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La realtà aumentata di Flavia Sparacino

di Luca Marchetti

Flavia Sparacino arriva a Parigi da Cambridge, (USA) dov'è ricercatrice presso il Massachusetts Institute of Technology. Ha appena presentato alcuni progetti ad IMAGINA, appuntamento che ogni anno porta in Francia il meglio dell'immaginario digitale. All'auditorium del Louvre invece, è invitata insieme ad una videomaker e un architetto per presentare alcuni contributi delle tecnologie digitali alla scenografia.

[09mar2000]

Innanzi tutto cos'è la "realtà aumentata"? Qualcuno tra il pubblico teme un altro slogan da cultura pop come "realtà virtuale", un'etichetta ormai difficile da impiegare senza provare un po' di imbarazzo visto che oggi rinvia indifferentemente tanto ai lavori degli architetti digitali del Paperless Studio che ai prodigi televisivi della Playstation. Poi tutta la polemica sui pretesi effetti alienanti del mondo virtuale ha completato l'opera di confezionamento di un significato sempre più ambiguo (in tutti sensi), tanto che "realtà virtuale" non rimanda più a niente di preciso al di là di un passatempo da teenager, poco più notevole dell'ecstasy o della musica techno. Qualunque sia l'opinione di Sparacino sulla realtà virtuale, la "realtà aumentata" non cerca di costruire dimensioni parallele o mondi alternativi. Al contrario, l'idea di partenza è proprio la realtà più concreta del nostro quotidiano e la possibilità di potenziarla con scopi mirati. "Realtà aumentata" significa che Il reale potrebbe essere, al bisogno, più denso di informazione, di sensazioni e di possibilità di quanto non sia esperibile comunemente attraverso la nostra sensorialità. I progetti presentati a Parigi da Flavia Sparacino condensano una serie di ricerche che la sua équipe di ricerca ha condotto e continua a condurre all'interno del MIT su quest'idea di "aumento". Attraverso dispositivi tecnologici indossabili (wearable computers) e applicando le più recenti ricerche delle scienze cognitive sulla percezione, l'ipotesi di questo gruppo di ricerca è di fornire una percezione più integrata di esperienze diverse come la visita di un museo o di uno spazio architettonico.



Wearable Cinema.






L'uso di una “memory map”. Il wearable lancia dei video clip interattivi in funzione dei movimenti del soggetto al SIGGRAPH 99’s Millennium Motel.

Cos'è il wearable. Essenzialmente è un dispositivo dalla struttura molto semplice che permette di indossare un apparato tecnologico insieme ai comuni abiti. Il prototipo "wearable" che abbiamo visto a Parigi è di fatto una giacca con integrati un microprocessore, un sistema sensibile in grado di identificare lo spazio, una tastiera sensibile al tocco disposta sulla manica della giacca e un display ad alta risoluzione a colori, montato su occhiali speciali che permettono di vedere allo stesso tempo display e ambiente circostante. La tecnologia, spiega Flavia, potrebbe così diventare parte integrante del nostro vestiario, potrebbe seguirci durante la giornata ed avere un impatto radicale sulla nostra percezione della realtà.

Wearable Cinema è un progetto che sfrutta il computer indossabile per trasformare una visita del museo in un'esperienza potenzialmente indistinguibile dalla visione di un film o di una rappresentazione teatrale. Il museo è il luogo ideale per la sperimentazione dello spazio aumentato perché prevede come elementi da fondere insieme una struttura-contenitore, una serie di opere-contenuto ed un percorso logico da far seguire ai visitatori. Spesso la possibilità dell'integrazione tra questi fattori è ignorata, anche se i grandi musei con collezioni particolarmente ricche o disomogenee hanno escogitato visite guidate su supporti diversi come la cassetta audio da ascoltare in cuffia che fornisce a chi visita informazioni sull'edificio, un limitato background delle opere, ecc. Oppure esistono documentari audiovisivi che offrono un'esperienza ancora più completa e lineare dotata di ritmo e musica ma fruibile sempre in un momento diverso dalla visita reale al museo.

Il passo successivo dovrebbe essere la possibilità di integrare la visione del documentario alla visita in tempo reale. Attraverso il wearable è possibile costruire, durante la visita, un filtro percettivo che permette il monitoraggio costante dell'imput (l'ambiente) e la generazione dell'output (la realtà aumentata) secondo un vero e proprio modello del visitatore che prende in conto gli scopi della visita, le connessioni logiche tra gli elementi, l'impatto emotivo ecc. Una telecamera incorporata al wearable è in grado di riconoscere la presenza del visitatore in luoghi determinati o in relazione ad oggetti particolari. Grazie all'interazione tra il materiale audiovisivo contenuto nel wearable e lo spazio architettonico catturato in tempo reale il visitatore ha una vera e propria "esperienza cinematica situata (...) nell'architettura che lo contiene" . In questo modo la memoria complessa (artistica, storica, sociale, estetica...) di cui lo spazio è portatore può essere "interpretata" attraverso l'intervento tecnologico che di fatto può esplicitarne i valori declinandoli trasformandoli in un'esperienza concreta secondo le molteplici possibilità dei linguaggi multimediali.





