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SILENZIOSE AVANGUARDIE/3

di Luigi Prestinenza Puglisi
Aria nuova | Rizomi | Architecture is now
1. Uscire dal lutto | 2. La logica del tardo capitalismo | 3. Estetica del sublime | 4. Layer | 5. Architettura e natura
6. Architecture is now | 7. Choral Works | 8. Electronic ecology | 9. Deconstructivist Architecture
10. Il paradigma elettronico | 11. Sostanza di cose sperate
L'ultimo lavoro di Luigi Prestinenza Puglisi, Silenziose avanguardie. Una storia dell'architettura 1976-2001, appena pubblicato dall'editore Testo&Immagine, raccoglie numerosi elementi della ricerca e della produzione architettonica degli ultimi venti anni. A partire dall'individuazione della centralità di problematiche sviluppate nel corso degli anni Sessanta, oggetto del precedente This is Tomorrow, Prestinenza Puglisi traccia linee e percorsi che giungono direttamente fino ad alcune delle più attuali problematiche che coinvolgono l'architettura contemporanea. Arch'it propone ai suoi lettori, in tre parti, la lettura completa del testo. Nella pubblicazione cartacea, che potrà essere acquistata online, sono presenti ulteriori apparati ed antologie utili ad una migliore comprensione del quadro storico affrontato.



[25mar2001]
1. Uscire dal lutto

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"Il lavoro del lutto è finito. Non è il caso di ricominciarlo". Con queste parole il filosofo francese Jean François Lyotard, nel 1979, con un anno di anticipo, chiude gli anni Settanta e inizia gli Ottanta. Sappiamo bene, afferma, quali siano i problemi del nostro tempo: tra questi il fallimento delle grandi utopie; la rinuncia della filosofia alle sue funzioni di legittimazione e la conseguente crisi del concetto di verità; i troppi linguaggi specialistici tra loro intraducibili; l'assenza di un metalinguaggio di valore universale; la trasformazione dei sapienti in scienziati gestori di mansioni specializzate. Ma tutto questo, afferma Lyotard, lo sapevamo già da oltre cinquanta anni. Come dimostrano Robert Musil, Karl Kraus, Hugo von Hoffmannsthal, Adolf Loos, Arnold Schoenberg, Hermann Broch , Ernst Mach e Ludwig Wittgenstein.

Quindi è inutile lamentarsi e vivere nel cinismo del disincanto e della disperazione. Occorre accettare la nostra condizione. E elaborare modelli per orientarsi in un sistema senza centro, fatto di flussi comunicativi in cui il soggetto, come un nodo all'interno della rete, riceve impulsi per ritrasmetterne altri. Pazienza se non gli è dato comprendere la forma, estensione e dimensione dell'intero sistema. Se non può ridurre a unità tutti i linguaggi ricevuti. Gli rimane, in ogni caso, la libertà di dissenso. Che, in quanto nodo locale della rete, può esplicare rielaborando in forma non prevedibile le informazioni ricevute o alterandone le maglie con l'introduzione di nuove regole del gioco. È questa la strategia della "mossa del cavallo", cioè del comportamento inaspettato che ci apre nuovi scenari. E che, modificando il tessuto delle relazioni, permette al sistema di riassestarsi su un nuovo e più interessante livello di equilibrio.

Nessuna illusione rivoluzionaria. Le teorie del socialista Lyotard, che abbiamo appena riassunto, appaiono in uno studio su commissione, sulle potenzialità e le prospettive del sapere contemporaneo, destinato al governo del Quebec. Nonostante sia passata una decina d'anni, siamo lontani dalle filosofie negative di personaggi alla Herbert Marcuse o alla Wilhelm Reich che nel Sessantotto, elaboravano pensieri altri per fondare la società degli uguali. E anche dal pensiero negativo dei ragazzi del settantasette che vedono nella crisi metropolitana la giustificazione per un atteggiamento rizomatico, individualista, disincantato e di opposizione.

Comincia, invece, a intravedersi una apertura di credito alla società delle informazioni. Caratterizzata, rispetto alle altre (è del 1979 la disastrosa esperienza iraniana che vede subentrare a un dittatore, dispotico e sanguinario quanto si vuole, un potere arcaico, intollerante e brutale) proprio dalla capacità di produrre dissenso. Non solo il diritto di critica garantito dalle libertà formali di opinione e di espressione. Quanto, soprattutto, una strutturale apertura all'imprevisto e alla novità, propria delle società tecnologicamente avanzate, che postula il perenne rimescolamento delle carte, il veloce cambiamento delle regole del gioco, l'alternarsi di direzioni, intensità, qualità e caratteristiche dei flussi comunicativi. Ecco, insomma, il paradosso positivo delle società dell'occidente evoluto: tese a perpetuare privilegi ma, nello stesso tempo, minate dalla incessante dialettica dei propri meccanismi interni. Nelle quali non è possibile dare risposte sempre uguali e prevedibili. Il sistema, infatti, si arresterebbe, entrando in crisi perché la produttività non è più segnata, come nella società delle macchine, dal tempo di lavoro socialmente utile ma dal surplus informativo prodotto dall'innovazione. E' il nuovo movimento di capitali che pretende il pensiero laterale, l'improvviso scatto creativo. I nuovi eroi, si chiamino Bill Gates, William Atkinson o Steve Jobs, sono coloro che sanno attivare queste capacità. E gli uffici delle grandi Corporation imparano a valorizzare i tempi morti, le pause ricreative, le interazioni casuali, perché capiscono che il cervello produce al meglio proprio quando si estranea dalla routine produttiva. La discontinuità e il negativo si trasformano in valori positivi. E il lavoro di scoperta di nuovi territori proprio dell'avanguardia, diventa un passo obbligato del nuovo ciclo economico.

Ovviamente esiste creatività e creatività: quella bassa del produttore di beni di consumo e quella alta dello scienziato e dell'artista. Ai primi, di norma, è richiesto essere inventivi con una mossa imprevista nell'ambito di un gioco prestabilito, mentre ai secondi si richiedono nuove regole per fondare nuovi giochi. Ma non è detto. Il geniale produttore di beni di consumo -pensiamo come negli anni ottanta siano radicalmente cambiati i modi di produrre e proporre i prodotti- può anche riscrivere le regole del gioco, mentre un onesto scienziato o un mediocre artista possono limitarsi a lavorare con profitto nell'ambito di paradigmi consolidati.

La precarietà, che negli anni sessanta e settanta sembrava il prodotto di una società intollerabile, da abbattere mediante la rivoluzione, è assunta a sistema. D'ora in poi la condizione moderna (o, per alcuni, tra i quali Lyotard, la condizione postmoderna) sarà segnata dalla consapevolezza di vivere in un sistema altamente labile caratterizzato da una semplice quanto ciclica dialettica: equilibrio, crisi, risposta creativa, nuovo equilibrio, nuova crisi, nuova risposta.

In questa cultura della crisi continua, ovviamente, confluiscono -acquistandone nuova luce- le riflessioni sulla discontinuità maturate tra la fine degli anni cinquanta e i primi degli anni settanta: i giochi linguistici di Ludwig Wittgenstein, il falsificazionismo di Karl R. Popper, i paradigmi di Thomas S. Kuhn, la episteme di Michel Foucault, le contraddizioni decostruttive di Jacques Derrida. Ma vi confluiscono, liberate della loro angosciante tensione originaria. Il lavoro di lutto, insomma, è definitivamente concluso.

Il linguaggio, come scopre Wittgenstein, non è più riducibile a una struttura unitaria? Vuol dire che è possibile attivare una pluralità di strategie, sia all'interno di ciascun gioco sia trasversalmente, per tentare nuove traduzioni, innesti, ibridazioni. Le teorie scientifiche, secondo Popper, sono destinate ad essere falsificate dalle scoperte successive? Subentra una visione più fluida della scienza e un più aggressivo e produttivo atteggiamento rispetto alle verità che ci sono tramandate come tali. Viviamo in universi culturali segnati, come afferma Kuhn, da concezioni paradigmatiche, ovvero subiamo, come afferma Foucault, gli a priori concettuali del nostro tempo? Lo storico appronterà modelli più sofisticati, per farci meglio comprendere le idiosincrasie delle epoche che ci hanno preceduto e della nostra da superare. Il pensiero, come afferma Derrida, è segnato da contraddizioni insanabili che oltrepassiamo attraverso l'approntamento di trucchi linguistici? L'opera di decostruzione sul linguaggio ci porterà a una maggiore comprensione dei limiti del cervello.

La consapevolezza della insostenibilità delle grandi narrazioni cioè delle visioni tradizionali della storia, marxismo compreso, e, insieme, la immissione della cultura della crisi all'interno del sistema producono, però, anche le proprie parodie. Gli anni ottanta sono sicuramente responsabili del mito dell'arricchimento a tutti i costi, del trasformismo degli intellettuali accondiscendenti di fronte ai nuovi poteri, dello smantellamento di forti legami sociali. Nietzsche, Heidegger e, a distanza di qualche anno, Derrida subentrano a Marx nella classifica delle citazioni d'obbligo. Accompagnati dalle parole logocentrismo, crisi, nichilismo. E in Italia l'arroganza di un ceto politico rampante, spalleggiato da disinvolti architetti e reduci del sessantotto, fomenta la già endemica corruzione che invade ogni campo della pubblica amministrazione.

Torniamo all'architettura. Se, come afferma la ricerca filosofica, il nostro orizzonte è positivamente delimitato dalla pluralità dei linguaggi, da fondamenta precarie, dal perenne superamento dei sistemi concettuali, allora non ha più senso la nostalgia di forme pure, collocate in un orizzonte atemporale. L'unica certezza, se ve ne è una, è il mutamento. Crollano le concezioni estetiche classiche fondate sui concetti di ordine, simmetria, continuità. Subentra l'estetica del sublime. Esprime la nostra inadeguatezza a prospettare soluzioni definitive e, insieme, un mutato atteggiamento non più contemplativo ma operativo che, assumendo punti di vista eccentrici, pone nuovi problemi e suscita inaspettate reazioni.



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2. La logica del tardo capitalismo

L'estetica del sublime è segnata dalla consapevolezza che il valore si libera generando diversità: di opinione, di costume sessuale, di credo religioso, di modelli di vita. Un valore per il quale nel 1988 cade il muro di Berlino, si dissolve una potenza nucleare, rientrano in gioco, anche in maniera barbara e sanguinosa, le etnie.

La diversità si produce in due modi: creando novità che affascinano, stupiscono, catturano nel proprio gioco. È questa una variante banale, ma non disprezzabile, dell'estetica del sublime che porta al vorticoso succedersi delle mode. E' la tecnica sulla quale punta la pubblicità, dagli anni ottanta protagonista indiscussa del sistema produttivo. Oppure si produce lavorando direttamente sulle esigenze dell'individuo, muovendosi lungo i suoi universi problematici, tagliandogli interrogativi e proponendogli parziali risposte. È quanto fanno gli artisti i quali, in questo modo, attueranno il capovolgimento dell'estetica classica orientata, invece, verso valori universali. Obiettivo è ottenere un diverso coinvolgimento dell'osservatore. Una opera classica esiste indipendentemente dal pubblico. È una idea in sé e per sé. L'arte del sublime tralascia questo aspetto ontologico dell'oggetto, si muove sul versante fenomenologico, tende a provocare una reazione. Che è sempre personale e contestuale. Da qui il predominio dell'immagine sui valori simbolici più profondi. L'immagine è, infatti, ciò che si interfaccia con il pubblico e provoca la sua immediata risposta, attivando collegamenti metaforici, inducendo comportamenti, generando o impedendo flussi di informazioni.

