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Intervista a Paolo Soleri

di Marco Felici

 

Il Leone d’Oro alla Carriera conferito a Paolo Soleri nella recente 7° Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia ha riportato sotto i riflettori la figura di un maestro italiano che da anni lavora con estrema correttezza su temi etici universali. E molti architetti, soprattutto quelli formati negli anni ’60 e ’70, quando le immagini di Soleri, le sue teorie e gli aneddoti, rappresentavano “l’altro” cui aspirare, si sono commossi ed incuriositi nel sapere che l’esperienza di Arcosanti va avanti, che almeno questa non è uno dei tanti sogni adolescenziali finiti in soffitta.

Studenti, professionisti e cultori continuano ad affluire nei seminari della Fondazione Cosanti, sedotti dalla grafica originale che ha sempre contraddistinto la produzione di Soleri, e dai contenuti innovativi, non solo per il precoce ecologismo quanto per l'organicità di una proposta megastrutturale antropomorfica, della teoria delle Arcology.

Ai metodi costruttivi insoliti ed ai progetti urbani ampliamente pubblicati il maestro continua ad aggiungere sempre nuovo materiale. Importanti sono le sue attività di filosofo e di scultore, entrambe fortemente legate alla sperimentazione di Arcosanti, sia per gli aspetti tecnici che per quelli concettuali. La visione urbana di Soleri si proietta infatti ormai oltre i confini temporali dell’attualità, in una filosofia che legge l'evoluzione del cosmo, dal Big Bang all'Omega Seed. E le sue architetture, da quelle artigianali di Cosanti a quelle industrializzate di Arcosanti, traslano su nuove scale i principi tecnici delle scultoree campane a vento. Una sintesi nuova, originale, nella terna vitruviana, che un “italiano all’estero” sta reinterpretando in risposta alla deviazione del modello urbano statunitense. [MF]



[14may2001]


MARCO FELICI: Partiamo dalla triade vitruviana, Venustas Firmitas Utilitas, in Cosanti la sintesi è massima; in Arcosanti si è partiti con importanti idee… Che peso hanno oggi queste tre componenti nell’Architettura di Soleri?


> ARCOSANTI
PAOLO SOLERI: Bisognerebbe riuscire ad accordarci sul termine tecnologia, che in genere si riferisce agli aspetti costruttivi, ma che può avere un significato più ampio. Ritengo che la tecnologia sia la prima professione della realtà. Cominciando con il Big Bang, il processo del divenire è un processo tecnologico, è il “come” le cose si trasformano, “The Howness”. Dunque non possiamo essere molto chiari quando vogliamo ridurre la tecnologia al pratico, perché la realtà non è pratica è reale. Se si accetta questa idea che la tecnologia è il primo dominio della realtà, l’estetica e la funzione si fondono con la tecnologia, praticamente.

Quindi lo sviluppo naturale è comunque un atto tecnologico? L’uomo è parte della natura nello sviluppo della tecnologia dal Big Bang in poi?

Si, perché l’“homo faber” ha la facoltà del fare, una facoltà che è direttamente dipendente dall’abilità di manipolare e di trasformare le cose, e quindi noi siamo trasformatori per natura. Quando la conoscenza aumenta la tecnologia si amplifica, e si è sempre più capaci di trasformare le cose, quindi il miracolo tecnologico e scientifico rimane molto coerente con la natura dell’uomo, il manipolatore.



Questo accade sempre? O c’è il rischio che l’uomo si allontani da una evoluzione che potremmo definire naturale, portandola verso qualcosa di troppo artificiale quindi magari non desiderabile?

Questo tenderebbe a ridurre lo scopo della tecnologia, forse. Ad esempio, la tecnologia del computer, del “silicon”, sarà legittima se ci darà la facoltà di intervenire maggiormente in quello che noi chiamiamo la natura, che di per se è comunque un processo tecnologico.

Dunque funzione e tecnologia procedono necessariamente insieme… 

C’è quasi una coincidenza, perché quando c’è un bisogno quello che si fa è cercare un sistema per soddisfarlo, e quindi si ricorrere alla tecnologia: la trasformazione di quello che esiste in quello che ci serve.

E l’estetica?

L’estetica è in un certo modo uno sviluppo su un piano diverso, è una trascendenza. Se un problema può avere una soluzione, diciamo, clinica, allora si può produrre un oggetto, una struttura, che sarà funzionalmente soddisfacente. Ma se il prodotto va al di là della risoluzione clinica, può entrare nel dominio dell’estetica. Quindi l’estetica è un ulteriore passo, dalla funzione alla bellezza che è stata filtrata dalla mente umana.

Quindi nell’estetica c’è una scelta? In quanto successivo, è un passo che viene fatto con consapevolezza?

