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Intervista a Henri Ciriani

di Francesca Pagnoncelli


Conoscere, parlare e conversare amichevolmente con l'architetto Ciriani è stato esclusivamente un piacere: poca formalità, molti sorrisi, qualche pacca sulla spalla come a significare che in fondo, anche in così poco tempo, già ci stavamo capendo. E' sempre interessante e confortante trovarsi di fronte a persone che scelgono la sincerità e la spontaneità come modo di stare al mondo e con la gente e l'architetto Ciriani rientra sicuramente in questa categoria ristretta e preziosa. Nel leggere l'intervista che segue credo sia importante tenere conto di due fattori: del forte valore umano che questa persona riesce a comunicare a chi gli sta di fronte, che non riduce il discorso a puro accademismo, a pure problematiche disciplinari; che molti dei pensieri e dei quesiti emersi durante l'intervista sono nati dal precedente confronto con le teorie dell'architetto Purini reso possibile dalla conferenza che entrambi hanno tenuto nell'ambito del Laboratorio di Progettazione architettonica e urbana di Bergamo. F.P.




[31jul2000]
FRANCESCA PAGNONCELLI: "Less aesthetics more ethics" è lo slogan dell'ultima Biennale di architettura di Venezia; come lo giudica e lo interpreta anche in base ai contenuti dell'esposizione?

HENRI CIRIANI: Credo che quello dell'ultima Biennale di architettura sia un gran bello slogan che non corrisponde però alla realtà. Si tratta di un tema esclusivamente mediatico, si vuole meno di e più di, ma non si sa a chi rivolgersi, si crea un richiamo a tutto il mondo affinché si accorga dell'esistenza dell'architettura, ma la gente non è ancora in grado di affermare l'eticità come principio di vita. Viviamo in una fase storica in cui l'etica non interessa assolutamente a nessuno, e quindi se si facesse davvero dell'etica il principio dell'architettura esposta la Biennale sarebbe un flop. Per avere un'etica a livello architettonico è necessario avere una produzione elevata che debba attraversare e superare delle difficoltà seguendo determinati principi. L'etica si afferma nel momento in cui si ha una presa di posizione rispetto a determinate tematiche, e certo queste prese di posizione non sono biennalizzabili; si possono biennalizzare solo gli eventi artistici. Siamo di fronte ad un evento che si propone come spettacolo molto particolare, basato sulle immagini, per ottenere il quale sono stati invitati ad esporre progettisti e artisti che seguono questa logica.

E' un approccio che Purini definirebbe con alcune delle sue sette categorie interpretative delle tendenze progettuali odierne: architettura come immagine, come virtualità, come arte e come comunicazione. Sono ideologie che, secondo l'architetto romano, nascondono una superficialità ed una falsa modernità e che portano con sé il rischio di un'accettazione del superfluo nella progettualità; tale approccio non porterebbe ad altro se non all'obsolescenza immediata ed istantanea del prodotto architettonico.

Il rischio insito in queste interpretazioni mediatiche del ruolo dell'architettura è che essa si uniformi alle esigenze della società contemporanea. Un tempo si credeva nella liberazione della massa da falsi pregiudizi e vincoli ideologici: quando sono arrivato in Europa all'inizio degli anni sessanta dominavano le immagini futuristiche degli Archigram e l'idea era che con la tecnologia si poteva conquistare una certa uguaglianza sociale. Poi c'è stato il movimento culturale e sociale del '68, le cui conquiste in termini di libertà di pensiero ed azione sono state completamente dimenticate e disattese. Oggi il concetto di massa è cambiato e si presuppone, a ragione, che questa non abbia alcun interesse ad essere liberata, ma anzi che desideri un mondo di divertimento e che creda che la cultura sia la vera nemica. Oltre al problema legato alla confusione tra i termini di divertimento e cultura vi è anche quello intrinseco ai concetti di informazione-conoscenza: oggi si pensa che l'educazione e la conoscenza non siano più un problema perché si crede che l'informazione da sola possa educare ed apportare conoscenza. In questa situazione l'architettura non trova spazio né terreno perché non sa a chi rivolgersi.