Per Lyotard, come abbiamo visto, la logica stimolo-risposta segna la società postmoderna garantendo agli individui margini inaspettati di libertà. Interviene Fredric Jameson con un saggio, apparso nel 1984 sulla New Left Review, dal titolo Postmodernism, or The Cultural Logic of Late Capitalism. Jameson concorda con Lyotard sulla considerazione che il Post Modern non sia solo uno sfortunato stile architettonico, ma un atteggiamento disincantato della cultura contemporanea di porsi rispetto al moderno. Tuttavia, rileva che in termini economici e sociali il postmodernismo è il risultato negativo della logica tardo capitalista. Segnata dalla frammentazione e dalla perdita della distanza critica, ma anche dell'imperialismo americano.

E sebbene sia infantile credere di potersi sottrarre a questa logica epocale, tuttavia non è lecito neanche farsi abbagliare dal sublime tecnologico, perdendosi all'interno della rete informativa, cioè di una macchina "che non rappresenta il movimento come le precedenti macchine moderne, la locomotiva e l'aeroplano, ma che può essere rappresentata solo in movimento". Per orientarsi nell'iperspazio moderno, Jameson suggerisce di approntare mappe cognitive, rifacendosi alla cartografia di Kevin Lynch, un architetto che si sta ponendo proprio il problema dell'immagine della città contemporanea. La proposta è deludente, tanto che non avrà seguito.

Il libro di Jameson ha, però, uno straordinario successo. Si sviluppa un intenso dibattito, che tocca più di un nervo scoperto. Interviene Bruno Zevi. Secondo il critico, il termine postmodernismo, anche se usato per esprimere un atteggiamento culturale di sfiducia nei grandi sistemi, è sbagliato. Il continuo superamento dei limiti, il tentativo di trasformare la crisi in valore sono atteggiamenti moderni. Presenti da sempre nella storia dell'evoluzione umana. L'idea che esista una storia classica mai segnata da rotture e crisi è, come dimostrerà l'eccellente testo L'antirinascimento scritto da Eugenio Battisti nel 1989, solo un mito. Ad arte inventata proprio dagli accademici e dai classicisti.

Tra i contributi emerge anche l'intervento di Gianni Vattimo del 1989, dal titolo: La società trasparente. Il saggio completa idealmente una fortunata raccolta di scritti, curata dallo stesso autore, edita nel 1983, dal titolo Il pensiero debole e il libro La fine della modernità, pubblicato da Garzanti nel 1985. La società contemporanea, afferma Vattimo, è autenticamente pluralista, ed è l'unica che pone come suo valore costitutivo l'accettazione dell'altro. L'estetica del sublime che caratterizza il nostro tempo non ha la funzione di realizzare una nuova unità, ma di aprire a questa pluralità.

Lo stato di spaesamento è da intendersi oramai come definitivo e non provvisorio. L'arte però, paradossalmente, oggi non è individualista. È comunitaria: crea contesti in cui alcuni individui possano riconoscersi, con la consapevolezza che esistono altri problemi, altre risposte, altri universi, altre comunità. La ricerca del bello tenderà a liberare l'ornamento e ad alleggerire l'essere. Liberare l'ornamento nel senso che d'ora in poi l'artistico si imporrà come valore aggiunto ai prodotti, come loro necessario accompagnamento. Alleggerire l'essere perché si tenderà sempre più a dissolvere la forma a favore dell'evento. E ciò segna la fine dell'estetica dell'oggetto, ma anche l'inizio della poetica del coinvolgimento e dell'interrelazione.



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3. Estetica del sublime

Ridefinire il punto di vista. Abbandonare la visione prospettica convenzionale. Ecco il primo imperativo operativo della nuova estetica del sublime. Serve per osservare ciò che normalmente sfugge, ma anche per proporre letture intellettuali, non empiriche, dell'oggetto poetico. La giovanissima Zaha Hadid propone di osservare i propri progetti giacendo appiattiti sulla terra (lo ribattezza: worm's eye view cioè punto di vista del verme), da un razzo che si eleva verso l'alto, oppure componendo, alla maniera dei cubisti e dei futuristi, diverse viste in un unico quadro astratto. Peter Eisenman mette in assonometria il plastico di una abitazione, applicando ad un mezzo tridimensionale regole della proiezione bidimensionale e realizzando così un oggetto che, per non essere percepito come aberrato, deve essere osservato solo da un particolare punto di vista in cui le linee sghembe riappaiono come perpendicolari. Una sorta di anamorfosi che distrae l'osservatore dalla lettura tradizionale del progetto per indirizzarlo verso l'analisi dei rapporti, grammaticali o sintattici, che legano le singole parti dell'oggetto. Libeskind produce disegni stratificati, quasi incomprensibili, dove si sovrappongono uno o più punti di vista empirici con notazioni concettuali.

Lo spazio, prima considerato omogeneo e continuo, per essere meglio letto, viene frammentato. Così anche il tempo: può essere dilatato o ristretto all'infinito. La tecnica è ripresa dalla fotografia, ma soprattutto dal cinema. Dove negli anni ottanta regna l'effetto moviola (tre film per tutti: Nove settimane e mezzo, Flashdance, Quella sporca ultima meta) con riprese accelerate in funzione emotiva o girate al rallentatore per permettere all'osservatore di entrare all'interno dell'attimo di massima intensità. La break dance spezza i movimenti secondo ritmi sincopati. Georges Perec frammenta in una sorta di puzzle il caseggiato in cui si svolge l'azione di quel capolavoro della letteratura contemporanea che è La vita: istruzioni per l'uso.

Variante del decentramento del punto di vista è il gioco degli specchi. Rimandano all'infinito le informazioni e le immagini che vi vengono proiettate. Sugli specchi è il titolo di una raccolta di saggi di Umberto Eco apparso nel 1985 e Arte allo specchio il titolo della mostra alla Biennale del 1984 curata da Maurizio Calvesi. Ricordiamo, poi, sullo stesso tema True Stories di David Byrne e la metafisica triangolazione degli sguardi che segna i tre romanzi della The New York Trilogy scritti dall'esordiente Paul Auster (1985/86). Di riflessione è fatto il gioco delle citazioni e delle analogie dei postmoderni. Con gli specchi si confronta Tschumi quando fa progettare i propri studenti a partire da testi di James Joyce e Italo Calvino. Eisenman, attraverso lo scaling, mette in relazione proiettiva il progetto con se stesso, con i precedenti e con riferimenti esterni all'ambito disciplinare.

Altra caratteristica dell'estetica del sublime che segna gli anni ottanta è la preferenza per opere che non rispondono ai canoni della normalità, della bellezza, della misura, della grazia. Si preferiscono l'eccentrico, l'eccesso, l'ambiguità, l'antigrazioso, la dismisura.

Affermano Wolf D. Prix e Helmut Swiczinsky di Coop Himmelb(l)au: "Non c'è verità. Non c'è bellezza nell'architettura". Affermazione che è fatta propria dalla gran parte degli architetti impegnati nella ricerca figurativa del periodo che non esitano a proporre architetture appena abitabili, fuori scala, spesso di dimensioni eccessive, segnate da squarci e lacerazioni. Bernard Tschumi, come abbiamo visto, promuove la poetica dell'eccesso ispirandosi direttamente alla riflessione del marchese de Sade. D'altronde, gli anni ottanta introducono nel costume di tutti i giorni l'estetica dell'infrazione. Nei comportamenti sessuali: si pensi a Ultimo Tango a Parigi o a Il portiere di notte dove si infrange uno dei più indicibili tabù, registrando la perversa relazione sadomasochista tra vittima ebrea e carnefice nazista. Nella identificazione sessuale: con personaggi ambigui quale Boy George, Madonna, Prince, Renato Zero. Nell'appartenenza razziale: Michael Jackson. Nel vestiario: dove si oscilla tra lo stile punk e il casual trasgressivo. Nei comportamenti artistici: con il fenomeno della Transavanguardia in cui l'antigrazioso è il prezzo da pagare per ri-immettere l'arte nel circuito della figuratività oppure del Graffitismo, in cui grandi superfici di caseggiati o di stazioni metropolitane, dipinte illegalmente durante la notte, si impongono, sia pur come controviolenza urbana, al pubblico dei passanti.

Altra caratteristica dell'estetica del sublime è l'elogio del sentimento, dell'atto autentico anche se incoerente, del gesto. Coop Himmelb(l)au produce i propri progetti fondandoli su una discussione cui seguono alcuni scarabocchi eseguiti quasi in stato di trance. Fuksas, come abbiamo già visto, realizza i propri lavori a partire da un quadro in cui sinteticamente e intuitivamente fissa i termini del problema. Zaha Hadid schizza le proprie idee in disegni intensi realizzati di getto. Anche un personaggio freddamente intellettuale quale Rem Koolhaas confessa che, dietro al funzionalismo, si cela un'estetica del fantastico che ha non poche attinenze con le ricerche dei surrealisti e degli artisti dada. Gehry, infine, non ha esitato nella Biennale di Venezia del 1985 a travestirsi da Frankie P. Toronto, mimando con goffi vestiti da lui stesso disegnati la rigidezza dell'architettura tradizionale per mostrare, in antitesi, la gestualità liberatoria dell'architettura contemporanea.

Vi è poi il gusto della contaminazione, al limite del pasticcio stilistico. Che può rivelarsi nel gioco, spesso stucchevole, dei frammenti e delle citazioni Post Modern. Due esempi tra i meglio riusciti: la Staatsgalerie di James Stirling a Stoccarda e l'ampliamento della National Gallery di Robert Venturi e Denise Scott Brown a Londra. Ma vi è anche il raffinato succedersi delle citazioni moderne messe in atto da Rem Koolhaas in edifici quali Villa Dall'Ava o nel progetto per il polo museale a Rotterdam, dove Mies, Le Corbusier, i Suprematisti sono chiamati in causa sino al limite del plagio. O il pastiche di oggetti disorganici raccolti da Nigel Coates, allievo di Tschumi alla Architectural Association, oppure proposti da Gehry nella Loyola Law School e negli Uffici Chiat-Day-Moyo di Los Angeles dove il corpo di ingresso, a forma di binocolo è una scultura pop a scala gigante. In un atteggiamento di sincretismo culturale simile a quello che negli stessi anni si riscontra in film quali I Predatori dell'arca perduta, nei quali generi diversi compongono una nuova e piacevole compilation di fanta-avventura, o nella complessa struttura de Il nome della rosa di Umberto Eco, insieme romanzo, opera storica, trattato erudito e compendio filosofico.

Tiepidi verso le strutture chiuse, gli artisti degli anni ottanta si avventurano verso configurazioni instabili, sondano i processi di metamorfosi, amano gli ibridi che esprimono perfettamente tensioni e forze, ma non le ingabbiano in un assetto statico. René Thom e Benoit Mandelbrot, che nei primi anni Settanta avevano studiato i fenomeni naturali legati alla discontinuità e approntato strumenti matematici per lo studio dei frattali, sono scoperti dagli artisti verso la fine dei Settanta e diventano di moda nei primi anni Ottanta. 

Nel 1979 lo scienziato Ilya Prigogine scrive La nouvelle alliance. La tesi è dirompente e apre scenari sui quali lavorare per almeno due decenni: ciò che prima sembrava essere segnato dal caso e dall'imprevedibile capriccio del tempo oggi, con le nuove scienze della complessità, è perfettamente spiegabile e modellizzabile. Non vi è quindi più motivo di pensare che esistano due culture, le diacroniche dell'uomo e le sincroniche che si occupano dei fenomeni fisici. Il tempo, misuratore di tutte le cose, rientra ugualmente negli interessi degli scienziati e degli artisti. Quindi è bene procedere insieme. È quanto cerca di sostenere la mostra L'Arts et le temps: regards sur la quatrieme dimension svoltasi a Bruxelles nel 1984, nel cui catalogo figura appunto un lungo saggio di Prigogine. E la cui copertina riproduce il quadro di Salvator Dalì L'Heure triangulaire del1933, il quale nel 1981 aveva eseguito anche un Omaggio a Thom per visualizzare in termini pittorici la teoria delle catastrofi.

