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Tendenze dell'architettura contemporanea

di Luigi Prestinenza Puglisi

 

L'intervento che segue è stato presentato in occasione del convegno internazionale 'Architettura e critica: una mappa globale. 46 opere di giovani architetti' organizzato da in/arch e Zone Attive e svoltosi a Roma tra il 18 ed il 19 aprile 2001 presso il Complesso Monumentale di San Michele a Ripa. Spunto per il convegno è stata la partecipazione dei giovani architetti al primo Premio internazionale di architettura Francesco Borromini. Con le note che seguono Luigi Prestinenza Puglisi traccia un personale percorso all'interno del quadro descritto dai candidati al premio. [MB]



[06may2001]
> PREMIO BORROMINI
Dove stiamo andando? Dove sta andando la giovane architettura? Mi sembra questo l’interrogativo che riassume il senso della giornata odierna.

Su questi temi interverranno critici e studiosi che attraverso le riviste e la stampa specializzata si occupano di architettura e architetti caratterizzati da un forte impegno teorico. Alcuni coinvolti nel Borromini come organizzatori e segnalatori, altri esterni. Alcuni italiani, altri stranieri. Insomma ci sono, mi sembra, gli ingredienti giusti per poter affrontare i cinque sottotemi del programma. I quali, lo ricordo, sono:
- quali sono le tendenze che polarizzano la ricerca contemporanea
- esistono linee di convergenza tra le tendenze?
- esistono specificità nazionali?
- in che misura agiscono le nuove problematiche quali il digitale e il pensiero ecologico?
- è così rilevante la circolazione delle idee e delle persone soprattutto a livello transnazionale?

Vorrei iniziare con una nota di ottimismo. Eccellenti realizzazioni si costruiscono dappertutto. I tragici anni settanta e ottanta sono definitivamente sepolti. E anche in Italia, da decenni baluardo della conservazione e dell’appiattimento accademico e storicista, qualcosa si muove. Lo vediamo nei concorsi vinti da Zaha Hadid, Fuksas, Piano, Isozaki negli incarichi sia pur sofferti a Gehry, Ando, Sejima; nel rivolgimento delle carte comunque rappresentato dall’ultima biennale di Venezia; nel mutamento di rotta della stessa Casabella, da qualche tempo più attenta al nuovo e a una sia pur cauta sperimentazione.

I giovani godono di questo clima. All’estero una generazione di trentenni e quarantenni sta soppiantando i maestri. Alcuni cominciano a emergere a livello internazionale. Solo per fare alcuni nomi: Greg Lynn, Asymptote, SHoP negli Stati Uniti, NOX, MVRDV, Wiel Arets in Olanda. Périphériques e Jakob e MacFarlane in Francia. Mansilla e Tuñón in Spagna. E cominciano a vedersi numerose pubblicazioni loro dedicate. Dal libro della Taschen sui progettisti under 40, alla pubblicazione 10x10 della Phaidon sino agli inserti dedicati ai giovani nelle principali riviste di architettura: Architectural Record, L’architecture d’aujourd’hui, Architectural Review.

In Italia si registra un identico interesse per la giovane architettura. Costruire ha dedicato al bravissimo gruppo 5+l la copertina e nell’ultimo numero, dopo una lunga cronaca sul premio Borromini, è presentato il lavoro di Cristofani e Lelli, un altro gruppo molto interessante, tra l’altro selezionato nella rosa dei 46 candidati. Domus sta dando spazio ai giovani a cominciare dalla presentazione del lavoro dei romani Giammetta e Giammetta e a seguire con altre iniziative. Abitare e L’Arca stanno puntando sulla giovane architettura italiana. Area e il Progetto sono dirette da quarantenni: Marco Casamonti e Maurizio Bradaschia. E Sebastiano Brandolini ha scritto sui giovani un lungo articolo apparso sul magazine di Repubblica.

