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"Descrivere il resto". Altri sguardi sulla città. *

di Luigi Manzione


Non esistono cose fatte, ma solo cose che si fanno; non stati che si conservano ma solo stati che mutano. La quiete non è mai che apparente o, piuttosto, relativa. La coscienza che abbiamo della nostra persona, nel suo continuo scorrere, ci introduce all'interno della realtà sul cui modello dobbiamo rappresentarci le altre. Ogni realtà, dunque, è una tendenza, se si conviene di chiamar tendenza un mutamento di direzione allo stato nascente.
Henri Bergson, Introduzione alla metafisica (1934)





[31aug00]
"Descrivere il resto" era quanto si proponeva Georges Perec nel suo Tentative d'épuisement d'un lieu parisien".(1)

"Descrivere il resto", cioè osservare, analizzare, comprendere ciò che è al di là del già descritto e del già detto. Dell'inventariato, del rappresentato, oltre ciò che si è ritenuto nelle maglie del rilievo e del disegno della città. Oltre le carte e i piani: è qui che vorrebbe dirigersi il mio sguardo, verso un repertorio potenziale che attende ancora di essere repertoriato;
(2) laddove le rappresentazioni grafiche si intersecano a quelle antropologiche, ai modi di vita, alle vicissitudini dell'esistenza sociale nelle città e nelle periferie.



Perché "descrivere il resto"?

E' strano come spesso gli architetti e gli urbanisti si dedichino con passione esclusiva alla forma fisica dell'urbano (ai suoi tipi e alle sue morfologie, ai suoi sistemi e alle sue composizioni), dimenticando - o forse solo rimuovendo - che tali forme sono il prodotto complesso di un insieme di circostanze, del sovrapporsi di scritture diverse, di socialità, di percorsi e di conflitti. Solo avendo presente questa complessità è possibile esplorare il "resto".

Non perché la problematica della rappresentazione della città sia priva di interesse in se stessa, ma proprio perché costituisce, al contrario, un'entità ricca e multiforme, è difficile pensare per essa una deriva esclusivamente cartografica, astrattamente normativa e, perciò, rassicurante.

Ai confini del "resto".
Passi nella città.

Lunghe ed oblique ombre nel sole calante di un tardo pomeriggio metropolitano. Ho già osservato a lungo ciò che sovrasta queste ombre : le architetture, le case, la luce del tramonto sulle facciate. Vorrei, per un istante, fermare il mio sguardo su quelle ombre allungate, ombre di uomini e di cose. Seguirle nelle loro traiettorie molteplici. Esplorarne i confini, e descriverli.
Non uscirò dal territorio della città e della sua rappresentazione, ma cercherò piuttosto di attraversare questo come si percorre un luogo ancora sconosciuto, con l'aiuto di sguardi diversi, di voci e di gesti diversi.

Seguirò allora le smagliature di un tessuto che mi appare familiare e, a tratti, confortevole, cercando di indagare, insieme, su questo e su quelle. Ancora sulle tracce di Perec, per "non vedere le sole smagliature, ma il tessuto (ma come vedere il tessuto se soltanto le smagliature lo fanno apparire)?"



Lo sguardo classico sulla città o la paura del mutamento

La rappresentazione classica della città consolidata trova nel rilievo tipologico la sua compiuta espressione. In particolare, in Italia e in Francia, grazie alle ricerche tipo-morfologiche compiute negli anni 60 e 70 si costituisce un corpus cospicuo di "atlanti" urbani (a Venezia, Padova, Roma, a Parigi, etc), opere, nel contempo, di descrizione e di analisi della città. Il rilievo tipologico, ultima eredità di una cultura di stampo illuministico-positivista, rivolta essenzialmente alla classificazione -a partire da Durand, Choisy e Quatrémere de Quincy- ha mostrato tutto il suo valore teorico ed operazionale nei riguardi della città storica.

La questione che oggi si pone, tuttavia, è di verificare se, e in quale misura, tale approccio conserva la sua efficacia anche nei confronti della periferia, della città informale e diffusa.

Come reagiscono le categorie del discorso tipo-morfologico al contatto dello sprawl e dell'atopia? Qui non si pone più il problema di rilevare l'esistente -e quale esistente, dal momento che ciò che esiste è in continuo movimento e mutamento?- per definire strategie congruenti di conservazione e di modificazione, come si è fatto, ad esempio, nel caso emblematico del centro storico di Bologna negli anni 70-80.