Nonostante queste forti critiche alla società contemporanea il suo pensiero architettonico è fortemente sociale, ha come costante riferimento i potenziali utenti dell'architettura.

Quello in cui continuo a credere è nella società formata da individui capaci di scegliere e quindi la mia architettura è di per sé una scelta, è un'affermazione di principio. Sono assolutamente contro l'immobilismo e per la scelta che idealmente appartiene a persone emancipate, ciò che non subiscono nulla, né un passato, né una cultura, ma hanno una capacità di giudizio che li rende liberi. E' una sorta di pensiero utopico ideale e idealizzato. Per me essere architetto significa perseguire con ostinazione la via dell'emancipazione, questa libertà da vincoli esterni, non nel senso che tendo ad ignorarli, ma che voglio e cerco di trasformare tutto in architettura.

I suoi progetti sono caratterizzati, a mio avviso, da una forte carica poetica che non si basa però sull'evanescenza o sul mimetismo progettuale, bensì sull'affermazione della materia, sulla presenza di elementi che vogliono lasciare un segno preciso anche se non definitivo. Il richiamo alla lezione del Movimento Moderno è evidente nell'uso e nella composizione di superfici e volumi, ma la spazialità che si crea è completamente diversa e dinamica.

Come gli architetti del Movimento Moderno anche io credo fortemente nel futuro e in un'architettura che abbia come fine l'uomo. Per me la modernità, in ambito architettonico, significa aderire alle immagini che essa porta con sé: leggerezza, apertura, trasparenza, fluidità, astrattezza. Sono questi dei principi estetici nuovi a cui però raramente si riesce a dare spessore narrativo e forza simbolica. Si pensa che questi criteri da soli bastino a dare qualità architettonica. In realtà il lavoro dell'architetto non consiste nella composizione dei materiale, bensì nella capacità di controllare e limitare lo spazio che deve essere in grado di catturare l'utente, deve avere una consapevolezza urbana e deve farsi come soglia tra esterno ed interno architettonico. Il mio tentativo è quello di tradurre spazialmente l'arte costruttiva sperimentata negli anni Trenta: attraversare, sollevare, creare equivalenze tra l'andamento orizzontale e verticale, il movimento continuo, il colore ed infine l'astrazione sono gli obiettivi che perseguo nei miei progetti. Se non vi è nulla di più astratto che una linea, una superficie parallela al suolo, perché nega di per sé la legge di gravità, la continuità del movimento, ottenibile con l'uso intelligente dei materiali, ha senso solo se consente di risolvere due problemi: aprire uno spazio chiuso e chiudere uno spazio aperto, ciò poter passare da un interno ad un esterno per creare una spazialità sorprendente. Il trovare nuove logiche di articolazione tra spazio interno ed esterno è un altro obiettivo che l'architettura contemporanea si deve porre. La particolarità dei progetti di Le Corbusier, e ciò che li rende unici, è che in essi si realizza uno spazio a doppia altezza in cui i diversi vani sono percepibili contemporaneamente e sono in grado di sorprendere chi li vive. L'uso di un materiale come il cemento da ancora oggi la possibilità di sfuggire ad ogni logica narrativa e costruttiva, di negare concetti tradizionali come quelli di pilastro, tetto, ecc. Oltre ad avere un enorme capacità di rapportarsi alla natura il cemento ha le stesse possibilità espressive dei materiali lapidei tradizionali ed è lo strumento migliore per comunicare con quello che Purini definirebbe il linguaggio dell'architettura come architettura, cioè i valori intrinseci alla disciplina.

Ha parlato dell'importanza del colore nel progetto architettonico, ma le tinte utilizzate nelle sue opere non si riferiscono soltanto alle cromie tipiche delle ricerche artistiche degli anni Trenta; c'è forse un'influenza della tradizione peruviana in questo?