Vi sono poi le iniziative —di presentazione, incontro e scambio delle esperienze— svolte a Milano (Stanze all’aperto) curata da Franco Raggi, a Roma (Gerico) curata da Franco Zagari, A Venezia (La sperimentazione del nuovo) curata da Livio Sacchi. Per non parlare delle iniziative dei giovani: a partire da New Italian Blood fatta da un fuoco incrociato di mostre e siti Internet sino alla sempre più importante rivista elettronica Arch’it, diretta da Marco Brizzi, che è la capofila di una famiglia crescente di webzine. Infine il Borromini con la sua sezione under 40 e le numerose iniziative proposte, tra le quali questa. Mi sembra di poter dire, senza timore di poter essere smentito, che mai c’è stato tanto fiorire di iniziative rivolte ai giovani.

Dove stiamo andando? Che tendenze emergono dal Borromini? Se volessimo riassumere in poche parole diremmo: minimalismo e architettura digitale. Con una prevalenza netta però della prima rispetto alla seconda. La gran parte dei progetti selezionati risponde, infatti, a un vocabolario estremamente scarno, asciutto, ridotto all’essenziale. Non è difficile, quindi, ipotizzare che per i prossimi anni molti giovani progettisti si orienteranno lungo questa direzione. L’architettura digitale, con le sue forme bloboidali e fluide, con appena una decina di nomination, sembra in crisi. Non morta, certo. Ma le prossime ricerche saranno forse meno attente a formalismi spettacolari e più orientate a indagare in che modo effettivamente la rivoluzione informatica cambierà il nostro modo di porci di fronte allo spazio. Insomma più Toyo Ito meno Peter Eisenman.

Perché emerge il minimalismo? Probabilmente come reazione all’eccesso di forme del decostruttivismo e alle tendenze neobarocche di alcuni grandi maestri: penso a Gehry ma anche alla Hadid. Dopo la bulimia un periodo di anoressia. Se vogliamo metterla altrimenti: un po’ di dieta dopo un eccessivo trangugiare di forme nel periodo a cavallo tra i due millenni. Linee di ricerca minimaliste emergevano, in realtà, già nei primi ani novanta. Nel 1992, la rivista Japan Architect e organizzava un concorso avente per tema la realizzazione di una casa senza alcuno stile (House with no Style Competition). Vi è poi il lavoro, lungo gli anni novanta, di Toyo Ito e di Herzog & De Meuron. E anche di Rem Koolhaas che con molto cinismo ha cavalcato tutti gli stili (dal neo ungersiano al decostruttivismo) ma il cui debito con Mies, come si vede anche in S, M, L, XL, va ben oltre la semplice infatuazione stilistica.

E poi ricordiamo il fascicolo monografico de L'architecture d'aujourd'hui di luglio 1999 dedicato al tema "minimal”. I libri Supermodernism (1998) di Hans Ibelings, e Minimalisms (2000) di A. Zabalbeascoa e J.R. Marcos. E, infine, la mostra "The Un-Private House", svoltasi dal luglio all'ottobre del 1999 a MoMA di New York, che illustra i piaceri di un'architettura tanto scarna da sembrare non costruita. Non ci sono più dubbi: dopo il decostruttivismo la tendenza vincente sarà il minimalismo.

Forme scarne, trasparenza. Viviamo quindi in un’epoca di puritanesimo? Non mi sembra. Si dimagrisce, credo, più per un imperativo estetico che per rispondere a motivazioni calviniste. È così, passata la fase esplosiva e affabulatoria del sublime, quella per capirci di Gehry, entriamo nella fase cosmetica e sacerdotale. Magro è bello. Viviamo, lo ha notato Muschamp sul New York Times, in un momento in cui si estetizza e non si interiorizza. E sarebbe un errore confondere la trasparenza dei vetri usati da quasi tutti gli architetti contemporanei per un bisogno di ordine e pulizia, quale, per esempio, quello espresso negli edifici del Movimento Moderno. Koolhaas non è Duiker, Herzog & De Meuron non sono Bijvoet. La’ le vetrate erano messe per motivi igienici. Dai nostri architetti sono messe per velare, far vedere e non vedere, sensualizzare. E gli under 40 sanno bene che la privazione non è lo strumento per eticizzare il mondo ma semmai per esteticizzarlo, renderlo più attraente. Farlo interagire sessualmente. Né più né meno di come fa la pubblicità o la moda con le sue eteree bellezze iper-anoressiche.