Negli anni dal 1982 e il 1984 vi è un fiorire di pubblicazioni sui temi della morfogenesi, della complessità, dei frattali, delle nuove prospettive delle scienze della natura. Ecco alcuni titoli: Omar Calabrese e Renato Giovannoli, Teorie della paura (1982); Gilbert Leliévre, Penser les mathématiques (1982); Giorgio Carreri, Ordine e disordine nella materia (1983); Tito Tonietti, Catastrofi (1983), Pietro Meldini, Katastrofe'; Omar Calbrese, Catastrofi e teoria dell'arte (1984).

Nel 1985 la centralità del tema della complessità è assodata: diventa una sfida sulla quale si possono imbastire sofisticati convegni. Nel 1986 il critico Gillo Dorfles scrive -forse anche sulla scia di un premonitore saggio di Carmine Benincasa del 1978 dedicato alla teoria delle catastrofi in architettura- Elogio della disarmonia, un libro nel quale giustifica, appoggiandosi alle recenti scoperte della scienza, le preferenze degli artisti contemporanei per le configurazioni non classiche.

L'utopia dell'unità tra scienza e arte si fonda però su un equivoco. Che la specializzazione disciplinare vanifica ben presto. E' facile, infatti, costatare che gli scienziati hanno una visione superficiale dell'arte e gli artisti una formazione scientifica dilettantesca. Le forme senza stabile configurazione ispirano, in primo luogo, i registi con film che vanno dall'intellettualistico Zelig di Woody Allen, un uomo camaleonte che si adatta a tutte le situazioni che incontra, ai divertenti Gremlins e Un lupo mannaro a New York, che inaugurano un genere di horror comico, sino ai fantascientifici E.T. e Star Wars in cui le immagini ibride servono per ricostruire mondi e personaggi alieni.

E' la teoria delle catastrofi che maggiormente affascina negli anni ottanta gli architetti. Con la morfogenesi faranno i conti soprattutto nel decennio successivo. I SITE sin dalla prima metà degli anni settanta erodono, sdentellano, distorcono i loro edifici come se avessero subito un terremoto o un cataclisma. Günther Domenig realizza sul finire degli anni 80 una banca che sembra essere il risultato di un processo di torsione e metamorfosi. Coop Himmelb(l)au disegna nel 1983 Open House e il complesso di appartamenti di Vienna 2, con forme traumatizzanti e traumatizzate, fatte da geometrie complesse, spigoli vivi, linee forza polidirezionate lungo lo spazio.

Sull'estetica del disordine e del caos lavorano Tschumi e Koolhaas nei loro progetti per il concorso del parco della Villette e Zaha Hadid nel concorso per The Peak. Vi sono poi i temi paralleli del labirinto, dell'entropia, della delocalizzazione, dello smarrimento. Sempre più frequentemente sono svolti con l'aiuto di tecnologie informatiche, che queste complessità permettono appunto di controllare. D'altronde, l'ipertesto, che è uno dei portati della scrittura tramite elaboratore, non è poi altro che un labirinto, nel quale è possibile smarrirsi se non supportati dal filo d'Arianna delle nuove culture. E la deformazione e l'anamorfosi, che negli anni precedenti, richiedevano abilità manuali e tecniche prodigiose sono enormemente facilitate dai nuovi media che, fondati su processi di proiezione e traduzione rapidissimi, le rendono facili e immediate.



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4. Layer

1983. I riflettori si accendono sulla Architectural Association per merito di tre architetti che, prima si sono formati e poi hanno insegnato nella stimolante scuola londinese. Sono Bernard Tschumi, Rem Koolhaas, Zaha Hadid. Tschumi vince il concorso per il parco della Villette. Koolhaas, già noto per la sua instancabile attività promozionale, realizza per lo stesso concorso un progetto premiato e subito notato dalla stampa internazionale. Zaha Hadid, appena trentatreenne, si aggiudica il concorso per un complesso abitativo e ricreativo sovrastante la città di Vittoria a Hong Kong. La rivista The Architectural Review, coglie l'occasione per dedicare alle attività della scuola il numero di ottobre. Si apre con una introduzione di Colin Davis, un'intervista ad Alvin Boyarsky, l'eccezionale direttore che ne ha assunto la guida nel 1971, e con un articolo di Peter Cook che ne ricostruisce la storia, nella quale spicca il contributo degli Smithson e degli Archigram (dei quali, detto per inciso, Cook è stato esponente di punta).

Segue una antologia dei lavori prodotti dagli studenti nell'ultimo decennio. Vanno dai progetti visionari della Unit 6 di cui sono stati responsabili Peter Cook, Christine Hawley e Ron Herron; al post modernismo razionalista dell'Unit 4 di Rodrigo Perez de Arche e René Davids; all'espressionismo magico di Dalibor Vesely e Moshen Mostafavi; all'astrattismo della Unit 5 diretta da Mike Gold; al situazionismo e intellettualismo degli studenti di Bernard Tschumi e di Nigel Coates; al suprematismo neofunzionalista della Unit 9 di Elia Zenghelis, Rem Koolhaas e, poi, Zaha Hadid.

Il numero si conclude con l'illustrazione dei progetti di Zaha Hadid e Peter Cook per The Peak e di Tschumi e Koolhaas per il parco della Villette. Il progetto di Zaha Hadid per Hong Kong è un complesso formato da longilinei corpi di fabbrica precariamente assemblati lungo il pendio della collina. Sono 5 strati, o layer, come li definisce la Hadid prendendo in prestito la terminologia dal linguaggio del computer. Il primo è composto da 15 appartamenti duplex; il secondo è formato da due piani in ciascuno dei quali sono organizzati dieci alloggi simplex; il terzo è un vuoto di 13 metri di altezza nel cui interno, come satelliti, flottano gli spazi destinati al club: palestre, spogliatoi, stanze per attività sociali; il quarto layer è occupato da quattro attici con vista sulla baia; il quinto è riservato all'alloggio privato del promoter dell'iniziativa edilizia. Ciascuno strato ha una configurazione lineare. Ma ognuno, orientato verso una propria direzione, si dispone lungo lo spazio in modo diverso. Da qui una intensa forza dinamica che sembra fare violenza alla collina. Quasi un movimento sismico: a gentle sismic shift on an immovable mass, dirà la Hadid.

Tuttavia le linee forza, rappresentate dagli snelli corpi di fabbrica, quasi volano in aria e quindi non hanno nulla della terribilità ctonia di un terremoto. Il vuoto intermedio del terzo layer fa perdere consistenza di massa all'edificio, rendendolo vibrante. Così come vibranti sono il quarto e il quinto piano che galleggiano, sorretti da esili pilastri. L'edificio è , insomma, un oggetto che si confronta con la natura ma non vi si sovrappone distruggendola: defies nature -afferma la Hadid- and resist destroyng it. Risposta insieme contestuale e astratta a un problema di inserimento ambientale. Nel presentare il progetto la Hadid gioca su un doppio piano. Da un lato adopera disegni e grafici di intensa bellezza, ma spesso di difficile decodificazione perché caratterizzati da punti di vista deformati e aberrati oppure dalla sovrapposizione delle piante sino a formare una sorta di sistema astratto. Dall'altro, sul versante costruttivo, la Hadid propone forme di elementare purezza geometrica, segnate da colori primari. La complessità non è quindi nell'oggetto in sé e per sé, ma nell'esperienza percettiva, cioè nel continuo cambiamento di orizzonte richiesto dalla forme che liberamente si dispongono nello spazio. Il bisogno di percepire da infiniti punti di vista gli oggetti flottanti implica un debito storico con la pittura e scultura costruttivista e suprematista.

La Hadid lo dichiara e non esita anche a far progettare i propri studenti a partire da quadri di Malevich, Tatlin o Rodchenko. E' un approccio formalista. Ma che deriva da un imperativo etico funzionalista, fondato sulla considerazione che non sono solo gli aspetti programmatici a determinare le forme ma che, al contrario, sono soprattutto queste ultime che consentono nuovi, inaspettati e liberatori modi di organizzare le cose. Se il mondo è costruzione di figure, è solo selezionandole che possiamo recuperare uno sguardo puro, ripulirci delle sovrastrutture concettuali, pensare a nuove e più autentiche relazioni funzionali. Compreso, come avviene nel The Peak, al recupero della dimensione paesaggistica. Lo nota Peter Buchanam, l'autore del commento critico sul The Architectural Review. Il quale, nello stesso tempo non può fare a meno di osservare che così come il progetto della Hadid, che dovrebbe essere urbano, si contraddistingua per il notevole valore ambientale, i lavori di Tschumi e di Koolhaas, che si occupano della progettazione di un parco, abbiano invece una dimensione antinaturalistica, metropolitana.

Caratteri comuni dei progetti di Tschumi e di Koolhaas e della Hadid sono la decisa scelta di campo neomodernista e l'impostazione del progetto sulla logica dei layer. Abbiamo già avuto occasione di accennare alla polemica condotta, dall'interno dell'Architectural Association, contro l'abbandono della poetica del movimento moderno. Se per la Hadid occorre recuperare la tradizione modernista in Russia, in particolare il suprematismo di Malevich, per Koolhaas e Tschumi i riferimenti sono soprattutto al razionalismo architettonico e alla prima pittura astratta: é evidente il debito di Tschumi verso Kandinsky e di Koolhaas verso Klee.

Per quanto riguarda la logica per layer, occorre sottolineare che, mentre la Hadid la adopera per individuare linee forza tra di loro coordinate, Tschumi e Koolhaas ne fanno uso per prefigurare livelli tra loro autonomi che, una volta sovrapposti, determinano configurazioni impreviste. Tschumi individua tre layer: il livello dei punti, delle linee, delle superfici. I punti sono le follies, costruzioni che formano una griglia con passo di 120 metri. Sono strutture, indifferenziate, industriali, organizzate su un reticolo cubico di 10x10x10m. In ognuna delle follies sarà ospitata una funzione diversa dalle altre e ciascuna avrà una sua particolare forma, determinata da permutazioni casuali dei suoi elementi di base. Le linee sono i percorsi -uno composto da due assi tra loro ortogonali e uno a serpentina- e i muri. Le superfici sono gli spazi dove si svolgono le attività e hanno varie forme, alcune elementari- triangolare, circolare, rettangolare- altre più complesse.

Koolhaas di livelli ne individua cinque. Sono: le fasce cioè sottili strisce rettangolari caratterizzate ciascuna da una funzione; i coriandoli cioè attività puntiformi -quali chioschi, aree per il picnic o per il gioco dei bambini- distribuiti, come suggerisce il nome, casualmente; gli assi di accesso e di circolazione tra cui il boulevard principale che corre da nord a sud; le emergenze tra le quali i musei, gli edifici preesistenti e due collinette artificiali; le connessioni alle parti di città circostanti.

Vale la pena, anche perché la tecnica dei layer sarà ampiamente ripresa durante gli anni ottanta e novanta, analizzare in dettaglio i tre passaggi concettuali su cui si fonda.

Primo: si elencano gli aspetti programmatici richiesti.
Secondo: si ricompongono gli elementi disaggregati, accostandoli secondo un principio debole di ordine.
Terzo: si sovrappongono i layer secondo una logica che può essere prevalentemente o esclusivamente casuale. 

Il motivo per il quale si azzera e, poi, si compila l'elenco degli aspetti programmatici è chiaro: occorre scrollarsi di dosso le soluzioni preconfezionate, sotto forma di schemi, tipologie o morfologie consolidate. L'innovazione, diversamente da quanto sostengono i postmodernist, nasce solo a seguito della cesura con il passato.

Il principio debole di ordine deriva dal sospetto verso le strutture dove tutte le parti sono correlate in modo tale che nulla può essere aggiunto o sottratto senza alterare l'equilibrio complessivo perché determinano configurazioni funzionali bloccate e tali da non presentare alcuna flessibilità. Si preferiscono, invece, organismi semplici, legati da forze deboli, al limite dal semplice accostamento. Abbiamo già avuto modo di notare che Rem Koolhaas mutua questo atteggiamento dalla lezione dell'urbanistica e dell'architettura newyorchese: rispettivamente dal piano a scacchiera e dal grattacielo. È il tentativo di superare la cultura strutturalista accostandosi a tecniche di aggregazione basate sulla logica rizomatica di Deleuze e Guattari.