Non direi, anche se indubbiamente ogni esperienza vissuta, ogni sensazione provata rientra poi in qualche modo nel mio lavoro. In realtà la cultura peruviana non è portatrice di valori cromatici come può essere quella messicana che ritroviamo nei lavori di Barragan. In realtà i miei riferimenti derivano dalla cultura pittorica in generale, non privilegiano quindi un periodo storico piuttosto che un artista. Tutto ciò che è arte mi interessa e mi colpisce. Ad esempio a Marne La Vallée ho voluto fare un omaggio al periodo blu di Picasso e tutti i toni di colore utilizzati si riferiscono a questa ricerca pittorica. Il mio obiettivo in architettura è quello di trasformare il concetto tradizionale di edificio senza perderne l'unità né l'identità, così come avviene in certe sculture di Picasso in cui l'astrazione non nega il modello iniziale. Il mio riferimento all'arte è continuo anche se spesso inconscio e inconsapevole.

In Francia la progettazione è spesso legata a vicende concorsuali, pratica che in Italia si risolve ancora troppo spesso in favoritismi politici e professionali talmente evidenti e palesi da andare contro ogni etica morale.

La mia esperienza personale mi porta ad affermare che in Francia se non si fanno concorsi non si lavora e che comunque se si è davvero architetti moderni non si hanno committenti. Il problema fondamentale dei concorsi di architettura è che obbligano gli architetti ad operare in modo infantile, perché la richiesta è quella di progettare come si fa all'università, cioè in modo semplice, lineare, banale. In realtà essi dovrebbero essere l'occasione per sperimentare la propria cultura progettuale e per andare a fondo nell'esame dei problemi affrontati; le proposte che si caricano di contenuti e suggerimenti, però, non vincono mai i concorsi perché vengono giudicati troppo laboriosi. Nel biennio 1996-97 il mio studio ha partecipato a dodici concorsi vincendone tre, che è una buona media. La speranza è che la modernità di un progetto venga capita e sostenuta all'interno delle giurie concorsuali, come è avvenuto nei tre casi: il concorso per una piccola scuola vicino alla biblioteca di Francia, a Parigi, quello per il Palais de Justice a Pontoise, e quello per un edificio vicino Versailles.

Quale potrebbe essere una sua previsione per il futuro in generale, non solo architettonico ?

Credo molto nelle nuove generazioni: i giovani di tutto il mondo, non solo quelli europei, sono le persone con la formazione migliore che l'uomo abbia mai avuto, siete stati tutti educati con metodi di apprendimento molto sofisticati. Ciò vi permette di non dipendere dalla memoria, fatto che porta con sé inevitabilmente altri problemi, avete imparato a dire e a parlare solo di quello che conoscete e comprendete, ad analizzare se non avete capito qualcosa, ad agire in modo individuale: si tratta di una situazione mondiale che non potrà sopportare a lungo la mediocrità in cui viviamo attualmente. Della contemporaneità quello che non sopporto sono sostanzialmente due cose: la mancanza di speranza e di proiezione nel futuro e il fatto che l'uomo contemporaneo non sia più interessato alla bellezza. Per quanto riguarda l'architettura invece credo che in futuro sarà possibile realizzare ogni utopia formale che l'uomo è andato via via immaginando, e che io ho personalmente espresso nei miei disegni di strutture sospese in cui la dualità dell'architettura futura è insita nella sua capacità di accogliere l'obsolescenza come valore.

Francesca Pagnoncelli
pagnonc@mediacom.it





Questa intervista è stata rilasciata a Bergamo il 18 luglio 2000 in occasione del XIV Seminario estivo svoltosi a Bergamo, Porta Sant'Agostino, 3-22 luglio 2000 dal titolo "Connessioni architettoniche nella citta' estesa", organizzato dal Laboratorio Internazionale di Progettazione Architettonica e Urbana (LIPAU).
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