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A-topics, u-topics, eu-topics. La periferia e/è la città?

di Luigi Manzione


Un grand nombre, sinon la plupart, de ces choses ont été décrites, inventoriées, photographiées, racontées ou recensées. Mon propos (...) a plutôt été de décrire le reste: ce que l'on ne note généralement pas, ce qui ne se rémarque pas, ce qui n'a pas d'importance: ce qui se passe quand il ne se passe rien, sinon du temps, des gens, des voitures et de nuages.
Georges Perec, Tentative d'épuisement d'un lieu parisien, 1975




[24apr2000]
Scenario (al disotto delle nuvole)

Europa, fine millennio.
L'emergere del grande fenomeno della sotto-utilizzazione e dislocazione delle aree industriali ed infrastrutturali ha prodotto importanti vuoti urbani - aree dismesse e 'terrains vagues' - localizzati spesso ai margini di tessuti poco consolidati, nelle periferie delle grandi città. Spostandosi dai centri (più o meno storici) verso le periferie, la città scompare progressivamente, almeno nel senso tradizionale del termine. Un diverso tipo di formazione urbano-territoriale sembra qui sostituire la città: una formazione dispersa, sprovvista di identità e di relazioni gerarchiche nell'organizzazione degli spazi; un continuum che prende la forma di reti punteggiate da frammenti alla scala variabile tra architettura e infrastruttura (autostrade, stazioni, aeroporti, shopping mails). Ancora una volta l'America è il modello delle trasformazioni territoriali europee nell'epoca della diffusione generalizzata degli insediamenti.
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Una specie di non-città appare all'orizzonte. Al luogo, inteso come qualità centrale (morfologica e concettuale) della città consolidata, si oppone il non-luogo, nella nozione antropologica introdotta da Marc Augé, della metropoli diffusa e della città immateriale delle reti. I non-luoghi rappresentano lo scenario essenziale della sur-modernità. Il non-luogo coincide con l'hétérotopie (Michel Foucault): esso è un prodotto paradossalmente deterritorializzato, legato al transito piuttosto che alla presenza. E' un luogo nomade, se l'espressione può avere un senso.
(2)

E' oggi crescente la proliferazione dei non-luoghi. Essi vivono non più, come quelli della città consolidata, nella loro fisica presenza ed inconfondibile identità, ma nel tempo della percezione e dell'uso da parte del fruitore, un anonimo 'homo metropolitanus'. Sono luoghi non abituali, non permanenti ma, come qualsiasi oggetto di consumo, destinati a seguire il mutare periodico e l'esaurirsi delle tendenze collettive. Se i luoghi-monumento della città tradizionale esprimono la memoria del duraturo, i non-luoghi contemporanei esprimono, invece, il continuo trapassare dell'effimero (e di ciò si era già accorto alla fine dell'800 Charles Baudelaire - in Le peintre et la vie moderne -, definendo il primo scenario della modernità).
(3)

L'idea di 'città sedimentaria' - la città di pietra regolare e stratificata - propria della tradizione tipo-morfologica dell'analisi urbana italiana e francese a partire dagli anni 60 rimane certamente un elemento importante per l'interpretazione dei fenomeni della città compatta. Le categorie dell'analisi urbana classica si rivelano, tuttavia, inadeguate a comprendere lo sviluppo e la deriva delle periferie. Oggi, infatti, la periferia europea appare una entità caotica, indecifrabile, in radicale opposizione all'ordine e alla misura della città tradizionale. Gli strumenti teorici ed operativi che ci permettono di comprendere queste situazioni in rapida evoluzione sono ancora deboli e vagamente definiti.
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Un primo interrogativo si pone: è possibile la ricerca di un'interpretazione della periferia, non in opposizione alla città (del tipo: è periferia ciò che non è città), ma intendendo la periferia come una formazione avente una identità propria? E' qui in gioco proprio l'identità della periferia: da questa ricerca è necessario partire nell'analisi e nel progetto urbano. Nelle società a mutazione accelerata, dove le dimensioni degli habitat contemporanei sono di gran lunga superiori a quelle dei tessuti storici, la periferia assume un valore e una potenzialità spesso preminenti in rapporto al contesto dell'agglomerazione nel suo insieme. Reti infrastrutturali, diffusione metropolitana, ipercittà/non-città, non-luoghi, spazio atopico, crescita di tipo frattale, destrutturazione formale e sociale, autocostruzione/modificabilità/adattabilità, ibridazione: queste sono alcune delle parole-chiave che denotano i fenomeni della crescita urbana e territoriale. Anche nella profonda diversità dei processi in atto, esiste un comune denominatore: l'inclinazione al superamento della forma consueta della 'città di pietra', ossia la tendenza alla disseminazione insediativa che fa tabula rasa dei confini spaziali, ma anche etnici e culturali.