Si tratta, semmai, di rilevare la periferia per costruire delle strategie che siano di conoscenza e, insieme, di trasformazione, in cui non necessariamente l'analisi e il progetto si susseguono come un "prima" e un "dopo", ma piuttosto interagiscono reciprocamente per produrre discorsi e pratiche a partire da figure.

Si tratta, quindi, di porre l'operazione del rilevare a monte di modificazioni, teoriche e concrete, spesso complesse e intrinsecamente "caotiche" e "indeterminate", nelle quali le componenti formali assumono meno valore in se stesse che nelle relazioni con gli aspetti sociali, culturali, finanche etnici (come negli esemplari laboratori parigini della "Goutte d'Or", di Saint-Denis, di Montreuil). Il mito dell'autonomia disciplinare, così ascetico e rassicurante, non può non fare i conti con il mutamento eteroclìto, il "continuo scorrere" delle pratiche sociali, dei comportamenti e degli immaginari. Di fronte a tutto questo, l'autonomia disciplinare diviene una mitologia conservativa.

Ma quale rilievo per il caos e l'indeterminazione? In tali situazioni, il rilievo non può limitarsi alla costruzione di atlanti di pure morfologie e tipologie. Esso deve farsi, per usare un'espressione di Jean-François Lyotard, "corpo conduttore": deve aprirsi ad altri vettori di analisi e di comunicazione, e da essi lasciarsi attraversare; accogliere altre modalità di descrizione, abbracciare altri sguardi. Basta, del resto, ripercorrere gli ambiziosi programmi di rilevamento dei fenomeni insediativi alla scala urbana, per ritrovare puntualmente la cronaca di qualche fallimento.

I progetti di Turgot e di Verniquet, ad esempio, che intendevano mostrare la crescita dei sobborghi della Parigi del XVIII secolo - il divenire città (moderna) della periferia - furono ben presto abbandonati. Le mura della città si eressero, così, anche a limite della sua descrizione e restituzione grafica e la conoscenza dell'espansione rimase anch'essa, in un certo senso, extra-moenia.

Difficoltà "tecniche" a seguire le trasformazioni in atto ? Inadeguatezza degli strumenti disciplinari e giuridici a cristalizzare in una mappa il farsi di nuovi quartieri o il riempirsi, espandersi, legarsi di quelli esistenti?

In ogni caso, questi fallimenti hanno a che vedere con l'incapacità di confrontarsi con le situazioni in divenire; hanno a che vedere con una paura del mutamento, che non è solo una paura d'ancien régime

E' indubbio che la rappresentazione grafico-geometrica pura mal si adatta alla descrizione delle situazioni dinamiche. Perciò oggi esiste un rilievo per la città consolidata ma non per la periferia. Non si sa ancora come definirlo e attuarlo; si preferisce spesso non parlarne.

Tuttavia la periferia è lì. Un "altro" rilievo deve avere la capacità di aiutare a comprenderne i caratteri, a pensarne la modificazione, non limitandosi a riprodurre lo stato dei luoghi, descrivendoli quali essi sono (o ci appaiono), ma deve invece aprirsi ad una dimensione conoscitiva non univoca e generalizzante.

Il rilievo della città tradizionalmente inteso è per sua natura legato ai concetti di fissità e di lunga durata, alla necessità del punto di vista fondante. Cosicché, da un lato, esso deve "fotografare" una situazione, gelandone il movimento e, dall'altro, a causa del suo indissolubile legame alla fissità del punto di vista, il rilievo diviene uno strumento resistente a mostrare la complessità dell'urbano. La scelta di un punto di vista preliminare, poniamo per la concreta rappresentazione assonometrica di una parte di città, esclude la possibilità di leggerla altrimenti, da altre angolazioni anch'esse interessanti. Ciò che non appare nel disegno, alla fine rimane muto: è un'assenza. E l'analisi tipo-morfologica classica in rapporto alla città non consolidata appare, oggi, come un cospicuo repertorio di assenze, piuttosto che come un orizzonte di riferimento.

Una visione dall'aereo a bassa quota, come già mostrava Le Corbusier in volo su Buenos Aires o Rio de Janeiro, ci rivela spesso molte più informazioni (e suggestioni) di una laboriosa restituzione tridimensionale.