La sovrapposizione dei layer risponde a un duplice imperativo: della complessità e della casualità. Complessità perché sovrapponendo le funzioni si ottengono ambienti stimolanti e non monotematici. Casualità perché la sovrapposizione dei layer, avvenendo con ampi margini di arbitrarietà, introduce l'imprevisto. Per inciso: non è difficile intravedere espliciti riferimenti alle teorie di René Thom, Benoit Mandelbrot, Ilya Prigogine, rielaborate liberamente alla luce delle nuove possibilità operative, offerte dai programmi di disegno su computer che proprio sulla logica dei layer sono basati.

Mescolando insieme azzeramento tipologico, frammentarietà, aleatorietà, i progetti di Koolhaas e Tschumi emergono. Indicano una nuova direzione di ricerca che sfugge ad altri concorrenti -anche esponenti dell'avanguardia- che, invece, preferiscono ripercorrere strade consolidate fatte di messe in scene teatrali, valori simbolici, complesse elaborazioni formali. Nutrita la presenza italiana, con progetti, anche di notevole interesse tematico, ma interni al dibattito teorico -tra tipologia edilizia e morfologia urbana- in corso tra le scuole di Venezia, Roma e Milano. Si differenzia la proposta di Luigi Pellegrin che prevede due macrostrutture, a forma di ventaglio, che fronteggiano i due principali edifici del parco: la Grande Halle e il Museo della Scienza e della Tecnica. Ciascun ventaglio è una incantevole sequenza di luoghi di incontro e spazi funzionali, coperti da una elegante struttura a sezione inclinata sulla cui sommità è piantato un parco artificiale. "Sono- afferma la relazione di progetto- due palme ravvicinate che si offrono come protezione e, allo stesso tempo, come proiezione del cielo".

Realizzano due mondi: uno sotterraneo fatto di forre, cave e luoghi ammorsati nel terreno e uno solare, aereo, sospeso su una collina artificiale con inaspettate valenze paesaggistiche. La macrostruttura inclinata, sorretta da un limitato numero di piloni, per non compromettere la fruibilità in orizzontale del parco, funge anche da supporto alla viabilità pubblica e privata e alle reti che servono gli edifici direzionali posti a coronamento dei ventagli. Il progetto, nell'insistere su un tema -le macrostrutture- oramai trascurato dal dibattito architettonico, è volutamente fuori moda. Ma nella sua lucida utopia, ha la chiarezza di una dimostrazione matematica. I problemi della nostra epoca -afferma Pellegrin- non si risolvono né con il raffinato formalismo proposto dai giovani emergenti, né con le composizioni che rifanno il verso alle città e ai giardini storici, né con l'ecologismo che teme di confrontarsi con il costruito. Ma con soluzioni che li affrontano, risolvendoli alla radice. È l'atteggiamento positivo di Paolo Soleri, di Frank Lloyd Wright ma, soprattutto, di Buckminster Fuller.

La città ha bisogno di verde? Allora, tanto vale costruire supporti attraverso i quali raddoppiarne la presenza. Servono luoghi per gli incontri? Realizziamoli, ma collegandoli con il sistema dei trasporti. La viabilità può compromettere il sistema degli spazi destinati ai pedoni? Sopraeleviamola. Attenzione, però, i problemi non vanno risolti uno per uno come se fossero indipendenti tra loro. Si correrebbe il rischio di ricadere nei famigerati miti tecnicistici degli anni Sessanta. Per evitare i quali Pellegrin riprende da Buckminster Fuller il concetto di sinergia. Le singole scelte, in altre parole, interagiscono per ottimizzare il benessere umano che non è solo fondato su standard tecnici (velocità degli spostamenti, costi di costruzione, produttività) ma anche e soprattutto psicologici e formali. Visto in questa luce l'obiettivo dell'architetto coincide con quello dello scienziato individuato da Prigogine: realizzare una nuova alleanza nelle quale la tecnologia e le scienze umane lavorano insieme. In cui si produca con e non contro la natura.

Ma la proposta, così come dimostreranno i concorsi ai quali Pellegrin in questi anni parteciperà con progetti visionari anche se tecnicamente accurati sino al dettaglio della vite, spaventa. Richiede una concezione dell'investimento a lungo termine in cui i maggiori costi iniziali sono compensati non da dividendi immediati ma da benefici futuri. E, inoltre, un coordinamento di risorse tecniche e produttive che travalica la tradizionale parcellizzazione delle competenze (chi realizza le abitazioni e gli uffici, chi il parco, chi la viabilità, chi le reti…). Così all'anacronismo di una utopia, realizzabile ma totalizzante, si preferirà il realismo di una nuova generazione che tenderà a circoscriversi un campo d'azione più limitato, spesso esclusivamente sovrastrutturale, in cui i problemi saranno rappresentati formalmente piuttosto che risolti tecnicamente. 



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5. Architettura e natura

1979. Sym van der Ryn, un architetto dello stato della California che insegna a Berkeley, scrive, con Sterling Bunnell, The Integral Urban House: dopo la crisi energetica del 1973, afferma, non è pensabile andare avanti come se nulla fosse successo; occorre guardare alla natura con un atteggiamento nuovo, fondato sul concetto di informazione. Se l'entropia, la dissipazione energetica e lo spreco ne determinano la perdita, la negentropia -cioè la somma di tutti i processi vitali che catturano e trasformano l'energia in forme che possono essere utilizzate- ne permette, all'inverso, la conservazione. Si ottiene realizzando sistemi dove la memoria è custodita; i meccanismi di regolazione sono spontanei e automatici (self regulating); i rifiuti sono ridotti al minimo; prevalgono i concetti di diversità, complessità, stabilità; è presente un alto numero di specie; i prodotti sono multiuso; l'energia tende ad essere riutilizzata.

Da qui l'invito per una biomorphic aesthetic fondata su forme naturali in grado di favorire, e non solo rappresentare, questi processi. La proposta di Sym van der Ryn ha un certo successo pratico, soprattutto tra i progettisti, in prevalenza nordeuropei e americani, che in questi anni si stanno dedicando allo sviluppo di energie alternative da applicare al mondo delle costruzioni. E contribuisce a impostare la ricerca nei suoi giusti termini: superare la fase del rifiuto -degli edifici, delle infrastrutture, del cemento- per una consapevolezza costruttiva che si ponga l'obiettivo di rivedere e ottimizzare i flussi di informazioni tra natura e architettura. Come però ciò possa avvenire, producendo risultati di interesse estetico, rimane un problema aperto che travalica l'impostazione, a volte ingenuamente naturalistica, del suo autore.

Una risposta la fornisce James Wines dei SITE. Se la natura è informazione -e di valore superiore rispetto a quello fornito da facciate, finestre, colonne e portali- occorre che diventi parte integrante della costruzione, sostituendosi a questi elementi tradizionali oramai consumati dall'uso. Così nell'Hialeah Showroom del 1979, dietro alla facciata in curtain wall, Wines colloca una serra con flora locale, comprensiva di acqua, sabbia, terra e sassi. La serra ha il compito di favorire il bilancio termico ma allo stesso tempo, diventa il reale prospetto dell'edificio con un effetto di spaesamento che produce plusvalore estetico e didattico.

Operazione analoga la compie nel Forest Building del 1980, con una facciata in mattoni staccata dal corpo principale dell'edificio per lasciare tra i due sufficiente spazio per farvi crescere una abbondante vegetazione. Che mette in discussione l'immagine unitaria della costruzione, legandola, nel frattempo, al contesto naturale nel quale si inserisce. 

Vi è, infine, la proposta per lo High Rise of Homes una struttura a gabbia in cemento nel cui interno i singoli utenti potranno collocare le loro villette unifamiliari. L'idea è ripresa dal piano Obus di Le Corbusier, con la differenza che mentre per l'architetto svizzero è la macrostruttura che serve a dare unità alle scelte individuali, nel caso di Wines sono le preferenze dei singoli a dare carattere alla struttura. Inoltre lo High Rise of Homes, moltiplica lungo i piani la dotazione di verde e diminuisce, concentrando in maniera puntiforme la densità, la pressione degli spazi edificati sul territorio. E' l'indicazione di un possibile nuovo metodo di lavoro. Sarà sviluppato, a distanza di quasi venti anni, all'expo' di Hannover del 2000 dove il gruppo olandese MVRDV realizza una struttura in cemento e verde, fondata su concetti simili.

La nuova consapevolezza ecologica, secondo Wines, muove nella direzione dello smantellamento del mito dell'architetto demiurgo. Promuove la partecipazione e l'autocostruzione. Aborre la produzione di oggetti scultorei, in cui l'interrelazione tra uomo e opera avviene a senso unico. È la stessa direzione verso la quale da tempo lavorano Lucien Kroll e Ralph Erskine -anche loro attratti da un'idea ecologica, sia pur nel senso di ecologia umana- e Aldo Van Eyck e Giancarlo De Carlo i quali nella prima metà degli anni ottanta mettono in cantiere rispettivamente una casa per bambini orfani ad Amsterdam e le case popolari a Mazzorbo, due strutture coinvolgenti e di grande energia vitale.

Nello stesso anno 1981 in cui Wines propone lo High Rise of Homes, Maya Lin, una studentessa non ancora ventunenne, vince, con un progetto di alto valore paesaggistico, il concorso per la realizzazione del Vietnam Veterans Memorial nel Mall di Washington. Il monumento è fatto di pochi segni: una zona del terreno, delimitata da due tagli secchi, viene incassata mentre a raccordare il dislivello creato si provvede con una lastra continua di granito nero sulla quale sono incisi i nomi di tutti i soldati caduti. Sembra una scultura di Land Art nella tradizione di Robert Smithson, Richard Long, Michael Heizer, ma rivista con la sensibilità e l'ingenuità di una adolescente.

L'estrema semplicità dell'opera scatena numerose proteste: troppo minimalista, laconica, eccessivamente moderna. Non si perdona all'artista l'assenza di statue commemorative di eroi che cadono brandendo un'arma o una bandiera. Disturba, soprattutto, la scelta del silenzio per ricordare la guerra. Un silenzio insopportabile per un monumento collocato nel cuore simbolico della nazione, vicino al Lincoln Memorial, al Washington Memorial e al Campidoglio, cioè la sede del Congresso degli Stati Uniti. Vi é infine un pregiudizio di ordine razziale -naturalmente detto a mezza bocca o lasciato trasparire tra le righe. Maya Lin, figlia di due intellettuali scappati dalla Cina di Mao Tze Tung, è di origine asiatica quindi poco adatta a ricordare una guerra, le cui ferite non sono ancora rimarginate, avvenuta proprio in Asia e che è costata la morte di 57.000 soldati americani.

Il Memorial tra sforzi e interrogativi viene realizzato nel 1982. Diventa subito un'icona popolare che accoglie 2.500.000 visitatori l'anno. Alcuni non riescono a trattenere la commozione di fronte alla vista del gelido ma sin troppo eloquente elenco di morti. Altri cercano tra i tanti il nome del proprio caro e lo ricalcano, con la tecnica del frottage, su fogli di carta. Altri ancora, rispecchiandosi nel granito, intravedono la propria immagine che si sovrappone alla lista dei caduti: o, come vuole la fantasia e l'iconografia popolare, l'immagine del soldato che appare attraverso il riflesso della pietra.

Parlando a proposito del Vietnam Veterans Memorial, il critico americano Vincent Scully non risparmia gli elogi: afferma che il progetto "ha innescato il radicale cambiamento di una coscienza collettiva" e, infine che è "l'opera architettonica più significativa mai edificata nella seconda metà di questo secolo".