"Descrivere il resto"

Dirigere lo sguardo verso questo scenario è oggi ancora un atto difficile. La città nella sua evoluzione tipologica e morfologica - come urbs - e nel suo essere luogo di memoria e di identità - come civitas - si impone come una struttura leggibile e rassicurante (alla maniera cui ci hanno abituato le analisi di Kevin Lynch). Tutto ciò che è al di là di essa, caos e/o desolante coazione a ripetere di forme senza qualità, appare abnorme e inspiegabile. Per superare lo 'choc' dell'impatto con l'informe, occorre mettere da parte le attitudini dello sguardo abituale sulla città, cercando di andare altrove.

"Descrivere il resto", dal punto di vista dell'architetto e dell'urbanista, significa quindi osservare, analizzare, comprendere ciò che è al di là del già descritto, di ciò che si è ritenuto nelle maglie del disegno e della costruzione della città, oltre le carte e i piani. Qui dovrebbe dirigersi il nostro sguardo : verso un repertorio potenziale che attende ancora di essere esplorato, laddove le interpretazioni grafiche si intersecano con quelle antropologiche, con i modi di vita e con le espressioni dell'esistenza sociale nelle periferie.

Ancora sui passi di Georges Perec: "Ne pas voir les seules déchirures, mais le tissu (mais comment voir le tissu si ce sont les déchirures qui le font apparaître?)".
(5) Come andare al di là delle rotture di continuità, dei tagli, dei fuori scala, del collage involontariamente dadaista, della 'grande dimensione' che le periferie esibiscono, senza invocare la riproposizione esclusiva del modello della città storica, come si è fatto per troppo tempo? Come cominciare a leggere la logica, o le logiche specifiche, alla base dei nuovi insediamenti? La trasformazione delle periferie passa attraverso la loro interpretazione; ed è proprio questa interpretazione ad proporsi quale oggetto di riflessione. Diverse esperienze europee contemporanee sull'indagine dei fenomeni urbani e territoriali in mutazione convergono nel definire nuove modalità di osservazione e di descrizione. Si é parlato a proposito di queste di "atlanti eclettici",(6) aperti e plurali, raccolte e testi di varia natura (rilievi cartografici, documenti di progetto e di piano, reportages fotografici, descrizioni geografiche e letterarie, supporti multimediali e virtuali), assemblati secondo procedure fondate su criteri di pertinenza e coerenza locali. Leggere la periferia presuppone, dunque, la costituzione di un nuovo modo di vedere : e questo è esattamente ciò che si propongono gli "atlanti eclettici", secondo una prospettiva disciplinare in aperta rottura, specie in Italia, rispetto all'approccio tipo-morfologico (da Saverio Muratori ad Aldo Rossi).(7)




Fuori dal luogo, altrove

Alla centralità della città storica, con la sua gerarchia di luoghi definiti nel tempo, con i rapporti leggibili tra monumenti e tessuto, tra isolato-parcella-rete viaria, si contrappone la 'nuova centralità' dello spazio infrastrutturale della periferia. E' proprio questo spazio delle infrastrutture il referente e, insieme, il fondamento dell'identità della periferia. Alla pluralità delle accezioni terminologiche - 'città diffusa' (disperded city), 'exurbia', 'urban field', 'outer cities', 'non place urban realms', etc - corrisponde in fondo l'esistenza di un elemento comune: quello che è il monumento per la città, catalizzatore di paesaggi, eventi, memorie, lo è l'infrastruttura per la periferia. La rottura (più o meno epistemologica) nei modi di interpretare e trasformare la periferia deve necessariamente situarsi in questa presa d'atto.

