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Pensieri scomodi

di Luigi Prestinenza Puglisi

 

Nelle giornate del 10 e 11 maggio è si tenuto presso la Facoltà di Architettura dell'Università Mediterranea di Reggio Calabria il convegno 'Omaggio a Bruno Zevi', seconda tappa -insieme alla mostra di progetti allestita nel foyer dell'Aula Magna- di un programma di eventi di approfondimento del pensiero di Zevi avviato nel giugno scorso per iniziativa di Franco Zagari. Antonino Saggio, presente al convegno, propone nel proprio sito testo e video del suo intervento. In questa pagina pubblichiamo le considerazioni di Luigi Prestinenza Puglisi.




[24may2001]
Vi è un tema, l'influenza crociana nel pensiero del Professor Zevi, spesso rimosso dalla critica architettonica. 

Forse per il fatto che la cultura italiana da anni è fortemente riluttante a un confronto con Croce. Nella nostra epoca poststrutturalista il tema non va di moda.

E trascurato è anche un secondo problema: l'eredità ebraica in Zevi. Probabilmente perché la cultura italiana persegue la stabilità, l'immanenza, la permanenza. E tende a rimuovere un valore fondamentale dell'ebraismo. Cioè la temporalità. 

Da diversi anni Heidegger è esaltato nelle università italiane. Non è difficile vedere come la sua nostalgia, per i valori dell'abitare e dell'essere, derivi da una concezione del mondo impregnata di valori a-temporali. La stessa che faceva dire con orgoglio a Orazio di aver costruito un monumento più duraturo del bronzo. Insomma una concezione del mondo che all'esserci preferisce l'essere, che alla trasformazione contrappone la presenza, che al tempo antepone lo spazio.

Esattamente il contrario di quello che Zevi pensava essere una concezione ebraica e moderna dell'architettura. 

Sono argomenti cruciali, certo non privi di difficoltà e trabocchetti – in primo luogo il pericolo di semplificazioni e generalizzazioni. Ma anche questioni aperte alle quali credo occorra dedicare qualche minuto. 

È noto l'innamoramento del Professore per Croce. E il desiderio di essere ricordato come il De Sanctis della storia dell'architettura. 

In Croce e De Sanctis la religione della libertà, cioè un concetto etico, si trasforma in un precetto estetico e viceversa. Zevi lavora sin dal dopoguerra su questo nesso. 

L'arte, afferma, è l'espressione più alta della moralità. E la forma è il veicolo attraverso il quale la moralità –che è ricerca della libertà- si manifesta. 

In questa chiave possiamo leggere le sette invarianti dell'architettura moderna. Sono presentate come regole, o meglio, antiregole del linguaggio. Ma lo sono in quanto modelli comportamentali, strategie per la liberazione. 

L'elenco stigmatizza i modelli precostituiti per un atteggiamento sperimentale. L'asimmetria destruttura l'ordine banale, la staticità.

La scomposizione quadridimensionale smembra la scatola per nuove dimensioni spaziali. Le strutture in aggetto esprimono il bisogno di utilizzare tecniche sofisticate.

La temporalità dello spazio è l'accettazione del divenire. La reintegrazione edificio-città-territorio esprime il carattere insieme pubblico e ecologico dell'atto progettuale. Il problema è sempre e solo morale. Da qui tre conseguenze.

Prima. Intransigenza contro il formalismo, il calligrafismo, l'estetizzazione che rappresenta i problemi piuttosto che risolverli. L'architettura nasce per Zevi solo in quanto risposta effettiva a problemi concreti. Se, in quanto linguaggio artistico, è autonoma –Croce avrebbe detto: un'attività distinta dello spirito- è solo perché attua questa moralità operativa con propri mezzi espressivi. Nel caso dell'architettura, attraverso lo spazio. Non c'è una sola pagina di Zevi in cui venga meno questa concretezza del fare, di ascendenza crociana o, meglio, desanctisiana.

Seconda conseguenza. Intransigenza contro le soluzioni facili, i trucchi, gli espedienti professionali. Quindi rifiuto delle ricerche tipologiche e dei repertori di soluzioni preconfezionate. 

Ricordiamo quanto su questi due temi lo scontro sia stato duro, soprattutto negli anni Ottanta, e come sia stato risolto non per abbandono di campo del professor Zevi, ma per morte dell'avversario: l'architettura disegnata, le ricerche tipologiche di derivazione muratoriana e anche l'architettura disimpegnata del post-moderno.

Terza conseguenza. Spirito d'avanguardia: per trovare nuovi territori, per liberare il cervello dalle incrostazioni, per trasformare in valori le inevitabili crisi. E soprattutto per modernizzare il paese con l'occhio rivolto al futuro. 