In questa ottica supersensualistica, io credo debbano collocarsi sia le ricerche sul digitale che sull’ecologia, entrambe caratterizzate dal rifiuto della massa, del peso, della costruzione in quanto materia. Del resto la smaterializzazione operata dal digitale, come ha dimostrato soprattutto Toyo Ito, bene si accorda con il tema della riduzione minimalista dell’oggetto. E se l’attenzione è rivolta ai flussi, alle immagini e alle interrelazioni allora la costruzione tradizionale in quanto tale non può che entrare in crisi. Similmente il pensiero ecologico, se inteso in tutto il suo rigore, non può che lavorare nella direzione della ridefinizione e ridimensionamento dell’oggetto architettonico. Fine quindi della contrapposizione tra il costruito, con la sua forza tettonica, e l’ambiente naturale per sperimentare soluzioni intermedie e, a loro modo, minimaliste: come mi sembra mostrano gli olandesi MVRDV. 

Anoressia muraria e supersensualità digitale o ecologica. Esistono ovviamente anche altri e diversi punti di vista. Che emergono dal lavoro degli architetti selezionati. E soprattutto dalle diversità nazionali. La americana con la tendenza al tecnologicamente eccessivo, la svizzera con una straordinaria propensione per la mancanza di espansività, la olandese proiettata allo sperimentalismo moderno, la spagnola che ancora ama la buona tavola, la giapponese in bilico tra misticismo zen e tecnologia. Vi è poi la posizione dei paesi in via di sviluppo dove tanti estetismi non sono né economicamente pensabili né moralmente proponibili. E questo divario tra paesi ricchi e meno ricchi mi sembra emerge con forza.

Ma nonostante ci siano tendenze nazionali, non parlerei di localismi in quanto contrapposti alla incipiente globalizzazione. Il localismo implica un rapporto specifico con il luogo, l’attenzione a una tradizione geografica e culturale. Le ricerche in corso nelle varie scuole, invece, mi sembrano abbiano poco a vedere con il genius loci e siano piuttosto varianti tematiche, direi nazionali, del globalismo. E veniamo all’ultimo punto. Gli italiani. Certamente hanno costruito poco. Ma anche dalle autocandidature sono emersi lavori di alta qualità. Si fanno notare, anche con prodotti di ottima qualità, la scuola romana (Andrea Sciolari), la torinese gabettiana (Flavio Bruna e Paolo Mellano), la toscana carmassiana (Alessandro Bucci), la veneziana con ascendenze napoletane di Francesco Venezia (Stanislao Ferro, Alfonso Cendron). Ma vi sono anche sperimentazioni più libere, meno inquadrabili, che crediamo rappresentino al giorno d’oggi le linee di ricerca più interessanti: da Nemesi ad Alter Studio, da 5+1 a Anna Barbara, da Andrea Stipa a n! studio, da Cristofani e Lelli a Suburbia.

Si caratterizzano per un approccio colto, attento ma non succube verso la storia, in sintonia con la contemporaneità, ma allo stesso tempo disincantato. È una generazione senza Maestri sulla quale è lecito nutrire aspettative. L’architettura italiana, insomma, non è morta. Nonostante molte scelte scellerate che hanno fatto di tutto per ucciderla, non è più quel buco nero di cui mi parlava un giovane critico americano. Purtroppo, però, molti ancora credono che lo sia. E così i segnalatori hanno tirato fuori tra le nomination solo 6 italiani. Troppi pochi, mi sembra, rispetto alla qualità in gioco. E la giuria ha preferito passare dieci stranieri. Tutti bravissimi ma credo non così straordinariamente eccellenti rispetto ai nostri.

Poco male, prima che i fenomeni vengano notati, passa sempre del tempo.

Luigi Prestinenza Puglisi
L.Prestinenza@agora.stm.it
L'intervento di Luigi Prestinenza Puglisi ha sollevato un dibattito, sviluppato all'interno di antiThesi Giornale di Critica dell'architettura cui vi rimandiamo per approfondimento.
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