Non più la struttura organizzata e organica della 'città di pietra', il degradare dei suoi luoghi centrali, le differenze morfologiche e socio-economiche tra i suoi diversi quartieri (come già nel primo ventennio del 900 la 'scuola ecologica' nord-americana di Park e Burgess poneva in evidenza negli studi su Chicago), ma un nuovo paesaggio della dispersione. Grandi centri commerciali all'ingresso delle città (denominati in Francia, forse ironicamente, 'entrées de ville'), grandi infrastrutture, grandi strade-mercato, grandi estensioni di 'connettivo', tessuti misti e, ancora, edilizia residenziale spontanea disseminata (una versione parossistica dell'habitat pavillonaire di tipo francese), in generale 'macchine ibride' o, secondo l'espressione di Vittorio Gregotti, tipologie atopiche, depositate come frammenti fluttuanti in un mare di indefinito.
(8)

Osservando la trama di questo nuovo paesaggio alla ricerca di possibili nuove regole, di modi analoghi di formazione e di crescita, di differenze e ripetizioni, ci si accorge che le categorie forti dell'analisi tipo-morfologica entrano in crisi. Anzi, spesso, diventano del tutto inservibili: parlano d'altro, di una città che non è più possibile proporre nell'epoca dell'accelerazione virtuale e dello 'spazio critico' (secondo Paul Virilio).
(9) L'idea di continuità/gerarchia/concatenazione, tramonta all'apparire dell'idea di discontinuità/proliferazione/ibridazione.

Al di là della polverizzazione dello spazio abitativo, dove sembra dominare una logica individualistica - quella della casa unifamiliare con piccolo giardino -, senza ordine, né disegno del territorio, ci si accorge tuttavia che esiste, alla base, un principio di relazione in questo caos apparente. Una relazione che emerge osservando, secondo un approccio che tiene conto delle ricerche di Michel De Certeau,
(10) fenomeni diversi, quali i percorsi ciclici degli abitanti, i modi dell'appropriazione e della personalizzazione degli spazi semi-privati, dei margini tra la casa e la strada, e altro ancora. In queste 'macchine ibride' che segnano le trasformazioni del territorio della periferia europea - i nuovi luoghi del commercio, del tempo libero, dell'incontro individuale e sociale - è potenzialmente riposta la capacità da parte della periferia di divenire, a suo modo, città. Non più, dunque, opposizione alla città, ma essa stessa costituzione di nuove possibilità di 'essere' città.

La periferia è la città, oggi.

All'interno di questo continuum occorre riuscire a cogliere le differenze, anche se esse spesso sono soltanto delle sfumature : tra metropoli e città intermedie, tra città dispersa e piccoli centri compatti, tra le reti di livello superiore e quelle di livello locale, tra le aree di innovazione accelerata e quelle di maggiore staticità.

Per situarsi nel flusso di queste mutazioni radicali dei modi di vivere e di abitare, incise in forme sempre più provvisorie ed effimere nella forma del territorio, è necessario risalire alle origini dei processi oggi in atto.
Tra gli anni 50 e 60 si instaura una frattura nella continuità del dispositivo della città consolidata: in Italia, dove la rete di nuclei storici comprende insediamenti di tutte le dimensioni (dalle metropoli come Milano, Roma e Napoli, ai medi e piccoli centri), una nuova rete di insediamenti frammentari si sovrappone, come nella cosiddetta 'Terza Italia' (nel Veneto e nelle Marche), ad un preesistente decentramento dell'habitat. In Francia si diffondono i 'grands ensembles', oggi assunti a simbolo evidente del fallimento di una intera generazione di progetti nella periferia. Il dispiegarsi di queste nuove logiche fa 'saltare' le regole millenarie della costruzione della città e, soprattutto, l'idea che sia ancora possibile esportare nella periferia il modello della città, creare in essa l'effetto città'.