Di solito quando è fatto con consapevolezza fallisce. Le cose esteticamente migliori sono quelle che risultano quasi come conseguenza necessaria del processo di trasformazione, mi pare. Quando ero all’Università lo slogan più popolare era “la Forma segue la Funzione”. Ritengo esistano invece due formulazioni, una è “la forma segue la funzione”, e l’altra “la funzione che segue la forma”. Ed in natura più che altro si ha che la funzione segue la forma, mentre noi, con il nostro intelletto, abbiamo bisogno anche di concepire una forma che segue la funzione; di qui il Funzionalismo del Movimento Moderno. Ma per ogni architetto c’è questo confronto, la dialettica tra queste due posizioni opposte. Siamo nati in un luogo e ne riceviamo un’influenza ambientale, poi col procedere nella scuola e oltre, ci formiamo, diciamo così, un gusto; e questo gusto definisce delle forme che non necessariamente sono consce, ma sono comunque inconsciamente parte della persona; queste forme tendono ad apparire come determinanti nel processo del progettare. Dunque siamo un po’ un misto di forma-che-segue-la-funzione e di funzione-che-segue-la-forma.

Dunque l’estetica nel suo lavoro è sempre un’esternazione spontanea? Le sue opere, nel volere essere una ricerca del prossimo balzo nell’evoluzione del Habitat, sembrano ricollegarsi linguisticamente alle Città Cosmogoniche, con cui d’altra parte spartiscono la sensazione di legame tra la terra e la calotta celeste…

Questo è un complimento, e non so se sia molto ragionevole. Ma rimane il fatto che è sempre stata la trasformazione delle cose che mi ha fatto fare quello che faccio, quindi in un certo modo la tecnica ha condizionato la forma, questo era evidente quando facevo le sperimentazioni con il calcestruzzo e la terra…



…il Silk Cast che ha caratterizzato Cosanti; ma poi in Arcosanti il linguaggio è rimasto abbastanza sulla stessa direzione, nonostante la tecnica sia evoluta verso una sorta di industrializzazione del getto…


…ma questo perché ad Arcosanti l’indirizzo delle tecnica era su un campo più vasto. Diciamo che, invece del tetto per gli individui, si costruiva un tetto per le popolazioni. Quindi l’abitato diventa una cosa che ha una dimensione più complessa, ma è sempre una questione di tecnica… torniamo dunque al “come” fare in modo che questo bisogno sia soddisfatto; quindi di nuovo quello che definiamo “the Howness”: il come-che-definisce-il-che, in un certo senso.

…infatti per decenni Soleri è stato anche un simbolo di tecnologie “diverse”, tecnologie che nascono direttamente dalla costruzione in atto; ma oggi la “fattibilità” si spinge sempre più lontano dai procedimenti intuitivi…

Si, perché il fattibile ha sempre un’attrazione grandissima. Quando una persona scopre la possibilità di fare qualcosa, anche se il significato è assente questa persona tende a fare tale cosa. Si determina una supremazia del fattibile sulla necessità di desiderabile, in un certo senso. E questo è molto visibile oggi, specialmente qui negli Stati Uniti, dove si fa tutto. Più che altro si fanno cose che fondamentalmente non hanno alcun senso, ma hanno un mercato.

…forse per questo l’approccio positivista con cui ha concepito le Arcology sta cedendo il passo ad una diversa intenzione: la “persuasione”… le funzioni immediate stanno perdendo di importanza di fronte ad una visione più ampia?

No, è quasi l’opposto. C’è un problema fondamentale che come persona contemporanea mi rifiuto di trascurare: il problema del come la vita può continuare a svilupparsi in termini coerenti con il passato. C’è una storia di milioni di anni, e noi dobbiamo cercare di capire perché questo sviluppo è stato possibile, e poi applicare tali deduzioni nel nostro fare attuale. Quindi, siccome dobbiamo abitare quello che si costruisce, questo dovrebbe essere coerente con il bisogno della vita; dunque la forma deve essere molto coerente con la funzione, e la funzione non può essere limitata a quello che ci dice la fattibilità, deve essere connessa con la realtà.



