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Case lontane

di Paolo Riani


Dal 13 settembre 2000 Paolo Riani si trasferirà a New York dove ricoprirà l'incarico di Direttore dell'Istituto Italiano di Cultura che gli è stato conferito per chiara fama nello scorso mese di gennaio. Riani si è laureato in architettura a Firenze nel 1965; dopo una breve collaborazione con Edoardo Detti, ha lavorato con Kenzo Tange a Tokyo e realizzato il piano regolatore di Kyoto. Poi, una carriera professionale che lo ha portato a New York, Mosca, Los Angeles, Beirut, Amman... Insieme a Cesare Casati ha fondato la rivista l'Arca, del cui comitato scientifico è tuttora membro. Con questo scritto del 1990 Paolo Riani ripercorre gli spazi e le memorie delle sue tante provvisorie abitazioni.




[09sep2000]

Paolo Riani.
Un mio bisnonno è morto in Australia. Un mio nonno è emigrato in America ed è ritornato dopo due anni più povero di quando era partito. Anche l'altro mio nonno è emigrato in America, che era ancora un ragazzo, alla fine del secolo scorso. È tornato quando aveva cinquant'anni ed aveva fatto fortuna. Sui monti dove sono nato, in un posto che si chiama Riana, c'è una Pieve di pietra che la mia gente ha aiutato a costruire nel 900 dopo Cristo. Su quelle stesse montagne dove sono cresciuto, l'orizzonte è chiuso tutt'intorno dalle creste taglienti delle Apuane. Il cielo è già rosso quando il sole nasce, e rimane a lungo rosso quando tramonta, dietro la linea frastagliata che le montagne scure disegnano, alta nell'aria.

Sono cresciuto in quella terra, guardando il cielo attraverso rami di ulivi contorti al chiaror della luna, e castagni frunzuti dai cardi pungenti, nei pomeriggi d'estate. Con una gran voglia di vedere il mondo che certamente si stendeva nel mistero aldilà di quei monti dai cui valichi i miei occhi di bimbo avevano visto arrivare e sparire, senza provare emozione, una volta gli eserciti.

Così da ragazzo, dopo che l'aver visto una guerra mi aveva lasciato nel cuore tante domande, sui banchi di scuola sognavo di scoprire qualche posto remoto nel mondo dove incontrare qualcuno o qualcosa che mi avrebbe aiutato a trovare risposte. I libri di Kipling, i racconti degli esploratori inglesi del secolo scorso, il mondo vittoriano delle vecchie carte geografiche, delle foto color seppia, e i racconti di altri uomini grandi, partiti dalla mia terra forti soltanto di coraggio e di voglia di lavorare per ritornare, mi attraevano come un romantico irresistibile mistero.

Volevo vedere il sole tramontare nel mare e incontrare gente che non teme l'inferno, provare, non importa quanto piccola, una frazione di quello che i primi esploratori avevano provato, in abbondanza. Sapevo che avrei trovato in umanità diverse sentimenti universali: la tenerezza colta in un tremore di palpebre sopra gli occhi lunghi, la complicità per la vita in un gesto d'amore, la fierezza tagliente in uno sguardo prima della lotta. Volevo che tutte queste cose mi diventassero sangue nella speranza di riuscire a restituirle negli spazi che avrei poi costruito. Così, quando a Barga Bruno Cordati smise di dipingere il Rigo del Giulio chiuse la "grosseria" al Giardino, la Mariuccia della Calata di Piazza morì, e le prime case "moderne" comparvero a riempire i vuoti lasciati dai bombardamenti, decisi di partire per non più ritornare, come se la mia terra fosse diventata bastarda.

A Firenze mi hanno fatto architetto in un momento magico di quella scuola che sapeva usare città come laboratono per le nostre esperienze. E dopo cinque anni, con una laurea in tasca e la sicurezza di sapere tutto quello che non sapevo, quando mi pareva di avere davanti un tempo senza fine, ho deciso di partire per il Giappone, in quegli anni per me il paese il più e il più lontano.

Sono partito -era il 1966- con pochi soldi e con tante speranze. Mi dovevo fermare sette mesi, ma ho finito per restarci sette anni, lavorando e guadagnandomi il pane con quel po' che sapevo, confrontandomi con impari avventure professionali che vivevo con intendimenti estetici ed entusiasmi umani. Con base a Tokyo, già che c'ero, viaggiavo in quell'Oriente Lontano. Quando viaggiavo, facevo fotografie. Fotografare mi aiutava a capire meglio le cose. Capire meglio le cose, mi aiutava a vincere il tremar della mano davanti alla carta nelle scelte che ho sempre fatto da solo, di volta in volta secondo morale. A volte, vendevo le foto e scrivevo racconti.

Per più di quindici anni ho girato il mondo facendo l'architetto e tante altre cose, impegnato nella fatica di vivere senza sopravvivere, in un processo creativo che mi coinvolgeva completamente. Le tracce visibili di quella fatica (le architetture che ho fatto, i libri che ho scritto, le immagini che ho colto) sono scarse, ma allora come oggi attraverso l'impegno quotidiano si configurava lentamente la coincidenza fra cose vissute e progetto, fra lavoro personale e impegno politico.

Ho sempre abitato in case lontane -lontane da casa, lontane fra loro- e non mi è mai importato niente di possedere una casa davvero. È meglio sognarla, se non serve per starci, una casa. In un sogno lo spazio è sempre diverso, sempre come vorresti averlo fatto in quel momento, per rifarlo diverso subito dopo. Ho vissuto un po' dappertutto e molte di quelle case le ho dimenticate.