Si fa strada l'idea che si possa progettare con il verde, riducendo l'intervento architettonico a poche e selezionate emergenze. Gunnar Birkerts si muove in direzione dell'annullamento dell'architettura, nascondendola sotto terra in edifici ipogei di notevole interesse. Wines, dopo il concorso del 1983 per il museo d'arte moderna di Francoforte- in cui circonda l'edificio con un serra a meno di un lato decostruito e sull'orlo del crollo- propone nel 1985 un edificio per l'Ansel Adams Center quasi totalmente interrato e ricoperto dal prato del giardino. È tuttavia di Emilio Ambasz la proposta più convincente con il progetto per il Lucile Halsell Conservatory a San Antonio in Texas (1985-1988). Dal prato emergono inquietanti lucernari e si aprono pozzi, suggerendo, con le loro presenze, una vita insieme arcaica e tecnologicamente sviluppata che si svolge nel sottosuolo.

È un modo intelligente di sviluppare, il nono comandamento dell'ecologia che Nancy Jack Todd e John Todd hanno messo a punto nel 1984 sulla scia dell'insegnamento di Buckminster Fuller e Gregory Bateson: la progettazione ecologica deve valorizzare l'aspetto sacrale della natura.




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6. Architecture is now

Nel 1983 Wolf D. Prix e Helmut Swiczinsky progettano Open House. La casa, di circa 100 mq., è una forma nata di getto. È lo sviluppo di uno schizzo eseguito a occhi chiusi, a seguito di una discussione tra i due soci. Afferma Prix: "l'architettura è vitale quando può essere sentita; è l'attimo in cui il progetto viene fuori senza mediazioni. È questo il momento in cui vacillano le pressioni che provengono dall'esterno ed è superato il principio di casualità. L'architettura è adesso". Open House è un ambiente senza funzioni precostituite, aperto, come suggerisce il nome: "chi lo abita deciderà come viverci".

I due architetti sono affascinati dai loft, dagli spazi industriali che presentano la massima flessibilità. Aborrono le architetture rigidamente monofunzionali. Sanno che la logica "form follow function", la forma segue la funzione, è la stessa che si applica nella catena di montaggio, che mortifica il corpo costringendolo a produrre movimenti meccanizzati. Come nella cucina di Francoforte, nata con lo scopo di ridurre gli spazi, ma rivelatasi una trappola che lo riduce l'utente a comportarsi da marionetta, come un automa programmato a tavolino. La casa, continua Wolf, non è un edificio ma un sentimento.

Solo in questo modo è possibile sfuggire alla banalità che inesorabilmente ammanta ogni realizzazione edilizia: "L'architettura è noiosa -continua- parlare di architettura per più di 10 minuti è un tormento… Noi non reagiamo all'architettura ma alla vita". La quale non emerge né dalle leggi storiche, né dai bisogni del cliente, né dagli aspetti economici.

Organizzata su due livelli che affacciano su uno spazio a doppia altezza, Open House è introversa perché delimitata in parte da muri ciechi che ne sottolineano la forma a guscio. Ma estroversa per le grandi vetrate curve che, sostituendosi al soffitto, lasciano trasparire il cielo e per un balcone che, lacerando l'involucro murario, si proietta a sbalzo sull'ambiente circostante. 

Sempre del 1983 è il Residential complex a Vienna, un condominio in cui gli appartamenti sono collegati da piani inclinati e lambiti da una struttura che simbolicamente rappresenta un tetto in fiamme (un elemento questo che appare già nel progetto Hot Flat del 1978 e più volte ripreso da Coop Himmelb(l)au). La configurazione dell'edificio è caotica. Della sua logica, poco e nulla si capisce dall'esterno. Del resto, come affermano i due soci, non è l'immagine dell'edificio che può rendere conto della razionalità del suo processo costruttivo: "solo se potessimo osservare gli edifici ai raggi X capiremmo in che modo le loro contrazioni e espansioni sono chiare e taglienti".

Dell'anno successivo è la ristrutturazione di un attico in Falkestrasse a Vienna, l'opera più conosciuta del duo austriaco: sarà esposta alla mostra Deconstructivist Architecture. La struttura di ferro e vetro che copre l'appartamento, destinato a studio di avvocati, sembra smottare. Nota Noah Chasin: "la copertura non tenta di armonizzarsi con il palazzo sul quale sta in equilibrio, l'intera struttura potrebbe essere portata via da un leggero vento di brezza, minacciando ad ogni istante di precipitare sulla strada sottostante".

Sembrerebbe un gioco manierista spinto sino all'estremo. Ma in realtà i tagli, le contusioni e le lacerazioni operate da Prix e Swiczinsky poco hanno dell'intellettualismo e del formalismo manierista. Contrappesi, trasparenze, tensioni e torsioni si imprimono come segni sul corpo, ricordando, invece, la materialità della Body Art. Le performance di Marina Abramovic, i tagli di Arnulf Rainer, le autoflagellazioni di Gina Pane e Vito Acconci. Quella stessa Body Art che nella seconda metà degli anni ottanta avrà un momento di rinascita, anche grazie al lavoro di Jana Sterbak, La Fura dels Baus, Andres Serrano, Franko B., Cindy Sherman, Yasumasa Morimura. Da qui la liceità per Wolf D. Prix del paragone tra una casa e un corpo tormentato: "una casa tanto complicata da sembrare l'immagine di un bambino disabile che noi amiamo". E anche il senso di sgomento con il quale i critici d'architettura, abituati alla metafora dell'uomo ideale e del modulor, accolgono l'opera di questi architetti austriaci.

Nel 1984, Coop Himmelb(l)au organizzerà due affollate conferenze a Francoforte e all'Architectural Association di Londra dal titolo Architecture is now. Ne seguirà un manifesto. Segnato da molti no: verso i dogmi architettonici, la ricerca della bellezza, la delimitazione degli spazi architettonici, la certezza delle idee filosofiche, il funzionalismo, la speculazione, i monumenti. E dalla fiducia per l'architettura aperta, per il progetto come un gettarsi nella mischia, per l'immediatezza del sentimento.



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7. Choral Works

Il 1983 è un anno di fermenti per la cultura architettonica americana. Lo IAUS è agonizzante: chiuderà l'anno dopo. Chiude anche Oppositions di cui si prepara, dopo un lungo silenzio, l'ultimo numero. Entrano in contrasto oramai insanabile le due linee che all'interno della scuola americana avevano convissuto: la linea dell'avanguardia e quella conservatrice. Eisenman, che l'anno precedente ha dato le dimissioni dallo IAUS, e sta preparando il suo rilancio professionale, si schiera con la prima. Kenneth Frampton, il critico che aveva contribuito nel 1969 alla scoperta dei Five e che abbiamo visto imporre la presenza di Koolhaas alla biennale di Portoghesi del 1980, ma che da anni lavora sulla fenomenolgia heideggeriana dello spazio, opta decisamente per la seconda. Esce il saggio Prospects for a Critical Regionalism. Viviamo, sostiene, in un mondo sempre più globalizzato che sta distruggendo ogni cultura locale. Invadendo il pianeta con la stessa paccottiglia di prodotti tutti uguali.

Se non si può fermare il processo moderno di civilizzazione, occorre cambiargli la direzione. Fare, come auspica il filosofo Paul Ricoeur, uno sforzo per comprendere in che modo si possa essere moderni e, allo stesso tempo, non perdere il contatto con le proprie origini. In architettura ciò comporta -sostiene Frampton- l'attenzione alle culture regionali, ai riferimenti urbani e geografici e ai valori tradizionali. Senza alcuna concessione al vernacolo, alle imitazioni degli stili locali o alle ricostruzioni alla Disneyland. Quindi non l'eclettismo di Ricardo Bofill, ma il sobrio lavoro sulla tradizione portoghese di Alvaro Siza. La forza creativa di Raimund Abraham, la sensualità messicana di Luis Barragàn e, tra gli europei, Gino Valle, Jørn Utzon, Vittorio Gregotti, Oswald Mathias Ungers, Sverre Fehn e l'ultimo Carlo Scarpa. Tre architetti sembrano, però, incarnare al meglio l'atteggiamento del regionalismo critico: lo svizzero Mario Botta per la sua sensibilità al contesto geografico, il giapponese Tadao Ando per il radicamento nella tradizione costruttiva giapponese e il greco Dimitri Pikionis per il continuo confronto con l'eredità classica della propria terra.

Allo schieramento chiamato in causa da Frampton non appartengono gli architetti radicali. Né le avanguardie: poco hanno a vedere con il regionalismo critico le lacerate strutture di Coop Himmelb(l)au, le composizioni suprematiste della Hadid, il raffinato neomodernismo di Koolhaas, il sensuale intellettualismo di Tschumi.

È quest'ultimo che, nel Maggio del 1985, decide di chiamare Eisenman e Derrida per progettare congiuntamente un giardino all'interno del parco della Villette. Nella prima metà degli anni Ottanta, Jacques Derrida è il filosofo più di moda negli Stati Uniti, tanto citato che il pungente David Lodge, dedica a questa mania addirittura un romanzo di successo (esce nel 1984; sarà tradotto nel 1990 in italiano con il titolo Il professore va al congresso con una entusiastica prefazione di Umberto Eco). Eisenman lo conosciamo già: è stato il fondatore e direttore dello IAUS, l'ex Five, un teorico raffinato, colui che più di tutti ha lavorato sul versante della ricerca architettonica con riscontri, oltretutto, positivi sia dal fronte dei radicali che dei conservatori.

Il lavoro comune farà conoscere Derrida al vasto pubblico degli architetti; rilancerà Eisenman tirandolo fuori dal periodo di crisi produttiva e professionale che sta attraversando; accrediterà Tschumi, che al momento è, insieme a Koolhaas, l'architetto emergente della giovane generazione. Sarà poi occasione per sperimentare concretamente sino a che punto la decostruzione filosofica abbia punti di contatto con le ricerche correnti in architettura. Renderà, infine, riconoscibile a livello internazionale, tramite l'etichetta decostruttivista, un fenomeno che, altrimenti, potrebbe passare relativamente inosservato.

È Derrida a proporre il tema per il giardino della Villette: un brano del Timeo di Platone su Chora, lo spazio di cui si serve il Demiurgo per trasformare le Idee in oggetti mondani. Il brano è uno dei più oscuri del filosofo greco. Per quanti sforzi abbiano fatto gli interpreti, compreso lo stesso Derrida, non si è mai riuscito a capire esattamente di quali qualità godesse questo luogo che non contiene luoghi, insieme limitato e illimitato, omogeneo e disomogeneo. L'intento, però, non è di chiarire il tema. Ma di lavorarci sopra, metterne in gioco le contraddizioni e, insieme, aprire nuove interpretazioni. Eisenman accetta con entusiasmo e, amante dei titoli composti da giochi di parole, battezza l'opera Choral Works, alludendo al lavoro comune, al termine Chora e alla musica corale. Il progetto si fonda su una griglia che richiama quella utilizzata da Tschumi per il parco. Ma soprattutto ricorda la griglia prevista dallo stesso Eisenman per il precedente progetto di Canareggio (1978). Composizione, a sua volta, ideata sulla base di ipotesi del tutto arbitrarie, tratte da una lettura di segni che si sono, letterariamente, virtualmente o anche ipoteticamente sovrapposti sul territorio, quale, per esempio, la ulteriore griglia prevista da Le Corbusier per l'ospedale, progettato ma non realizzato, per Venezia (1965).

È un gioco complesso e perverso di riferimenti a segni di misurazione spaziale e alla loro storia. Un gioco che produrrà anche qualche incomprensione con Tschumi, a proposito dell'originalità della scelta (è Tschumi che ha copiato Eisenman riprendendo la griglia da Canareggio o Eisenman che riprende la griglia che Tschumi ha utilizzato per il parco?). Il lavoro, dopo alcuni incontri con Derrida, si complica di ulteriori segni -reperti del vecchio mattatoio, un setaccio/lira- sino a definire un progetto tracimante di riferimenti intellettuali, di citazioni affermate e subito smentite, di repentini passaggi di scala.