…la realtà, l’attualità. Abbiamo parlato molto di filosofia del costruire l’habitat. E questo è molto coerente con una delle principali istanze del pensiero contemporaneo: la Sostenibilità, di cui lei potrebbe essere considerato precursore, ma anche alter-ego. C’è però un altro aspetto della sua ricerca, anche questo estremamente attuale, che credo sia meno noto al grande pubblico. L’analisi del rapporto tra l’uomo e la rivoluzione informatica…


Il problema che ho con il “silicon” è il fatto che tende ad essere usato troppo in termini virtuali. Come la persona seduta di fronte al computer diventa un cervello quasi separato dal corpo, così i risultati che vengono da questa tecnologia tendono ad essere effimeri, nel senso che sono molto nel dominio della virtualità. Questo significa fare delle persone degli individui astratti. C’è una astrazione che noi passiamo per conoscenza ma forse non lo è; è più informazione che conoscenza. Quindi come riuscire ad ancorare di nuovo l’uomo alla realtà quando tende ad abbandonarla per questi giochi di virtualità, che sono eccitanti ma che non hanno la solidità tridimensionale di ogni organismo? La persona deve cercare di riconnettersi in un certo senso, con il proprio corpo e con gli altri corpi. È qui che la necessità della città diventa essenziale; più diventiamo filo-informatici più dobbiamo ricordarci che siamo dei cervelli con dei corpi che hanno delle necessità fondamentali. L’aggregazione, la convivialità, gli incontri, le cooperazioni etc. etc. non sono solo virtuali, sono anche reali.

Quindi va ripensato il passaggio da Homo Carbonis a Homo Siliconis? Il perdere la materialità del corpo per continuare ad esistere soltanto nel software che abbiamo inventato, non è un primo passo verso una nuova evoluzione, verso l’Omega Seed?

Va ripensato perché quando si ha una nuova tecnologia si diventa appassionatamente attaccati all’irresistibile sensazione di magia che genera. Così in quest’epoca di iniziazione probabilmente ci stiamo spingendo ad estremi che non sono accettabili. Se il cambiamento avviene troppo in fretta c’è il rischio che si perdano degli elementi fondamentali acquisiti in un processo di milioni di anni, inclusa l’idea di amore, di compassione, di erotico, …dei sensi in generale. L’intelligenza Post Carbonis non ha bisogno di quello che oggi completa l’intelligenza Carbonis: pone come centrale la sua presenza. Tutta la biosfera diventerebbe irrilevante se l’intelligenza Post Carbonis venisse a compimento.

Dunque quando lei parla di passaggio da Homo Carbonis ad Homo Siliconis, lo fa più come segnale d’allarme che non con accettazione?

È un allarme poiché dobbiamo cercare di aumentare la nostra conoscenza, e non solo la nostra informazione. Ma la conoscenza ha un tempo che non è quello del silicon, quindi tecnologicamente noi andiamo alla velocità della luce mentre biologicamente siamo alla velocità del suono, per citare qualcosa di simile.

… quindi il processo che ci porterebbe verso l’Omega Seed è nella direzione della conoscenza e non dell’informazione siliconica…

Eh sì, perché la conoscenza viene dall’informazione, ma sedimenta. Nell’informazione non c’è questa trascendenza verso quello che si potrebbe chiamare la virtù, la grazia, la saggezza, la bellezza...

Ed il mondo di Internet rientra in questa fase ancora immatura della sola informazione?

Come volume sì. Quello che si fa su Internet è, per il 90%, immondizia. Naturalmente adesso è così perché la velocità dell’imparare non è al livello di quella dell’informazione, quindi Internet veicola una valanga di dati che non riusciamo a digerire, o crediamo di assimilarla ma poi scopriamo che non è entrata in noi. Senza digestione non c’è assimilazione, e senza assimilazione non c’è conoscenza. È un po’ una battaglia, ma abbiamo delle risorse incredibili nelle capacità del nostro cervello, quindi la prospettiva è sorprendentemente positiva, ma dobbiamo essere attenti.

… però Internet è molto utilizzato dagli abitanti di Arcosanti, almeno a livello di servizio… concettualmente sembra sposarsi bene con la realtà di una comunità concentrata in un luogo, che poi comunque ha bisogno di mettersi in collegamento con le altre comunità. Può essere lo strumento che determinerà un salto di qualità delle arcologie?

Sì, se accompagnato dalla fattibilità finanziaria. Io comunemente uso il termine prototipo per riferirmi a ciò che stiamo costruendo; un prototipo di habitat è costosissimo, e quindi molto difficile da realizzarsi senza mezzi finanziari. Dunque nella fase in cui siamo, per non tradire l’intento, dobbiamo essere molto cauti nel guardare ai desideri di sviluppo, e cercare le risorse finanziarie di cui abbiamo bisogno senza abbandonare l’idea di prototipo e di laboratorio.

Comunque state investendo risorse nell’investigazione delle connessioni tra i vostri intenti e l’avvento del silicon. Cosa sta nascendo dal convegno-laboratorio Paradox, e cosa si aspetta?

Per adesso ci sono solo brani di connessione, quindi non so. Io ho presentato 8 paradossi al primo incontro, nel 1997; quest’anno si terrà il terzo convegno, e naturalmente ci sono diversi interessi che verranno presentati. Non saprei dire esattamente dove stiamo andando, ma questa connessione è importante, e quindi vogliamo coltivarla.