Ma quella casa di Kyoto non la dimenticherò mai. Una casa fatta di niente altro che non fosse carta di riso o legno argento. La mia stanza era uno spazio luce bianco-argento, e solo se mi accoccolavo sulle ginocchia o mi sdraiavo a dormire vedevo fuori il giardino, al di là del corridoio-intercapedine di legno, con l'acqua, le pietre, il vento, le foglie.

E neanche dimenticherò le mie case d'India del Nepal, dell'Indocina, della Cambogia, d'Arabia, le mie case delle povere Repubbliche del Centro America dai muri di terra e di pietra, sgretolate da erbe, vissute da animali senza nome, con echi del Gandara e segni di imperi misteriosi, con nostalgie barocche struggenti. E neppure dimenticherò le mie case di New York, dove ho vissuto dieci anni. La prima era un vecchio ufficio di spedizioni marittime nel lower west side, quasi sui docks. I transatlantici apparivano e scomparivano, enormi e in silenzio nel riquadro della finestra, sempre ghiacciato per il gran freddo.

Fino alla casa tutta tender-taupe nella 59a Strada, completamente vuota per l'ecologia della mente, con dentro solo un letto alto come il davanzale della finestra. Si vedevano al di là del 59th Street Bridge, le luci vicine dei rimorchiatori, sull'East River, e le luci lontane dei jets che partivano (ogni tre minuti) dall'aeroporto La Guardia.

Una volta sono perfino riuscito a farmi una casa a Firenze, con la complicità di un involucro esistente e perciò obbligato, costruito dal caso e dagli anni, dì traverso tra due vecchie strade di città. Ci ho vissuto poco in quella casa , ma l'ho pensata molto quando ero lontano. Consisteva in uno spazio-corridoio-soggiorno improbabile, stirato fra due strade che si aprono ad abbracciare il Duomo. Dalle finestre, che fermavano nello spazio i gesti elementari della mia vita: amare, lavorare, leggere, riposare, si vede, a occidente, la cupola del Brunelleschi tagliata all'imposta dal chiostro delle Oblate. Due cedri del Libano altissimi si tendono i rami e la cupola sta in mezzo.
A sinistra c'è il campanile di Giotto.

Facevo un sogno quando avevo trent'anni. A metà di un cammino attraverso un deserto, in una luce accecante, mi trovavo di fronte un palazzo di terra senza finestre con una sola porta. Entravo e, in una prima sala coperta di tappeti, illuminata da lampade d'oro, la corte dei Medici teneva un banchetto. Attraversavo la sala senza destare stupore per il mio aspetto povero di viandante. Passavo, fra l'indifferenza di quella gente, come uno di casa. La porta successiva, all'altro lato della stanza, si apriva sulla sala della biblioteca del Topkapi con finestre strette e lunghe fino a terra e bassi sedili. Qui la corte del Gran Vizir dei Turchi era riunita a far piani di guerra; e anche lì passavo, e gli uomini erano indifferenti. La porta all'altra estremità della biblioteca si apriva invece sulla sala centrale del Palazzo Reale di Katsura, dove saggi, poeti e architetti sedevano in cerchio attorno al segno d'argento lasciato sul tatami da un raggio di luna.

E così via, di reggia in reggia, fino ad un'ultima porta che dava di nuovo sul deserto. Il viaggio proseguiva verso l'orizzonte e mentre il sole saliva, un bambino compariva improvviso vicino a me. Io continuavo ad andare con la sua piccola mano dentro la mia.

Il mondo è rotondo, ma la geografia cambia. Alcuni dei paesi che ho potuto visitare allora, oggi non esistono più, o uno stato di guerra non dichiarata ma effettiva, li rende invisitabili. Così le repubbliche del Centro America, L'Arabia, l'Afghanistan, l'Indocina (...ho risalito le anse larghe e lente del fiume Mekong fino ad Angkor dove ho visto alberi giganteschi regalare corone vegetali ad enigmatiche figure di Dei...).

Poi un giorno è venuta improvvisa e violenta la voglia di tornare, magari diverso, fra quelle
montagne da cui ero partito. Di toccare con le mani la terra indurita dai cardi, dove guerrieri solitari riposano, a rivivere i loro eroismi segreti che oggi nessuno ricorda. Adesso ho un figlio che si chiama Pietro e viviamo in una casa bianca sul mare, costruita molti anni fa col mio babbo. Ora le Apuane sono ad oriente e il sole tramonta nel mare...

Il profilo di quelle montagne non è più un confine, uno schermo nero tenuto su a nascondere meraviglie. Adesso tutto si è fatto memoria, e mentre a volte le osservo dalla spiaggia, in quell'ora magica della sera in cui gli oggetti si fanno scuri e l'aria diviene luminosissima, la linea dell'orizzonte si fonde in altri profili conosciuti, nei dolci fianchi di una donna, nelle montagne dell'Asia o del Sudamerica, in skylines inventate dagli uomini ai due lati dell'oceano. Allora mi prende una dolcezza profonda e nuova.

Ora posso lasciare i logori strumenti della ricerca per raccontare. E far vedere le cose del mondo a due nuovissimi occhi chiari.

La casa di Kyoto.

Paolo Riani
riani@italcultny.org





Istituto Italiano di Cultura a New York

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