In tale contesto si colloca la genealogia dei luoghi (o 'non-luoghi') contemporanei, ossia le origini plurali di quelle che sono state definite le figure della trasformazione, e dei paesaggi insediativi che ad esse corrispondono. In relazione a queste 'figure' sono state introdotte alcune categorie di descrizione e classificazione: l'atopia (l'indifferenza al sito, lo spaesamento dell'oggetto architettonico in un contesto estraneo); il fuori-scala (le grandi strutture dimensionalmente eccentriche rispetto all'intorno); gli spazi aperti di relazione (i vuoti neutri della metropoli diffusa : aree di sosta, parcheggi, zone a destinazione indefinita); la nuova monumentalità dei monumenti/anti-luoghi del commercio e del 'loisir'.
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Ma qual'è l'identità di questi luoghi/non-luoghi?




A-topie, u-topie o eu-topie ? "Architetture dove il desiderio puó abitare

Sapere che ha luogo una promessa, anche se poi non verrà mantenuta nella sua forma visibile. 'Luoghi nei quali il desiderio puó riconoscere se stesso, nei quali esso puó abitare'
Jacques Derrida, Architetture dove il desiderio puó abitare, Domus, n° 671, 1986



Nello spazio dell'a-topia ci sarà posto anche per l'u-topia?

L'interrogativo non è marginale, se si pensa alla diffusione generalizzata dei non-luoghi e, quindi, alla necessità di lavorare su di essi per attribuire un'immagine leggibile alla periferia. Se la città tradizionale affidava ai monumenti e agli spazi pubblici il compito di darsi una identità stabile e condivisa, la città dispersa - la metropoli-periferia - puó assumere le reti infrastrutturali e le grandi opere pubbliche come elementi primari da cui partire nel suo ridisegno e nella sua riorganizzazione. L'ordine della 'città di pietra', la gerarchia tra strada - isolato - parcella rimanda, metaforicamente, ad una sorta di scrittura stabile, ad un testo esplicito; nella periferia contemporanea, al contrario, saltano tutte le relazioni 'logiche' di cui si è nutrita la costruzione della città nel corso del tempo.

Allo stanzialismo dell'insediamento-città sembra opporsi oggi una forma paradossale di insediamento nomade, nel senso materiale e immateriale, nella dimensione spaziale come in quella culturale. Alla compattezza strutturale, alla chiarezza formale del piano, alla stratificazione storica della città consolidata, si affianca il mutamento dinamico delle nuove formazioni sul territorio. La metropoli non è più, così, lo spazio del luogo, ma lo spazio della distanza, che si fa simultanea presenza (-assenza). Spazio dell'attraversamento, dove l'abitare diviene anch'esso nomade: serie molteplice di punti in cui sostare o transitare, mai stabilizzarsi in modo definitivo.

Dopo aver scoperto (grazie a Christopher Alexander) che "city is not a tree"; dopo aver creduto che la città è "nella storia" (grazie a Lewis Mumford), facciamo oggi una (relativamente) nuova scoperta: che la metropoli-periferia non è più un testo, ma un ipertesto, una rete di possibilità di lettura (e di trasformazione). L'ipertesto-periferia convive, allora, con il palinsesto-città: il repertorio del potenziale della prima convive con la mappa delle stratificazioni della seconda; la logica dell'invenzione con quella dell'accumulazione; il flusso con la traccia.

Italia 2000.
Puó essere ancora un 'testo' lo sprawl della regione milanese? La diffusione insediativa fulminea ed in progress sulla costa del mare Adriatico ? La formazione di un'area metropolitana, largamente anonima e abusiva, tra due città del Sud - Napoli e Salerno - che si avvia a diventare la più grande metropoli europea, pur non avendo alcun carattere convenzionale di una grande agglomerazione metropolitana?
(12) Quali regole, quali principi di organizzazione, quali forme visibili sono alla base di queste mutazioni territoriali? Difficile rispondere, quando ci si accorge che questa metropoli senza luoghi è una metropoli senza architettura. I tipi edilizi, le modalità di occupazione del suolo, le pratiche abitative sono qui arbitrarie e aleatorie, accostate in vis-à-vis spesso sconcertanti.