È già nato un rapporto tra quanto state sviluppando nel Paradox e le architetture in realizzazione?

No, non ancora. Per ora abbiamo usato il computer per interessanti sviluppi grafici, ma non c’è ancora questa fusione auspicabile.

Cosanti, Arcosanti… si sta attuando una produzione di Arcologie sperimentali, espressive di momenti consecutivi, tali da diventare dei monumenti. Possiamo aspettarci la fondazione di una nuova Arcologia, espressione di una nuova sintesi vitruviana, magari con tecnologie leggere e miniaturizzate, se non addirittura virtuale?

Devo ricorrere di nuovo all’esempio del prototipo: quando una mente viene fuori con l’idea di un prototipo, deve saper che questo sarà molto limitato e con dei difetti enormi. La prima automobile era una cosa che faceva quasi ridere, e cosi per tutte le nuove invenzioni. Abbiamo quindi la necessità di avere prima un prototipo che potrà risultare molto limitato, quasi un fallimento, e poi, prototipo dopo prototipo, si raggiungerà una certa efficienza; la funzione sarà soddisfatta chiaramente ed allora, a quel punto, le nuove tecnologie potranno essere introdotte con successo. Arcosanti non rappresenta niente di nuovo in termini di sottigliezza tecnologica; vuole cercare di rappresentare qualcosa in termini di sottigliezza nell’avvicinarsi ad una soluzione in ambito logistico. Ne deriva il bisogno di raggruppare; l’arrivare ad una presenza di grande densità è una necessità, un imperativo che dovrebbe essere al di sopra di ogni altra iniziativa in Arcosanti, anche a costo di soluzioni tecnologicamente non ottime.

…e questa evoluzione del prototipo potrà succedere in Arcosanti, o è destinata al congelamento monumentale? Quando il prototipo sarà pronto, Arcosanti, nella sua complessità, potrà seguire nuove esigenze, evolvere linguisticamente e tecnologicamente?

Occorre fare una distinzione fra quello che chiamo lo strumento e quello che chiamo il suono, la musica. Io sono interessato a costruire lo strumento, riconoscendo che naturalmente lo si inventa avendo la musica in mente; ma questa in certo senso deve aspettare il suo turno, in modo da poter costruire uno strumento sufficiente per dare la possibilità alla musica di svilupparsi poi anche in condizioni più ricche e potenzialmente maggiori. Quindi si passa dal flauto, dal tamburo, a tutti questi strumenti evoluti che permettono lo sviluppo di fenomeni musicali superbamente superiori alle possibilità del tamburo ed del flauto. Abbiamo bisogno di rimane nel processo di invenzione di uno strumento che quasi non ascolta le richieste dei musicisti mentre si costruisce. Se Arcosanti diventerà uno strumento plausibile, gli abitanti potranno suonare una musica migliore di quella che avrebbero rimanendo in Phoenix o in Los Angeles, o in generale in questi fenomeni
piatti di habitat.

Come sta lavorando, oggi, per questa meta?

Abbiamo bisogno di comunicazione, e per questo stiamo preparando quattro libri. Due li definiamo Manuali, e ci sto lavorando personalmente, con la mia collaboratrice Kathleen Ryan; mentre altri due sono di tipo antologico, ed uno di questi sarà pubblicato da una casa editrice italiana.

Dunque lei confida molto nel potere che avranno questi libri di diffondere la Lean Alternative?

Non so se avranno questo potere, ma almeno ci sarà del materiale a disposizione dei lettori. Vogliamo comunque divulgare idee. Promuovere il desiderio di visitare e partecipare ai laboratori di Arcosanti sarebbe importante. Possiamo persuadere più persone presentandogli 30 anni di esperienza nel laboratorio urbano per la Lean Alternative.

Quindi Arcosanti è ancora un'esperienza aperta… e questo è un invito a partecipare alla sua costruzione?

Si capisce.
Glossario

Arcologia: La città ad Immagine d’Uomo; progetti di città iperstrutturate a prevalente sviluppo verticale che risolvono i problemi di interazione sociale e di rapporto con l’ ambiente naturale.

Lean Alternative: La via alternativa data dalla Frugalità in risposta al dilagare del materialismo che nelle città si traduce in espansione sfrenata ed insostenibile.

Omega Seed: Il termine ultimo dell’ evoluzione in atto dal Big Bang, cui tendiamo con la conoscenza verso l’ autorivelazione.

Paradox: Convegno a cadenza biennale sugli effetti del “Silicon” nella evoluzione verso la Lean Alternative, si tiene in Arcosanti con relatori di fama internazionale.

Silk Cast: Tecnica di formatura del calcestruzzo armato gettato su centine in terra previa stratificazione di elementi decorativi e protettivi, per poi rimuovere la terra a liberare gli ambienti sottostanti.
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