Derrida scalpita anche perché si accorge che Eisenman gli ha preso la mano. Chiude la collaborazione con una lettera che, dietro a un succedersi di allusioni -affermate, smentite e , di nuovo, riaffermate- al rapporto tra Nietzsche e Wagner, accusa Eisenman di wagnerismo, cioè esattamente di quella retorica, fondata sul primato, anzi l'assolutizzazione, dell'io, da cui l'architetto cerca di sfuggire. Eisenman risponde risentito: "probabilmente, afferma, ciò che io faccio in architettura non si può chiamare decostruzione… ma la mia architettura cerca di scrivere qualcosa d'altro, qualcosa che non è la funzione, la struttura, il significato e l'estetica".

In realtà, come è stato sottolineato, Choral Works non è uno dei migliori progetti di Eisenman. Rappresenta un delicato momento di passaggio. A partire dal 1986, pur senza rinnegare la precedente ricerca, l'architetto newyorchese abbandonerà l'esasperato intellettualismo che lo ha sinora caratterizzato per opere formalmente più attraenti, fondate sull'applicazione alla composizione architettonica di codici, mutuati da altre discipline. Il progetto per il Biocentro di Francoforte -che sarà esposto alla mostra Deconstructivist Architecture del 1988- per esempio, utilizzerà la sintassi del DNA. Altri impiegheranno la logica dei frattali o delle algebre boleane.

Nel settembre del 1987 Kenneth Frampton è chiamato a commentare su Domus tre lavori di Eisenman: la Progressive Corporation Headquarters a Cleveland, la Firehouse for Engine Company 233 a New York, la Travelers Financial Center a Hampstead. Sappiamo bene, attacca Frampton, che "la morte di Dio ha avuto molte conseguenze, non ultima quella di doverci arrangiare senza di lui", ma ora che siamo diventati teoricamente liberi da valori, il nostro oggetto del desiderio è diventato oscuro, come sembra dimostrare Eisenman che in questa crisi di valori attiva un atteggiamento formalista poco produttivo. 

Che, se ha il merito di rifiutare le lusinghe del mercato della cultura e le concomitanti manipolazioni dell'attuale consumismo, tuttavia lo porta a una concezione dell'architettura che sembra "un gioco, elaborato come funzione ludica per evitare un confronto più esplicito con la depauperazione del nostro tempo".

Incalza Frampton: "pur continuando a produrre invenzioni estetiche della più elevata intensità e integrità, Eisenman ha persistito nel negare l'importanza poetica degli aspetti costruttivi dell'architettura". Da qui il carattere delle sue opere, astratte e destinate a rimanere sulla carta. È possibile, conclude, assumere il ruolo di artista critico e continuare a costruire? E, inoltre, è possibile indulgere in un estetismo così intenso senza che si smussi la lama tagliente della critica? Ecco riproposte, con altre parole, le obiezioni di Derrida: Eisenman è un esteta e, per quanto cerchi di non farlo apparire, un romantico che gioca perversamente con i frammenti dell'eredità classica, applicandone le logiche formali. O se vogliamo, come qualcuno ha sostenuto, un classico impenitente che non si rassegna alla morte del classicismo: avanguardia post litteram. Strano percorso per un creatore di forme, spesso straordinarie, ma volutamente scisse da ogni e qualsiasi riferimento alla concretezza della vita.



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8. Electronic ecology

Nel 1987, il malese Kenneth Yeang, un ex studente della Architectural Association specializzatosi alla University of Pennsylvania e alla Cambridge University, scrive il saggio Tropical Urban Regionalism. Non è più possibile -sostiene- proseguire nella logica International Style che produce edifici insensibili ai contesti locali: oggetti estranei ai luoghi che possono funzionare solo grazie ad un intollerabile spreco di risorse energetiche. Una maggiore consapevolezza ecologica impone oggi il rispetto della diversità ambientale con strutture che sappiano relazionarsi con il clima locale. Perché ciò avvenga, occorre rivoluzionare il modo di concepire gli edifici che non saranno più oggetti isolati e autoreferenziali ma filtri ambientali in grado di attivare scambi tra il macroclima esterno e il microclima interno. Ciò può venire attraverso l'uso dell'informatica e la realizzazione di edifici intelligenti che ricevono informazioni dall'esterno, le elaborano e, di conseguenza, attivano strategie diversificate. Con la stessa libertà e creatività con la quale si comporta una persona di fronte alle mutevoli evenienze che gli si prospettano: per rimanere nell'esempio del clima, non utilizzando sempre gli stessi vestiti ma coprendosi o svestendosi con il variare della temperatura.

Grazie all'elettronica le strutture artificiali, prima inerti, possono oggi reagire come se fossero organiche. Ne deriva che per fare un edificio ecologicamente corretto non è necessario trasformarlo -come hanno fatto i SITE nello Hialeah Showroom o in Forest Building- in una serra.

È molto più semplice, come ha dimostrato la facciata dell'Institut du Monde Arabe di Nouvel che cambia al variare della luce, attivare sensori collegati a sistemi computerizzati di controllo. Saranno soprattutto l'elettronica e l'informatica -anche se non necessariamente da sole, perché l'utilizzo di tecniche tradizionali non è escluso, anzi è auspicabile- a farci entrare in relazione, in sinergia con lo spazio naturale.

Basandosi su tecniche elettroniche, già l'anno precedente, Toyo Ito aveva realizzato un intervento, di minore complessità tecnica dell'Institut du Monde Arabe, ma non minore valore metodologico. A Yokohama-shi aveva ricoperto una struttura cilindrica in cemento armato, che serviva come serbatoio idrico e torre di ventilazione dei locali commerciali posti ai piani interrati, con 12 tubi al neon e 1280 lampadine collegate a una centralina che ne comandava l'accensione in relazione al variare dei venti e della rumorosità dell'ambiente circostante. Realizzando così un organismo sensibile sia all'ambiente naturale che al contesto artificiale. Nel presentare al pubblico italiano l'edificio, Domus nel febbraio del 1988, accompagna il servizio con un testo di Ito dal titolo Transfinity.

I ragazzi di oggi, afferma l'architetto giapponese, vestono avvolgendosi in tessuti, colorati e scintillanti che galleggiano nell'aria come privi di peso. Questi soffici e avvolgenti bozzoli ricordano il modo di vestire delle donne arabe e indiane, il loro incessante nomadismo. Anche città come Tokyo sono rivestite di segnali pubblicitari, di luci, di membrane che le calzano come una loro seconda pelle. Noi "ci muoviamo nei reconditi recessi di questo tessuto, totalmente immersi nella coscienza di questo spazio-corpo". Se tale è la realtà dei nostri tempi -continua Ito- che senso ha ingessare i nostri corpi in rigide camicie e in cravatte accuratamente annodate? E similmente, che senso ha continuare a produrre edifici che ingabbiano i loro abitanti senza farli partecipare al flusso della comunicazione con la natura e con l'ambiente metropolitano? "Mi riesce davvero arduo -conclude- comprendere come una simile architettura possa adattarsi ai nostri giovani nomadi urbani". È solo attraverso il processo di rarefazione e di liberazione dello spazio architettonico" che riusciremo a creare un ambiente davvero transfinito".

Sullo spazio transfinito Toyo Ito sta, per la verità, lavorando da diversi anni, per alcuni dal 1984, anno in cui realizza la propria abitazione Silver Hut, caratterizzata da una insolita apertura al cielo, per altri dal 1985 con la mostra PAO I: a Dwelling for Tokio Nomad Women, una abitazione per le donne nomadi di Tokyo. Un progetto quest'ultimo consistente in tre involucri trasparenti e essenziali -uno per truccarsi, uno per le attività intellettuali, uno per mangiare- che prenderanno il posto della casa nella metropoli contemporanea (i tre involucri saranno riproposti all'interno di una tenda nel 1989 per l'esibizione PAO II).

Perché, si chiede Ito, realizzare pareti in uno spazio contrassegnato dallo scambio di flussi? E perché avere abitazioni costipate di oggetti quando, attraverso il sistema delle comunicazioni, è possibile accedere ai beni e ai servizi in tempo reale? Nel 1986, Ito realizza il Nomad Restaurant caratterizzato da schermi che smaterializzano l'architettura riflettendo, attraverso leggeri schermi posti sul soffitto, le luci in tutte le direzioni. Sulla stessa lunghezza d'onda si muovono Itsuko Hasegawa (anche lei discepola, con Toyo Ito, del metabolista Kiyonori Kikutake) e Riken Yamamoto.

Per la Hasegawa la moderna tecnologia ci permette di concepire l'architettura come una seconda natura: "Dobbiamo smetterla di pensare di costruire in accordo alla ragione e in contrasto dalle altre forme della materia. Quando realizziamo gli spazi dobbiamo pensare che gli esseri umani sono parte della natura. L'architettura deve essere responsabile dell'ecosistema in quanto tutta l'esistenza umana è determinata dall'ambiente". Ma ciò, come dimostra con lo Higashi Tamagawa House e il Fujisawa Cultural Center, è possibile farlo solo attraverso i processi costruttivi leggeri e sofisticati. Gli stessi -una trasparente tenda che copre unità domestiche ancorate a una struttura in ferro- che adopera Yamamoto per l'Hamlet Housing del 1988.

A considerazioni simili, negli stessi anni, giungono gli architetti Norman Foster, Richard Rogers, Nicholas Grimshaw, William Alsop, Thomas Herzog i quali, attraverso l'High Tech, sondano le possibilità offerte dalla tecnica per realizzare strutture intelligenti, ecologicamente corrette. Lo spagnolo Santiago Calatrava pensandole anche in movimento, l'italiano Renzo Piano giocando su tecnologie leggere, i materiali naturali e la tradizione costruttiva locale. Nasce l'Eco Tech che, se non necessariamente produrrà opere memorabili (ma saranno tutte di alta qualità formale), introdurrà, negli edifici delle grandi Corporation, i principi della sostenibilità ambientale.



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9. Deconstructivist Architecture

Il numero dell'Agosto del 1986 della rivista The Architectural Review è dedicato a The New Spirit. Celebra la rinascita della ricerca architettonica, dopo anni dominati da paure e da tentennamenti. E.M. Farrelly, il curatore del numero, afferma nell'introduzione: "Il Postmoderno è morto… Adesso qualcosa sta accadendo. Qualcosa di nuovo… Le cose stanno ricominciando a muoversi. Come la prima brezza di primavera dopo un lungo e inutile inverno, questi movimenti sono segni di speranza".

Per Farrelly la rinascita è legata a un atteggiamento romantico -presente all'interno del Movimento Moderno ma soppresso dall'International Style- fatto di spirito di ricerca, di vitalità, di impulsi sentimentali. In una parola, di consapevolezza della complessità, squallore e contraddittorietà del mondo, piuttosto che di fuga in un sistema di ideali ultramondani.

A fare il punto sul fenomeno è Peter Cook con un articolo dal titolo At last! Architecture is on the wing again che si potrebbe tradurre in: finalmente! L'architettura è tornata a volare.

Cook racconta delle due conferenze di Coop Himmelb(l)au del 1984, a Francoforte e all'Architectural Association di Londra, cui ha assistito con ragazzi attenti e estasiati. Il contrario di quanto è avvenuto con una performance di Michael Graves che ha visto l'aula svuotarsi dopo appena un'ora. Quale il motivo dell'interesse dei giovani? Sicuramente la ripresa di una tradizione eroica dell'architettura. Quella che ha visto Bruno Taut e i costruttivisti negli anni Venti. I CIAM nei Trenta. Gli Smithson nei cinquanta. Gli Archigram nei sessanta. È la tradizione dell'avanguardia. Che concepisce l'architettura come un corpo a corpo con le cose e non con "la semantica, la semiotica, le suppliche o i sillogismi" (detto per inciso, vi è anche un attacco a Eisenman la cui ricerca, formalista e intellettualistica, Peter Cook non ha mai digerito). Coop Himmelb(l)au -continua- non è un fenomeno isolato.