Il rapporto classico tipologia-morfologia è qui invertito: mentre nella città storica è la scala morfologica che stabilisce la regola di costituzione della tipologia, nella città diffusa, al contrario, si ha una forte riduzione della complessità morfologica a vantaggio di una straordinaria ricchezza delle soluzioni tipologiche. Perduta qualsiasi relazione tra la forma della città e l'organizzazione delle sue parti e dei suoi elementi, si delinea un diversa modalità di sviluppo urbano: la crescita a modello frattale, la cui referenza è il 'block' di New York.
(13)

La crescita a modello frattale, così come gli altri principi di generazione degli spazi atopici (ancora in larga parte da scoprire e decifrare), puó contenere in sé le potenzialità dell'u-topia, se non dell'eu-topia? Occore partire di qui per ricercare un nuovo senso dell'abitare contemporaneo. Il problema della periferia è stato sempre rimosso - dagli abitanti, dai tecnici, dai politici - come si è soliti rimuovere la malattia (e la periferia è stata troppo a lungo metafora di malattia, come la città industriale agli occhi dei primi 'urbanisti'). L'urbanista razionalista degli anni 20 e 30 si separa volontariamente dalla città storica - Le Corbusier, ad esempio, pensa molto più seriamente a Rio de Janeiro, a Buenos Aires e ad Algeri che a Parigi... -, scegliendo all'esterno di essa lo spazio dove rifondare la città 'moderna'. Poi, l'architettura urbana, a partire dagli anni 60, ha fatto il contrario: l'idea dominante era di precipitare nella città storica, fino ad annullarsi in essa e proiettarla al suo esterno. In una periferia ancora una volta vissuta come anomalia, patologia, qualcosa di irriducibilmente 'altro' rispetto alla città.

Periferie, domani.
Assuefatti, oggi, all'informe, come colpiti da una sorta di torpore dello sguardo, osserviamo con ammirazione la coerenza della città pre-industriale: i borgi medievali, i centri rinascimentali, i quartieri barocchi e le loro estensioni sette-ottocentesche, senza peró accorgerci che questo caos, lontano dall'essere una condizione naturale, è piuttosto lo svolgimento della rottura progressiva della città compatta, della 'città - corpo' europea, protetta dalla cerchia delle mura. Se non si prende atto di questa progressiva rottura, comprendendone la logica, senza inutili nostalgie, né propositi mimetici; se non si comincia a osservare la periferia con uno sguardo senza pregiudizi (sia quelli della 'città - corpo', sia quelli della 'città - macchina', sia anche quelli della 'città immateriale'), sarà difficile superare l'inerzia teorica e la paralisi operativa in cui oggi, ancora, ci si dibatte.

Luigi Manzione
luiman@free.fr






Luigi Manzione, architetto, insegna all'Ecole d'architecture di Parigi-La Villette (corso Ville et banlieue). Prepara una tesi di dottorato in Urbanisme et aménagement presso l'Università di Paris VIII-Saint Denis. Ha in corso ricerche sui temi dell'urbanistica e della storia della città, in particolare sul rapporto città-periferia; sulla teoria del progetto urbano in Italia e in Francia tra gli anni '20 e '40; sulle trasformazioni del paesaggio della periferia europea. Si interessa, inoltre, di arte contemporanea e di fotografia.