Al di là del puro rilevare, altri sguardi paralleli e incrociati

Diverse esperienze compiute in Europa nell'ultimo decennio sull'indagine e la rappresentazione dei fenomeni urbani e territoriali, in particolare su quelli relativi alle situazioni in mutazione, hanno contribuito alla costituzione di nuove modalità di osservazione e di descrizione.

I cosidetti "atlanti eclettici" mostrano chiaramente questa nuova direzione di ricerca: repertori e testi di varia natura (rilevamenti fotografici, videografici, sonori; descrizioni geografiche e letterarie; documenti di piano, etc), assemblati secondo procedure fondate su criteri di coerenza specifica e locale.

Perché "eclettici"? Intanto, perché essi cercano di porre in relazione gli oggetti reali, le loro rappresentazioni e le immagini mentali costruite (sia sugli oggetti, sia sulle rappresentazioni). Poi, perché questi atlanti propongono una visione plurale, un ibrido ben congegnato di spazio fisico e spazio mentale. "Agili nell'assumere punti di vista eccentrici, ma consapevoli che la nostra soggettività di osservatori è sempre presente perché sta prima della visione, 'fuori' della scena dello sguardo. Gli atlanti eclettici propongono insomma un pensiero visivo molto particolare, che ha abbandonato l'utopia di una visione comprensiva e globale da un ottimale punto di osservazione".
(3)

La rappresentazione grafica del costruito, allora, non è che uno dei modi di leggere la città. Per cercare di cogliere il senso dell'urbano dobbiamo quindi disporci all'ascolto di altri "racconti", di altre immagini della città: non è escluso che l'aprirsi al diverso, all'apparentemente eteroclito, sia alla fine utile anche per affinare le tecniche della rappresentazione tradizionale.

Il punto di fuga -usiamo una metafora tratta ancora dall'armamentario disciplinare- è, forse, nel limite tra l'oggettivo e il soggettivo, tra quanto la rappresentazione dell'urbano esibisce come evidenza e segno innegabile, riproduzione conforme dell'esistente, e quanto essa invece suggerisce, o evoca.

In altri termini, occorre situare l'osservazione e la descrizione nel solco di un doppio registro: quello del modello e quello del processo o, come scrivono Deleuze e Guattari, dell' "albero-radice" e del "rizoma-canale", dove "l'uno agisce come modello e come calco trascendente, anche se ingenera le proprie fughe; l'altro agisce come processo immanente che rovescia il modello e abbozza una carta, anche se costituisce le proprie gerarchie, anche se suscita un canale dispotico".
(4)

E' in questo andare e venire tra l' "albero-radice" e il "rizoma-canale" che si gioca, ancora, la possibilità di educare lo sguardo.

Il tramonto delle concezioni separatiste in campo scientifico, il consolidarsi di una visione olistica, induce ad assumere proprio il rapporto tra modello e processo, tra discorso e sguardo, tra oggettività e soggettività, alla base della riflessione. Scopriremo, allora, che la conoscenza sensibile della città -ciò che si dà per il tramite di saperi altri dall'architettura: la letteratura, il cinema, la pittura, la fotografia, il video- può illuminare non meno della conoscenza razionale-analitica.

La rappresentazione cartografica "rimanda alla nostra esperienza esistenziale e sociale e illustra come, in ogni luogo, si articolano reale e immaginario. I cartografi hanno rifiutato troppo a lungo di prendere coscienza che la rappresentazione cartografica è un'astrazione (...) per paura di perdere la loro scientificità".
(5)

Sulla questione della scientificità si è giocato, peraltro, il lungo processo di codificazione disciplinare dell'urbanistica, a partire dall'ultimo ventennio del XIX secolo, con le prescrizioni degli igienisti e degli ingegneri sanitari; poi durante gli anni Venti del XX secolo, quando l'idea dell'urbanistica come "scienza urbana" raggiunge il suo vertice nello sforzo di dar vita a un sapere e ad una tecnica oggettivi, organizzati e trasmissibili; quindi negli anni 60 e 70 quando una tradizione di ricerca, soprattutto anglosassone, proponeva l'analisi e la trasformazione della città in termini di algoritmi matematici.