Nel 1983 Zaha Hadid aveva vinto The Peak e Tschumi il concorso de La Villette con progetti molto lontani dal disgustoso yuppie pastelstyle (stile color pastello degli yuppie) di moda nella prima metà degli anni ottanta. Di estremo interesse sono i progetti dell'OMA, in particolare quelli prodotti dalla collaborazione tra Rem Koolhaas e Zaha Hadid, quali il concorso per l'estensione del parlamento olandese. Vi sono, poi, le due generazioni della scuola di Graz, la prima con Raimund Abraham, Günter Domenig e Eilfried Huth. La seconda con Heidulf Gerngross, Helmut Richter, Michael Szyszkowitz, Karla Kowalski e Volker Giencke. I nuovi progettisti australiani tra i quali Glenn Murcutt. I newyorchesi della Cooper Union diretta da John Hejduk. E, infine, gli architetti di Los Angeles: Frank O. Gehry, Tom Mayne, Eric Moss, Coy Howard, Craig Hodgetts.

Si formano grazie allo sbarco, avvenuto nel 1968, degli Archigram e di alcuni studenti della Architectural Association e, poi, degli esponenti della scuola di Graz. Un innesto questo che diventa esplosivo nel fertile clima della West Coast, da sempre portata all'innovazione e all'avanguardia grazie all'apporto di Frank LL. Wright, Rudolf Schindler, Bruce Goff, Paolo Soleri, John Lautner.

Quali sono i riferimenti della nuova avanguardia? Per Cook almeno tre:

Primo: il recupero delle valenze antistituzionali del Movimento Moderno. Non quelle classiciste di buona parte della Bauhaus ma dei fenomeni ad essa laterali. Primo tra tutti il Costruttivismo con i suoi " veicoli aerei, agit-treni, set teatrali, torri, grandi e stridenti astrazioni".
Secondo: la tradizione progressista dell'High Tech inglese. Cioè derivata da Buckminster Fuller e Cedric Price; non quella stilisticamente attraente, orientata a fini conservatori.
Terzo: il magistero del brasiliano Oscar Niemeyer, autentico e spericolato artista modernista, ostracizzato dalla cultura contemporanea.

Conclude Cook: un network di uomini e di idee, che si fondano su una comune tradizione, si è formato. Ciò permette di guardare con speranza al futuro. L'osservazione individua con chiarezza una linea di ricerca radicale e d'avanguardia, focalizzando l'attenzione di critici e architetti su un fenomeno in formazione. Che, sta producendo eccellenti risultati, come dimostrano anche i lavori che saranno messi in cantiere in questi anni.

Zaha Hadid progetta nel 1986 il complesso di abitazioni e negozi per l'IBA (completato nel 1993) e un magnifico edificio per uffici al Küfursterdamm di Berlino, realizzato a sbalzo, su un lotto impossibile di 2,7x1,6 m.

Rem Koolhaas dal 1984 sta lavorando su Villa Dall'Ava, una casa unifamiliare dove si scontrano la poetica lecorbusieriana del gioco dei volumi sotto la luce con la poetica del quasi nulla di Mies. Nel 1987, mentre ha in corso di completamento il quartiere IJ Plein a Amsterdam realizzato sulla implementazione della logica dei principi del Movimento Moderno, termina il neocostruttivista teatro di danza all'AIA (iniziato nel 1980) e, l'anno dopo, le due case a patio di sapore miesiano nella periferia di Rotterdam.

Frank O. Gehry nel 1986 disegna il binocolo d'ingresso per gli uffici Chiat-Day-Moyo. Nello stesso anno inaugura la personale che gli dedica il Walker Art Center di Minneapolis. Nel 1987 inizia a disegnare il museo e fabbrica della Vitra a Weil am Rhein dove tenta di giustapporre in un unico corpo di fabbrica gli esuberanti volumi che prima aveva organizzato come entità a sé stanti. Esperimento ripreso l'anno dopo con l'American Center di Parigi.

Coop Himmelb(l)au nel 1987 progetta il teatro Ronacher a Vienna e vince il concorso internazionale per il piano di Melun-Sénart, a sud di Parigi. Bernard Tschumi e Peter Eisenman sono impegnati con Derrida al parco della Villette. Eisenman, come abbiamo avuto già modo di accennare, a partire dal 1986 inizierà una serie di lavori professionali di grande respiro: tra questi il Wexner Center e il biocentro per l'università di Francoforte.

Libeskind, di due anni più giovane di Koolhaas e Tschumi (è del 1946), vince nel 1987 il premio per il margine urbano (City Edge) di Berlino. Sono proprio questi sette architetti -Frank O. Gehry, Daniel Libeskind, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Zaha Hadid, Coop Himmelb(l)au, Bernard Tschumi- che saranno invitati ad esporre alla mostra Deconstructivist Architecture che si inaugura al MoMA di New York il 23 giugno del 1988.

Curatori Philip Johnson, che ritorna a organizzare una esposizione dopo una assenza di oltre trenta anni e cioè dal 1954, quando aveva lasciato la direzione del dipartimento di architettura, e Mark Wigley.

Nella prefazione al catalogo Johnson mostra due immagini: di un cuscinetto a sfera, utilizzato per la copertina del catalogo della mostra del 1934 Machine Art e di una abitazione estiva parzialmente interrata nel deserto del Nevada ripresa dall'obiettivo di Michael Heizer. Niente, afferma Johnson, potrebbe rendere meglio le due epoche della cruda differenza di queste due immagini. Da un lato l'ideale platonico del Movimento Moderno, rappresentato dalla perfezione di un ingranaggio di acciaio dalle pure forme geometriche. Dall'altro una costruzione inquietante, dislocata, misteriosa, fatta di assi di legno appena sbozzate e bandoni di lamiera.

Sebbene ambedue gli oggetti siano stati disegnati da sconosciuti per scopi utilitari, oggi -continua Johnson- ci sentiamo più vicini alla sensibilità del secondo piuttosto che alla astratta razionalità del primo. E la stessa sensibilità la riscontriamo nella produzione dei sette architetti invitati i quali lavorano sul tema della "perfezione violata". Al quale, sia pure inconsciamente, nel campo delle arti, si ispirano artisti del calibro di Frank Stella, Michael Heizer, Ken Price.

Continua Mark Wigley: negli anni settanta è nata una cultura della disarmonia, come dimostrano i martoriati supermercati della Best realizzati dai Site e le lacerazioni programmate eseguite da Gordon Matta-Clark. Oggi, tuttavia, la decostruzione non implica più il rifiuto dell'architettura -avvenga questo tramite la disarchitettura (Site) o l'anarchitettura (Matta-Clark)- ma la consapevolezza che le imperfezioni sono all'interno del fare architettonico, flaws are intrinsic to the structure, sono parte della stessa struttura e non possono essere rimosse senza distruggerla. È per questo motivo che il lavoro degli architetti contemporanei si rifà all'eredità delle avanguardie storiche e, in particolare, dei russi. Entrambi usano forme pure per produrre composizioni impure e entrambi si distaccano dall'elegante estetica del funzionalismo che si è fermata alla perfezione dell'involucro senza indagare la contraddittoria dinamica della funzione in sé e per sé presa. Ovviamente, afferma Wigley, non è importante che tutti gli architetti presentati siano consci di attingere alla tradizione costruttivista. Ciò che conta è che lavorino su una architettura in tensione, distorcendone la struttura senza per questo volerne la distruzione.

Per nulla contestuale, l'architettura decostruttivista ha, al pari di quella russa, un atteggiamento dialettico con il contesto: non lo imita ma non lo ignora, anzi lo utilizza per dislocarlo. Così come usa in modo dialettico categorie tradizionali quali dentro/fuori, sopra/sotto, aperto/chiuso. È forse proprio per questo suo interesse stilistico -conclude Wigley- che il decostruttivismo non può essere definito un'avanguardia. Non è un modo per annunciare il nuovo, a rethoric of the new, piuttosto mostra il non familiare nascosto dietro ciò che è conosciuto. È, insomma, la sorpresa del vecchio.

La mostra Deconstructivist Architecture ha una immediata e inaspettata eco, diffonde la nuova sensibilità e focalizza l'attenzione internazionale sui sette architetti scelti e sugli altri, non chiamati a esporre, che però condividono la medesima sensibilità -Lebbeus Woods, Morphosis, Michael Sorkin, Günter Behnisch- o che ne condividono alcuni temi quali Jean Nouvel, Massimiliano Fuksas o lo stesso Steven Holl.

Tuttavia, rispetto al coinvolgente articolo di Peter Cook, che rintraccia nel lavoro delle giovani generazioni un atteggiamento appassionato di avanguardia, la mostra fa un passo indietro, riducendo a fatto stilistico le ricerche, in realtà tra di loro molto diverse, dei sette architetti.

Lo testimonia l'esagerato richiamo di Johnson e di Wigley alle analogie formali con il costruttivismo russo. Sopravvalutando le quali, viene a squalificarsi il carattere di novità della ricerca. E, così facendo, si dimostrerebbe -e questo Johnson lo afferma esplicitamente- che ogni forma e movimento derivano da un altro che li ha preceduto. Quindi che, in questa epoca di rapido consumo formale, il decostruttivismo non è altri che uno stile come tanti altri: insieme allo strict-classicism e allo strict-modernism. Con la conseguenza che, ridotto a puro repertorio di forme, il decostruttivismo diventerebbe una nuova forma di gioco storicista, un'ennesima estetica svuotata di ogni tensione etica.

Siamo lontani dalla moralità delle forme invocata dalla Hadid, dal neocalvinismo di Koolhaas e dall'attenzione con la quale Cook guarda alla Russia dei primi anni del novecento come alternativa alla tradizione istituzionalizzata della Bauhaus.

D'altronde, a ben pensarci, anche lo stesso nome decostruttivismo è frutto di un equivoco in quanto connota sia un atteggiamento di superamento dell'avanguardia russa (de-costruttivismo) sia la parallela moda filosofica fondata sul pensiero di Jacques Derrida (il decostruttivismo filosofico). Cioè due tematiche che tra loro hanno poco e nulla a che vedere. Ma rispetto ai quali converrà tenere un atteggiamento ambiguo e oscillante: così Eisenman sarà decostruttivista alla maniera di Derrida (con tutti i problemi filosofici che tale atteggiamento, come abbiamo visto, comporta) e la Hadid alla maniera dei costruttivisti russi. Una confusione questa che, se sarà utile a lanciare la tendenza -che gode così di un padrinaggio filosofico e artistico di tutto rispetto- dall'altro ne segna già la morte. Se ne accorgono gli stessi architetti chiamati in mostra, primo tra tutti Frank O. Gehry, i quali, uno dopo l'altro, cercheranno di sbarazzarsi dell'ingombrante etichetta. Dopo la mostra Deconstructivist Architecture e il pericoloso abbraccio di Philip Johnson, l'avanguardia, se vorrà essere tale, dovrà essere altro.



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10. Il paradigma elettronico

A partire dal 1989, si cercano nuove strade. Gehry lo fa con il progetto della Disney Concert Hall, sfortunatamente non ancora costruito, che prefigura la sintesi del Guggenheim di Bilbao: i volumi, come note, si dirigono lungo le diverse direzioni dello spazio ma per ricostruire l'unità di una sinfonia. Zaha Hadid abbandona la sin troppo esuberante formatività del Moonsoon Restaurant (1989-90) per la sintesi dinamica della stazione dei pompieri al campus Vitra, e per proporre, l'avvolgente abbraccio della Cardiff Bay Opera House (1994-96). Koolhaas con i concorsi per la Biblioteca di Francia (1989), il Sea Trade Center a Zebbruge (1989), il Centro d'arte e delle tecniche di comunicazione a Karlsruhe (1989) mette a punto una strategia di intervento per la città contemporanea, basata sul concetto di Bigness, una dimensione simile a quella dei grattacieli o dei grandi centri commerciali, a metà strada tra architettura e urbanistica. La attuerà nel piano di Euralille.