City of News, un browser 3D che ricosctruisce dinamicamente un paesaggio urbano dell'informazione.
Unbuilt Ruins è un ambizioso tentativo di comunicazione progettuale architettonica dedicato ad otto progetti irrealizzati di Louis Kahn. Il progetto non si serve dei dispositivi wearable, ma realizza quella stessa intuizione di "spazio aumentato" del progetto precedente. Realizzato con l'architetto Kent Larson, questo prototipo museale è stato pensato per ridurre al minimo lo spazio necessario all'esposizione dei progetti e per integrare in una visione più organica una quantità considerevole di materiale frammentario ed eterogeneo. I disegni dei progetti di Kahn sono proiettati dall'alto su una tavola quadrata sormontata da una telecamera e da un proiettore. Sulla tavola si trovano anche otto maquettes molto semplificate dei progetti presentati ciascuna delle quali può essere identificata attraverso un dispositivo digitale connesso ad un computer capace di elaborare l'immagine in tempo reale. Attorno alla tavola sono sistemati quattro grandi schermi su cui sono proiettati rendering iperrealisti degli otto progetti di Kahn. Quando un visitatore prende una delle maquettes e la posiziona al centro della tavola la camera la riconosce e si attiva una proiezione sulla tavola del progetto relativo a quella maquette.

Contemporaneamente sulla tavola compaiono anche aree colorate coniche corrispondenti al punto di vista dell'osservatore se si trovasse dentro il progetto e nel punto indicato dalla maquette. Sugli schermi invece, compaiono quattro immagini delle quattro viste che l'osservatore avrebbe trovandosi nella costruzione realizzata nel punto indicato dalla maquette sulla tavola. L'idea è molto semplice, la realizzazione spettacolare. Nell'integrazione tra progetto cartaceo e rendering si trova l'intenzione di colmare quell'aporia tra rappresentazione tradizionale e realizzazioni progettuali attraverso le nuove tecnologie che ancora fa giocare la polemica - spesso inutile - sul virtuale in architettura. Non sarà la sinergia dei due linguaggi la soluzione alla ricerca dell'efficacia comunicativa?

Ce lo si chiede perché oggi uno dei nodi fondamentali, anche in architettura, diventa la comunicazione. Ha ragione Marie-Christine Loriers che sulle pagine di Techniques et Architecture constata il dilagare contemporaneo dell'architettura in tutti gli ambiti limitrofi, dalla moda alla danza. Si sbaglia forse quando invoca un "linguaggio comune" architettonico opposto a linguaggi "non propri all'architettura" ma in ogni caso individua il problema: un pubblico più allargato, ambiti d'azione ibridi, chiedono di confrontarsi con l'architettura che non sempre sa raccontarsi al di là della propria presenza fisica sul territorio. Invece le realtà "profane "che si avvicinano al sapere architettonico lo fanno proprio cercando quello che l'architettura è al di là di mattoni e calcestruzzo. La moda, il design, il teatro, la danza ed anche i media digitali cercano nell'architettura princìpi d'organizzazione dello spazio (fisico o virtuale poco importa), riflessioni sulle funzioni sociali, soluzioni di aggregazione della memoria, ecc. Occorre quindi che l'architettura cerchi una maniera di enunciarsi proficuamente per il suo nuovo pubblico di non addetti ai lavori. Non sembra molto promettente la ricerca di "un linguaggio comune". Questo "architetturese" non avrebbe quella funzione fondamentale di integrazione tra ambiti di interesse diversi; piuttosto, in una prospettiva più moderna - come ricordava recentemente in un breve intervento televisivo Paolo Fabbri - bisognerebbe prendere in conto il tentativo di tradursi realizzando quindi quello sforamento verso l'esterno che determina l'essenza della comunicazione (riuscita). Ecco perché è il caso di insistere ancora una volta sui "new media".

Per spiegare quanto sia difficile raccontare il progetto a parole basta ricordare da una parte che la traduzione verbale di codici iconici (quelli legati alla vista e all'analogia con il mondo naturale) è un cruccio annoso per la semiotica, dall'altra si pensi al lavoro di estensione dei limiti del "libro" portato avanti da architetti confrontati al problema della comunicazione cartacea come Koolhaas nel suo S,M,L,XL. Una strada per una comunicazione efficace dell'architettura può essere la convocazione di diversi saperi, diverse materie, diverse strategie nell'intento di simulare. Si tratta di simulare, accanto all'opera realizzata, soprattutto le sue componenti (astratte e concrete) ed i loro rapporti, selezionandoli ed esplicitandoli in scala ridotta. Mettere in scena il progetto prima di metterlo in opera. Dopotutto, tra inchiostri, foto, video e maquette il progetto è stato multimediale ben prima dell'attuale moda tecnologica. Non si capisce perché bisognerebbe rimettere in discussione proprio adesso l'approccio multi-mediale alla comunicazione in architettura. Proprio adesso che i media sono cresciuti in quantità e spesso in qualità, moltiplicando le soluzioni possibili. Quindi non sembra interessante porre il problema polemicamente in termini di "virtuale sì/virtuale no"; la scelta multimediale non implica un salto senza ritorno nel vuoto digitale e soprattutto non esclude a priori le metodologie tradizionali.

L'atteggiamento epistemologico più utile al lavoro nella contemporaneità può essere proprio la rinuncia a quella logica binaria secondo cui una soluzione scaccia l'altra. Le proposte di cui ci parla Flavia Sparacino sembrano aver trovato questa strada dialettica tra l'analogico e il digitale nella nozione di "aumento" percettivo, allo stesso tempo si pongono in linea con l'idea comunicativa di messa-in-scena, in altre parole di amplificare in un'esperienza sensibile quanto nell'opera (solo nel nostro caso architettonica) è virtuale.

Luca Marchetti
marchetti@tin.it


Wearable computer: jacket e display.
Flavia Sparacino

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