Oggi l'ottimismo scientificizzante lascia il posto ad un diverso approccio alla disciplina, considerata come un sapere piuttosto che come una scienza. Come un sapere "ibrido" che si definisce e si alimenta alla confluenza di apporti diversi su di un orizzonte dove si dispongono, seguendo Luhmann, gli assi dello sguardo, del discorso e del desiderio.
(6)

E' interessante, dunque, percorrere questi sentieri incrociati dello sguardo, del discorso e del desiderio ponendo a reazione reciproca le rappresentazioni cartografiche dello spazio urbano e le immagini che di questo spazio, le cosiddette "carte mentali", si formano i singoli individui. Così, accanto alla teoria cognitiva della città sviluppata da Kevin Lynch,
(7) accanto all'indagine sugli aspetti simbolici dell'urbano, dal punto di vista antropologico ed etnologico,(8) si possono accostare le ricerche di Michel de Certeau, in particolare la teoria dell' "homme ordinaire" da questi proposta ne L'invention du quotidien,(9) sottolineando il senso di "creazione anonima" che accomuna le multiple storie degli individui, le multiformi scritture che essi incessantemente depositano nel corpo della città.

Appare allora chiaro che la descrizione della città diviene un esercizio complesso che non può riassumersi nel camminare-vedere-rilevare.

"Camminare nella città -scrive Bernardo Secchi- è operazione semplice, vedere e rilevarne i caratteri continuamente cangianti è operazione più complessa, fare resoconti precisi e attendibili, che implichino il minimo di fraintendimenti di ciò che si è rilevato, è operazione di grandissima difficoltà. Rilevare è educare lo sguardo, vedere e far vedere come la città è fatta e interrogarsi sul come potrebbe essere fatta; è osservare in dettaglio i luoghi entro i quali le pratiche sociali si svolgono, i materiali urbani con i quali esse entrano in contatto e interferiscono, le loro caratteristiche metriche, materiche e tipologiche, il loro stato di conservazione, manutenzione e degrado, la loro adattabilità, la possibilità di loro deformazione e trasformazione. Ascoltare è entrare in contatto con le pratiche sociali così come vengono vissute e raccontate dagli stessi protagonisti, coglierne le differenti temporalità, ricostruire microstorie, riconoscere immagini e miti diffusi, annotare ciò che ai diversi soggetti appare come un impedimento al completo dispiegarsi dei loro progetti individuali e collettivi".
10)



La scrittura e la città: il luogo improbabile


E cadeva, cadeva, cadeva. Ma non finiva mai di sprofondare? 'Chissà quanti chilometri di caduta ho fatto finora' disse ad alta voce. 'Ormai debbo essere vicina al centro della terra. Vediamo: sarebbero più di seimila chilometri di profondità, mi sembra…'
Lewis Carrol, Alice nel paese delle meraviglie (1865), Milano, Rizzoli, 1990, p. 37.



Al termine della caduta di Alice nel pozzo si apre ai suoi occhi un mondo rovesciato dove la logica e l'ottica convenzionali non hanno più il consueto valore. E' la scoperta di altri possibili sensi.

E' un luogo improbabile.

Cominciamo col sollevare alcuni interrogativi, dalla parte del mondo improbabile che anche noi andiamo scoprendo, per delimitarne il campo in rapporto a ciò che ci interessa.

Cosa ci mostrano le incursioni in questo altro universo, anch'esso spesso considerato come una "Terra Australis Incognita" da certa riflessione che si è voluta anzitutto "rigorosa" sull'urbano? Cosa ci comunicano gli sguardi del narratore e del cineasta, del pittore e del fotografo, del musicista sulla città ? Attraverso l'incrocio di tali sguardi riusciamo noi a comprendere più a fondo le città e le periferie? Racconto, film, video, pittura, fotografia, musica cosituiscono strumenti capaci di svolgere un ruolo complementare rispetto al rilievo, all'atlante tradizionale?

Questi diversi media ci consegnano anzitutto altri modi di vedere.

In Georges Perec, che citavo all'inizio, è essenziale la tematica della descrizione dello spazio e del luogo. In Espèces d'espaces e, in maniera più circoscritta, in Tentative d'épuisement d'un lieu parisien domina il progetto di "descrivere il resto", ciò che manca nelle storie e nei documenti "ufficiali", ciò che sfugge all'occhio anestetizzato dell'uomo comune ( o più semplicemente di chi non si dà il compito di guardare con occhio diverso…); l'intento di esaurire, o quanto meno esplorare, il possibile che si cela dietro il visibile dell'urbano, di forare la cortina di indifferenza e di paralisi dello sguardo che spesso ci prende quando osserviamo luoghi a noi familiari.