Coop Himmelb(l)au sonda direzioni, concettualmente più elaborate (non facciamo sempre il primo disegno per un nostro progetto con gli occhi chiusi, confessa Prix) che porteranno alla proposta per la biblioteca di Arte e Storia naturale al campus di Jussieu a Parigi (1992) e al raffinato, ma malamente eseguito, padiglione est del museo di Groningen (1993-95). Tschumi abbandona la decostruzione per riscoprire il corpo e gli eventi, e costruire le premesse per la realizzazione del suo capolavoro, il centro Le Fresnoy a Turcoing (1997), un avvincente recupero di un gruppo di edifici dismessi, attraverso una copertura che ne fa scoprire valenze, anche funzionali, inaspettate. Libeskind farà seguire il museo ebraico di Berlino da un vertiginoso ampliamento del Victoria & Albert Museum, ottenuto a partire dalla rotazione di un setto strutturale lungo una spirale.

Al di là del tentativo di arrivare a una sintesi dopo anni di frammentazione, il tema sul quale si confronterà il nuovo decennio sarà l'elettronica. Negli anni ottanta le nuove tecnologie si sono diffuse capillarmente: entrando nel mondo produttivo, negli studi professionali, nella tecnologia di tutti i giorni. A partire dagli anni novanta, computer, nuovi media, servizi televisivi in tempo reale, internet, fax, videogiochi creano un mondo etereo e artificiale parallelo e sovrapposto allo spazio reale. Che può essere scrutato e dominato da prodotti che arrivano sino alla tragica raffinatezza delle bombe adoperate con successo dagli americani nella guerra del Golfo (1991), guidate dai flussi informativi sfuggiti agli avversari e in grado di colpire con precisione chirurgica anche ciò che si nasconde ad occhio nudo.

Immessa nell'universo delle informazioni -l'infospazio- l'architettura contemporanea deve ridefinirsi: orientandosi da un lato verso la dematerializzazione e dall'altro verso la virtualità. Ecco il problema, intuito da Lyotard già nel 1985, quando aveva organizzato al Centro Pompidou la mostra sugli immateriali: come fare a rendere visibile il concetto di flusso informativo, che è di per sé invisibile?

Le risposte tentate dagli architetti saranno molteplici; la prima è più semplice è: con un'architettura leggera e trasparente sino al limite della sua scomparsa. È quanto proporranno Nouvel, Fuksas e anche Koolhaas mediante edifici giocati sulle proprietà del vetro. Coop Himmelb(l)au, per realizzare ad un grado massimo questa metafora del nostro tempo, immaginerà addirittura un edificio a forma di nuvola, Cloud n. 9, per la piazza delle Nazioni Unite a Ginevra (1995).

La seconda risposta è: utilizzando la forma sfuggente, bloboidale, fluida come i flussi che si vogliono rappresentare. Sarà la strada intrapresa da Eisenman che la teorizza in un articolo, Vision's Unfolding: Architecture in the Age of Electronic Media, apparsa su Domus del gennaio 1992. E che Jencks sosterrà entusiasticamente nel suo The Architecture of the Jumping Universe del 1995. Per il primo, le forme fluide sono un modo attraverso cui sconfiggere lo spazio euclideo e la concezione prospettica; per il secondo, la perfetta rappresentazione delle scienze della complessità e dei flussi della comunicazione.

La terza ipotesi consiste nel trasformare le facciate degli edifici in schermi su cui si proiettano fatti ed eventi, un po' come negli edifici billboard di Times Square a New York e del quartiere Ginza a Tokyo. La teorizza Venturi nel libro Iconography and Electronics upon a Generic Architecture nel quale si paragona l'immagine elettronica ai mosaici bizantini. E' una soluzione che sperimentano, tra gli altri, Rem Koolhaas per la facciata principale del centro d'arte e delle tecniche di comunicazione a Karlsruhe (1989) e Toyo Ito con l'Uovo dei Venti a Okawabata (1991). E che, con la variante di lavorare su immagini fotografiche e non cinematografiche, applicano Herzog & De Meuron nei loro contenitori racchiusi da preziosi involucri serigrafati.

La quarta risposta è: progettando architetture che mutano con il variare dei flussi comunicativi. È ciò che abbiamo visto accadere all'Institut du Monde Arabe che manifesta il passaggio di energia solare attraverso il movimento dei diaframmi comandati da una cellula fotoelettrica. O alla Torre dei Venti che cambia luminosità in relazione al contesto esterno.

La quinta risposta consiste nel concepire l'architettura come uno spazio a più dimensioni, oltre le tre fisiche, percepibili attraverso l'ausilio di strumentazioni elettroniche che producono finestre virtuali. È l'obiettivo della Transarchitettura di Mark Novak, proiettata a scoprire nuovi territori del nostro cervello. E, a un livello filosoficamente meno impegnato, di Diller & Scofidio o di Asymptote che immettono frammenti di virtualità all'interno della realtà di tutti i giorni: per esempio, inserendo telecamere che ci consentono di vedere oltre lo spazio fisico concessoci dall'architettura o proiettando grafici sul pavimento che rendono immediatamente percepibile in forma tridimensionale l'andamento della borsa di New York.



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11. Sostanza di cose sperate

Viviamo nell'età dell'elettronica, Le Corbusier, Wright, Mies vivevano nell'età della meccanica. La nostra metafora è lo scorrere asincrono delle informazioni, la loro era il sincronico movimento degli ingranaggi di un orologio. Come orologi Hitler e Stalin volevano che funzionassero i loro regimi. Mussolini si vantava di aver fatto marciare i treni in orario. Al meccanismo dell'orologio era ispirata la catena di montaggio. E gli ingranaggi della fabbrica di Tempi Moderni rassomigliano sinistramente a quelli di un gigantesco orologio. Da una città produttrice di orologi, infine, viene Le Corbusier.

Tuttavia, i prodotti più poetici che il primo novecento ci ha dato non coincidono necessariamente con la logica meccanica dell'orologio. Il Padiglione di Barcellona di Mies, la Villa Savoie di Le Corbusier, la Casa sulla cascata di Wright, anzi, la mettono apertamente in discussione. Pur non essendo concepibili al di fuori della civiltà meccanica dalla quale provengono, sono una risposta antagonista, non banale alla metafora dominante. Quindi, per carità, nessun elogio acritico della tecnologia contemporanea. Nessuna speranza che sarà l'elettronica a salvarci. L'età elettronica nella quale viviamo è la nostra sfida, la nostra crisi da superare. Ma, allo stesso tempo, pensare di tornare indietro, come oggi propongono filosofi apocalittici e architetti luddisti, è ridicolo.

Come sarebbe stato per Wright, Mies o Le Corbusier rifiutare le tecniche della società della macchina nella quale vivevano. Quali il cemento armato che, all'inizio del secolo, è stato il materiale per eccellenza su cui costruire la nuova estetica. Tuttavia, anche in questo caso, le opere più interessanti dei primi anni cinquanta, non sono necessariamente quelle che lo esibiscono. Ma che, come Villa Stein a Garches o gli edifici della Johnson Wax a Racine, ne hanno saputo conciliare la logica con altri spunti logici e poetici.

Torniamo all'elettronica. Dubitiamo che virtuosismi tecnici o l'insistenza sulla metafora della fluidità, su cui oggi troppo ci si attarda, possano in futuro produrre risultati degni di nota. Lo dubitiamo, non solo per la similitudine con quanto è successo ai primi del novecento, ma anche avvertiti da quanto oggi succede nel campo delle arti figurative, da sempre più veloci della riflessione architettonica nel captare e rielaborare i fenomeni della contemporaneità. Artisti quali Sterlac, Robot Grup, Studio Azzurro, Mariko Mori, Pipillotti Rist propongono, attraverso prodotti realizzati con tecnologie elettroniche, opere il cui interesse va oltre il puro compiacimento tecnico. E altri quali la Orlan, Mattew Barney, Damien Hirst, Nobuyoshi Araki, Paul McCarthy, Katarina Fritsch, Rosemarie Trockel, Shirin Neshat analizzano, con tecniche anche tradizionali ma con risultati di assoluto interesse, le implicazioni che i nuovi paradigmi hanno sul corpo e sul modo di vedere e concepire la realtà.

Accantonati i miti tecnicisti, ci sembra di poter individuare due direzioni che promettono inaspettati sviluppi per la ricerca architettonica.

Vi è innanzitutto -ne abbiamo parlato in apertura- l'interazione tra uomo e oggetti. Nel prossimo decennio qualsiasi oggetto sarà smart, intelligente e interattivo in forme e modi assolutamente inaspettati. Ciò porterà a una sorprendente, e per molti versi ancora imprevedibile, geografia degli spazi, a un diverso modo di porre il nostro corpo in relazione con le cose. Un nuovo universo, in cui saranno messe in discussione le categorie di vicino/lontano, dentro/fuori, ideale/materiale, aspetta di essere compreso e manipolato dalla riflessione formale.

Occorrerà poi approfondire in termini spaziali le contraddizioni che nella civiltà dell'elettronica divaricano la nostra percezione della realtà, ponendoci di fronte a crisi e antinomie. Ne elenchiamo alcune.

· Tra l'originale e la copia, tra virtuale e reale con perdita del senso della realtà. 
· Tra trasparenza nei comportamenti e nel flusso delle informazioni ed esigenze di privacy e di segretezza. 
· Tra l'eterno presente offerto dai media e il bisogno di passato e di futuro, non risolvibile con le nostalgie alla Disney World, proposte dall'industria del divertimento o con il non meno falso ingessamento dei centri storici imposto dalle Soprintendenze.
· Tra naturale e artificiale, High Tech e Low Tech. 
· Tra corporeo e incorporeo, tra una pelle sempre più leggera che si interfaccia con il mondo esterno delle informazioni e il corpo sempre più pesante ancorato alla legge di gravità. 
· Tra il naturale sempre più residuale e l'artificiale imbottito di protesi e nanomeccanismi.
· Tra la superficialità del mondo delle immagini e della comunicazione ed esigenza di profondità e di simbolico.
· Tra la necessità di una concreta e immediata socialità e il mondo artificiale della comunicazione imposta dalle nostre protesi: televisioni, lettori di CD, internet, telefoni cellulari... 
· Tra bisogno di individualità e logica produttiva che omogeneizza i prodotti, sia pur dopo averli accessoriati con optional personalizzati. 
· Tra prospettive globali e esperienze e culture locali.

Per superare queste contraddizioni, sia pure attraverso sintesi provvisorie, occorre che gli architetti lavorino all'interno del paradigma elettronico senza inibizioni ma anche senza illusorie fiducie. Proseguendo la ricerca d'avanguardia dei protagonisti che hanno prodotto tra anni ottanta e novanta: Koolhaas, Hadid, Ito, Libeskind, Himmelb(l)au, Tschumi, Gehry, Nouvel… i quali, chiarificando, almeno in parte, la portata di questi problemi, hanno prospettando nuove ipotesi spaziali, inaugurando una eccezionale stagione creativa.

Oggi, gli stessi personaggi, appesantiti dalle richieste di mondanità dello Star System, faticano a dirimere gli interrogativi che loro stessi hanno contribuito a proporre. È il momento di affiancarli con forze nuove, più autentiche e meno compromesse. Una generazione di quarantenni si profila in Olanda, Giappone, Stati Uniti e, sia pure in misura minore, nelle altre realtà europee. Qualcuno timidamente emerge anche in Italia, superando il pervicace ostracismo di un sistema da decenni incapace di produrre architettura. Un particolare fervore si registra tra i trentenni. Tra loro, questa volta, numerosi italiani che hanno capito che per essere buoni architetti occorreva scappare in Europa e negli Stati Uniti, resettando la propria cultura architettonica. Le energie ci sono e i primi risultati si vedono. Segno che viviamo in una età generosa e ansiosa di modernità, protesa alla ricerca, pronta a trasformare in tensione progettuale e in valore estetico le crisi che la vita inevitabilmente ci comporta.

Luigi Prestinenza Puglisi
L.Prestinenza@agora.stm.it
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