note

(1) L'America delle mitologie postmoderne narrate da Jean BAUDRILLARD in Amérique, Paris, Grasset, 1986 (e anche da: Richard SENNETT, La coscienza dell'occhio. Progetto e vita sociale nelle città, Milano, Feltrinelli, 1992 e Mike DAVIS, La città di quarzo, Roma, Il Manifesto, 1993.
(2) Sui concetti di non-luogo e di surmodernità, Marc AUGÉ, Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Paris, Seuil, 1992. Di Michel FOUCAULT, cfr. Eterotopie. Millepiani, Milano, Mimesis, 1994.
(3) David HARVEY, The Condition of Postmodernity, Oxford, Basil Blackwell, 1990. Sulla modernità e la città: Marshall BERMAN, All that solid melts into air. The experience of modernity, New York, 1982; Tomàs MALDONADO, Il futuro della modernità, Milano, Feltrinelli, 1987; Franco RELLA, Miti e figure del moderno, Milano, Feltrinelli, 1990.
(4) Ciò che allo sguardo dell'urbanista europeo appare ancora come disordine, assenza di connessioni, agli occhi dell'urbanista giapponese, ad esempio, appare al contrario come "ordine nascosto" (in Yoshinobu ASHIHARA) o come "bellezza del caos" (in Kazuo SHINOHARA). Cfr. Augustin BERQUE, La maîtrise de la ville. Urbanité française, urbanité nippone.II, Paris, EHESS, 1994.
(5) Georges PEREC, Tentative d'épuisement d'un lieu parisien, Paris, Bourgois, 1975, p. 46.
(6)
Si veda la riflessione di Bernardo SECCHI in Italia, di Manuel DE SOLA' MORALES in Spagna, Marcel SMETS in Belgio. Sugli "atlanti eclettici": Stefano BOERI, "Atlanti eclettici. Il pensiero laterale", in Mosé RICCI (ed.), Figure della trasformazione, Pescara, Ed. D'Architettura, 1996, pp. 32-47. "Gli 'atlanti eclettici' - scrive Boeri - sembrano suggerirci che quella cosí straordinariamente estesa nel territorio non è una città caotica: è soprattutto una città dove si giustappongono molte diverse forme di organizzazione e di interpretazione dello spazio abitativo. E proprio la molteplicità di questi codici e la loro propensione verso un'autonomia di funzionamento, verso l'autopoiesi, rende la loro giustapposizione particolarmente complessa e richiede una drastica revisione dei nostri modi di vedere". (p. 45)
(7)
La riflessione intorno alle nuove forme della periferia e della città 'diffusa' nasce, in Italia, alla fine degli anni 80 intorno a Bernardo Secchi e alla sua scuola. Essa trova spazio sulle pagine delle riviste Casabella, Lotus e Urbanistica, diffondendosi poi negli insegnamenti delle Facoltà di architettura di Milano, Venezia, Pescara e Roma.
(8)
Macchine ibride alla maniera degli "hybrides" di cui parla Bruno LATOUR, sociologo della scienza, in Nous n'avons jamais été modernes, Paris, La Découverte, 1991. Sulla definizione di "tipologie atopiche", cfr. Vittorio GREGOTTI, Dentro l'architettura, Milano, Bollati-Boringhieri, 1993 e La città visibile, Torino, Einaudi, 1994.
(9)
Paul VIRILIO, L'espace critique, Paris, Bourgois, 1984.
(10)
Michel DE CERTEAU, L'invention du quotidien. 1.Arts de faire, Paris, Gallimard, 1990. Sulle strategie e i linguaggi molteplici, cfr. Massimo ILARDI (ed.), La città senza luoghi. Individuo, conflitto, consumo nella metropoli, Genova, Costa&Nolan, 1990.
(11)
A proposito delle figure della trasformazione: Rosario PAVIA, Le paure dell'urbanistica. Disagio e incertezza nel progetto della città contemporanea, Genova, Costa&Nolan, 1997.
(12)
Sui caratteri delle forme insediative in Italia: Stefano BOERI, Arturo LANZANI, "Gli orizzonti della città diffusa", Casabella, n° 588, 1992 e Bernardo SECCHI, "Visioni d'assieme", Casabella, n° 595, 1992.
(13)
La city newyorkese: "un impianto che si ingrandisce per mezzo di parti elementari che al loro interno (...) contengono tutte le caratteristiche complete dell'intero. Ogni elemento è infine un frammento provvisto di tutte e sole le caratteristiche della città nel suo insieme". (Paolo DESIDERI, La città di latta, Genova, Costa&Nolan, 1997). La pièce urbaine, da J. Bossu a Henri Ciriani, si puó considerare come la risposta europea (francese, post-lecorbuseriana, ma ancora imbevuta di architettura urbana) al dissolvimento della morfologia in favore della crescente complessità del tipo. Non è del resto un caso che la pièce urbaine ravviva e da' un senso alle informi periferie e ai domini atopici dei 'grands ensembles'.
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