"Sforzarsi di esaurire il tema (…), obbligarsi a vedere in maniera più piatta (…), decifrare una parte di città, deducendone delle evidenze. (…) Continuare finché il luogo diventi improbabile, fino a provare, per un breve istante, l'impressione di essere in una città straniera, (…) cosicché non si sappia più cosa si chiama 'città', degli edifici, dei marciapiedi…".
(11)

Dal torpore dello sguardo ordinario si è così condotti allo spaesamento, ad un guardare con occhi più attenti e, insieme, più stupiti, nell'assenza di codici conosciuti.

"Ogni osservazione -scrive Gianni Celati- ha bisogno di liberarsi dai codici familiari che porta con sé, ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non capisce, per poter arrivare ad una foce, dove dovrà sentirsi smarrita".
(12)

Talvolta bisognerebbe dimenticare ciò che hanno fatto, detto e scritto gli urbanisti e gli architetti per cercare al di là delle apparenze. Fare un buon uso dell'oblio, così come simmetricamente ci si è educati a fare un buon uso della memoria...

Prestare attenzione, ad esempio, ad Alain Robbe-Grillet che nel prologo del romanzo Gommes del 1953 traccia una mappa della città ad uso del protagonista, un detective che si smarrirà nel labirinto. E questa città è realmente un labirinto: definita al suo contorno da un boulevard periferico circolare, essa presenta all'interno un sovrapporsi selvaggio di strade radiali, ortogonali e oblique.

Comparando Robbe-Grillet a Perec, mi sembra che nel primo appaia una sorta di inversione di ruoli tra la scrittura letteraria e la forma concreta della città. Perec si dedica all'ascolto-decifrazione del luogo, Robbe-Grillet disegna un piano immaginario di città dove, metaforicamente -e a dispetto delle sottili "distinzioni" di urbanisti e sociologi- la chiarezza cartesiana del contorno (il cerchio) si oppone al caos informe dell'interno (il labirinto senza uscita); l'efficacia presunta del piano, dunque, contro la conflittualità dell'esistenza urbana.

Si possono allora individuare alcune figure di città, o meglio figure di metafore di città.
(13)
La città "épuisée" nello scandaglio cui Perec finalizza l'osservazione e la descrizione; la città-deriva, risultato della dissoluzione della città nella periferia come corpo e come senso (che è poi dissoluzione del senso in altre forme di senso a noi ancora ignote) in Celati; la città-labirinto, luogo dell'ordine alla superficie del caos in Robbe-Grillet; la città possibile, dove siamo condotti da Italo Calvino ne Le città invisibili.

"Quello che sta a cuore al mio Marco Polo -scrive Calvino- è scoprire le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nelle città (…). Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d'un linguaggio: le città sono luoghi di scambio (…), scambi di parole, di desideri, di ricordi".
(14)



La "coscienza dell'occhio"

E il cinema? Ci consegna anch'esso, come la scrittura letteraria, nuove forme di descrizione dell'urbano? E' realmente, come lo definisce Richard Sennett, la "coscienza urbana dell'occhio"?
(15)

Il cinema è certamente un'arte urbana, che nasce nella città. Un'arte della modernità che nella vita urbana, nel movimento, nei congegni tecnici, nella "vertigine del moderno" trova il contesto e, forse, le ragioni della sua stessa invenzione.

Lo sguardo del cineasta presenta però una diversità costitutiva rispetto a quello dell'architetto. Vedere la città reale è vederla anzitutto nello spazio (o, tutt'al più, in quella dimensione dilatata del tempo che è la lunga durata, nella quale si iscrivono le trasformazioni della città consolidata); vedere la città filmata, invece, è vederla anzitutto nel tempo, ma nel tempo proprio del racconto filmico, tempo tecnico e, insieme, narrativo, anzi spazio-tempo.
(16)

Le affinità tra l'immagine filmica e la descrizione disciplinare sono anch'esse innegabili: entrambe hanno tendenza a porre, in certa misura, in ordine il visibile. Sono diversi i concetti e gli strumenti tecnici; entrambe, però, si avvalgono di un punto di vista fondante.

Lo spazio urbano proiettato sul grande schermo ci appare sempre in forma problematica. Caratteristica del film sulla città è infatti quella di sollevare interrogativi, rimuovere l'indifferenza e l'anomia del quotidiano, nel suo essere veicolo di percezione, di ascolto, di memoria, di desiderio.

