elaborazione di un programma prescrittivo che ci permette:

1. una costruzione geometrica esatta e non più sfaccettata, grazie ai modellatori esatti come "Parasolid"
2. lo stabilirsi di relazione parametriche che consentono all'oggetto di variare secondo diverse ipotesi, grazie ai motori variazionali come "D-cube"
3. la generazione del codice Iso per la fabbricazione esatta dell'oggetto con macchine a controllo numerico.

Personalmente sono sorpreso di vedere fino a che punto, questa definizione estremamente contemporanea della parola "modello" coincide con quello che l'Alberti ha scritto 500 anni fa. Si tratta di una prova, se ve ne fosse ancora bisogno, che il "computer" non è un oggetto volante non identificato atterrato in una rimessa californiana. È dunque molto strano vedere come gli architetti europei, e specialmente quelli latini, rimangono lontani dal dibattito sull'architettura digitale. Non solo questa recente evoluzione ha le sue radice più profonde nella tradizione rinascimentale, ma se guardiamo quali sono le società che sviluppano i programmi "Parasolid" o "D-cube" scopriamo che esse sono inglesi e non americane. Se inoltre cerchiamo le più importanti società che sviluppano le tecnologie a controllo numerico troviamo nomi italiani come "CMS" o "Biesse". Essendo francese, quasi mi vergogno a ricordare che tra i programmi CAD più avanzati troviamo almeno tre società con capitali francesi: Catia, Solidworks e TopSolid. Considerando la grande importanza dell'informazione nel mondo contemporaneo, il divorzio tra cultura e tecnologie sarebbe la nuova forma di suicidio inventata dagli europei.
 

Toro smontato.

NOTA:

(1) Per blob intendiamo quei volumi informi che si referiscono, da più o meno lontano, ai paradigmi culturali della fantascienza, come la navicella spaziale o il mostro extraterrestre. Questa parola non deve affatto essere associata con il lavoro di Greg Lynn, la cui posizione è molto piu sofisticata.

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