"La città del cineasta non è solo il visibile della città. E' possibile, anzi, che proprio questo scarto in rapporto al visibile sia la dimensione peculiare del cinema. Composizioni, luci, velocità, segni. La città è un sistema di corrispondenze: essa si concentra su un certo numero di effetti di 'cinegrafia urbana'; si riassume in un florilegio d'intensità significanti. Essa fa segno".
(17)

Andando oltre il puro visibile dell'urbano, il disegnabile, il cartografabile, talvolta anche oltre il puro dicibile, il cinema tende a rimescolare le evidenze, smascherare i luoghi comuni e le resistenze del vedere ordinario, disvelare altri frammenti di "verità".

In Caro diario di Nanni Moretti questo effetto di rimescolamento si traduce in una lettura metaforico-sentimentale della città e dei suoi luoghi. Nel primo episodio del film, la corsa in Vespa del protagonista attraverso le periferie residenziali romane, la Garbatella, Spinaceto, Casalpalocco e poi Fiumicino, l'idroscalo e la distesa atopica che segue, si arresta al monumento a Pier Paolo Pasolini, ultima tappa del viaggio.

Roma, la sua prima e la sua ultima periferia -dove il monumento funebre è inquadrato dai due pali di una porta di calcio- vengono lette attraverso una specie di duplicazione dello sguardo: nei romanzi (e nel cinema) pasoliniani era centrale la periferia reale, con i suoi volti, corpi e voci; Moretti assume invece come scenario la periferia come memoria, luogo di un vagabondaggio sentimentale nei luoghi della memoria individuale e collettiva.

Wim Wenders, ne Il cielo sopra Berlino, restituisce un grande affresco della città/periferia come metafora. Berlino come città del frammento, delle ferite sempre aperte sotto un cielo ancora "diviso"; luogo di una verità sofferta, accessibile solo allo sguardo monocromatico degli angeli. O, ancora, Berlino città dell'assenza di memoria, della sua rimozione volontaria, eppure dell'impossibile oblìo della Storia, che ritorna incessante nelle architetture dove le vicende si svolgono: l'Anhalterbanhof, la Staatsbibliothek, la Postdammerplatz…

Walter Salles in Midnight (Meia noite) delinea una ulteriore figura, quella della città-labirinto, nella descrizione delle favelas di Rio de Janeiro: una periferia nella città, un inferno confinante (e separato a prova di bomba) dalle ben più lussuose "favelas per ricchi" dalle atmosfere losangelene. Una babele ascendente e discendente, le cui scale possono essere salite e mai più discese, un collage infinito di scatole cinesi in precario equilibrio su milioni di scale e di vicoli, di case mai finite e di anfratti mai esplorati.

Gli esempi potrebbero susseguirsi all'infinito ricercando nella storia del cinema, ma come concludere, allora?

Ricordando, forse, che aprirsi ad altri modi di vedere, di sondare le profondità di ciò che abitualmente rimane alla superficie, di scoprire altre possibili verità -ossia porre la questione del divenire "altro" della rappresentazione dell'urbano- significa assumere su un piano comune i temi dell'analisi, del disegno e del progetto della città e della periferia insieme ai molteplici risvolti culturali, sociali, politici. Un "altro" rilievo deve riuscire a parlare anche di questo. Deve cercare con pazienza, ma con tenacia, di "descrivere il resto".

Luigi Manzione
luiman@free.fr






Luigi Manzione, architetto, insegna all'Ecole d'architecture di Parigi-La Villette (corso Ville et banlieue). Prepara una tesi di dottorato in Urbanisme et aménagement presso l'Università di Paris VIII-Saint Denis. Ha in corso ricerche sui temi dell'urbanistica e della storia della città, in particolare sul rapporto città-periferia; sulla teoria del progetto urbano in Italia e in Francia tra gli anni '20 e '40; sulle trasformazioni del paesaggio della periferia europea. Si interessa, inoltre, di arte contemporanea e di fotografia.












note

(*) Le riflessioni qui contenute hanno la loro occasione d'origine in una relazione presentata con Mario Zoratto, architetto, professore all'Ecole d'Architecture di Parigi-La Villette, al convegno franco-italiano su "Le relévé d'architecture" tenutosi nel maggio 1998 a Cinq Mars la Pile (Francia). Quella relazione ha costituito il palinsesto da cui ha preso l'avvio il nuovo testo che qui si propone.

(1)
G. Perec, Tentative d'épuisement d'un lieu parisien, Paris, Ch. Bourgois Ed., 1975.
(2) Uso l'espressione repertorio potenziale riferendomi nello stesso tempo a ciò che esiste, ed è oggetto della descrizione, e a ciò che non esiste ancora, ed è oggetto allora dell'immaginazione. Questa seconda accezione si ricollega all'idea di "immaginazione come repertorio del potenziale, dell'ipotetico, di ciò che non è stato né forse sarà mai ma che avrebbe potuto essere", espressa da Italo Calvino nelle sue Lezioni americane (Milano, Mondadori, 1993, p. 102).
(3) Stefano Boeri, "Atlanti eclettici", in M. Ricci (a cura di), Figure della trasformazione, Avezzano, Ed. d'Architettura, 1996, p. 33.
(4) Ancora: "Non si tratta di questo o di quel luogo della terra, né di un certo momento della storia, ancor meno di una categoria o dell'altra dello spirito. Si tratta del modello che non cessa mai d'alzarsi e sprofondare, e del processo che non cessa d'allungarsi, rompersi e ricominciare". (Deleuze e Guattari, Rizoma, Parma, Pratiche, 1977, p. 54).
(5) A. Bailly, C. Baumont, J.-M. Huriot, A. Sallez, Représenter la ville, Paris, Ed. Economica, 1995, p. 43.
(6)
N. Luhmann, Struttura della società e semantica, Roma-Bari, Laterza, 1983.
(7)
K. Lynch, L'immagine della città, Padova, Marsilio, 1964. V. anche A. Tzonis, L. Lefaivre, "Kevin Lynch e la teoria cognitiva della città", Casabella, n. 600, aprile 1993, p. 46-50.
(8)
Ad esempio, M. Augé, Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Paris, Ed. du Seuil, 1992.
(9)
M. de Certeau, L'invention du quotidien.1.Arts de faire, Paris, Gallimard, 1990.
(10)
B. Secchi, Prima lezione di urbanistica, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 141-142.
(11)
G. Perec, Espèces d'espaces, Paris, Ed. Galilée, 1974. Ancora di Perec, Les choses si apre con una descrizione minuziosa quanto metaforicamente eloquente dell'appartamento della giovane coppia protagonista del romanzo; La vie, mode d'emploi rileva, come in una ideale sezione al di là della facciata, la vita in un immobile parigino nell'arco di più generazioni, con un'ossessione esemplare per il repertorio e l'elenco; Tentative d'épuisement d'un lieu parisien è la trascrizione di ciò che si vede dalla terrazza di un café di place Sainte-Sulpice a Parigi, non lontano dall'abitazione (reale) dello scrittore; Espèces d'espaces, infine, una sorta d'inventario, à la Perec appunto, dello spazio possibile.
(12)
G. Celati, Verso la foce, Milano, Feltrinelli, 1989.
(13)
Intendo "figura" nel senso indicato da Franco Rella, in quanto "pensiero che transita attraverso le 'immagini' letterarie e i concetti, che tiene insieme (…) la massima astrazione del concetto e la massima forza di ciò che è stato via via definito mito, sragione, analogia, immagine". (Miti e figure del moderno, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 10).
(14) I. Calvino, Le città invisibili, Milano, Mondadori, 1993 (Torino, Einaudi, 1972), p. IX-X.
(15) Scrive R. Sennett: "Il film non aveva un intento decostruzionista; era semmai la sua stessa capacità di disorientarci, e di rifiutare ogni conclusione catartica, a suscitare il nostro interesse e la nostra empatia. E' questa la coscienza urbana dell'occhio". (La coscienza dell'occhio, Milano, Feltrinelli, 1992).
(16) "Nella rappresentazione cinematografica -scrive Jean Epstein ne Le Cinéma du Diable-, lo spazio e il tempo sono indissolubilmente legati, uniti per costituire un quadro di spazio-tempo dove coesistenze e successioni presentano ordini e ritmi variabili fino alla reversibilità. Qui, per referenziare i fenomeni, non esistono che dei sistemi di relazioni mutevoli, non riferibili ad alcun valore prefissato" (citato in Gérard Betton, Esthétique du cinéma, Paris, P.U.F., 1990, p. 29).
(17) Jean-Louis Comolli, "La ville filmée", in Gérard Althabe, J.-L. Comolli, Regards sur la ville, Ed. du Centre Pompidou, 1994, p. 17-20.
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