Zevi crede con tutto il cuore a questa modernizzazione: che deve avvenire nel campo delle libertà civili, del progresso tecnologico, dell'individualismo, dell'elaborazione formale. E paventa tutti i pericoli dello storicismo. Di chi abbagliato dal passato, non riesce a superarlo. Di chi lo rimpiange nostalgicamente. Di chi lo propone come modello di consumo turistico attraverso la caricatura del bel paese. Di chi ne fa un alibi -il fardello del passato- per giustificare la propria impotenza creativa cioè propositiva.

Alludo alla cultura delle Soprintendenze e del restauro conservativo oggi dilagante ma anche a varianti, certamente più colte e più problematiche, dello storicismo di derivazione tafuriana. 

Lo scontro ha il suo apice nel 1979 con le dimissioni dall'università. E nel campo politico si manifesta con l'adesione al partito radicale, le dimissioni dal partito socialista craxiano e le polemiche contro i differenti, ma a volte coincidenti, conservatorismi democristiani e comunisti. 

Siamo arrivati al secondo punto: la concezione ebraica della storia.

Pochi sono i riferimenti degli studiosi agli scritti, dedicati proprio al problema e apparsi in Ebraismo e Architettura, un libro della Giuntina del 1993.

Ma prima di accennare a qualcuna di quelle tesi permettetemi una digressione. Nell'ultimo congresso dell'IN/ARCH, fu letto postumo il discorso che il Professore aveva preparato per l'occasione. 

Rimasi colpito dal punto di vista assunto. Era come se il critico si fosse messo in un posto di osservazione lontanissimo per abbracciare con un solo colpo d'occhio gli ultimi 5.000 forse 50.000 anni della nostra storia. 

Gli serviva per capire dove stava andando il futuro. Il futuro che stava, attraverso l'elettronica, dissolvendo -l'immagine è sua e poteva essere solo sua- l'architettura come in una nebbia leonardesca. 

Era evidentemente la dimensione profetica di un pensatore ebraico. Sempre proiettato in avanti, verso una storia che ogni giorno attende di essere scritta. 

Il contrario dell'ottica di Tafuri, che da quel momento, per opposizione, mi è apparso come un pensatore con lo sguardo perennemente rivolto al passato. Ovviamente le cose non sono così semplici. 

Ma non posso fare a meno di vederlo, e credo con qualche ragione, come lo storico per il quale la storia è già avvenuta. E che è, quasi per costituzione, portato a esaminare, riesaminare, torturare ciò che è stato, in un processo di infinito quanto snervante esame di coscienza. 

Riprendiamo il libro della Giuntina. Vi appaiono riflessioni illuminanti. 

Per Zevi il pensiero cattolico, di cui è impregnata tanta cultura contemporanea, tende a privilegiare lo spazio, a congelare il tempo. Realizza architetture assolute, luoghi da contemplare. Il pensiero ebraico è proiettato nel tempo. 

È portato all'azione. Non crede nell'idolatria dell'immagine. Privilegia la dimensione esistenziale. “Nel pensiero ebraico -afferma Zevi- la concezione temporale ha sempre prevalso, in quanto l'ebraismo da nessun punto di vista è riducibile a una concezione spaziale. La nega alla radice, la stessa idea ebraica di Dio. Dio non è mai un atto ma una azione”. Continua Zevi “la lotta tra il tempo e lo spazio è lotta tra libertà e costrizione, tra inventività e accademia…”.

È appena il caso di notare quanto profondo sia il nesso tra la religione della libertà crociana e la visione ebraica di Zevi, così come emerge in queste pagine. E quanto moderno sia il suo atteggiamento morale. 

Architettura come azione. O se volete, utilizzando una citazione di Persico, scomodo pensatore cattolico amatissimo da Zevi, come sostanza di cose sperate, come profezia. Una moralità che opera contemporaneamente due rifiuti.

Innanzitutto rifiuta la ricerca dell'effetto, della sorpresa. È sbagliato vedere Zevi come il difensore del nuovo per il nuovo. Non si capirebbero le sue feroci stroncature. Verso Moretti, per esempio. Verso la moda. 

E si by-passerebbero con molta facilità le sue perplessità, per me anche eccessivamente critiche, verso protagonisti quali, per esempio, Jean Nouvel o Norman Foster, oggi osannati dalle riviste.

Il secondo rifiuto è contro la pigrizia, l'esaltazione acritica della tradizione, le posizioni reazionarie o, forse peggio, conservatrici.

Vi contrappone l'attenzione per il lavoro di chi rifiuta di produrre oggetti da contemplare, per realizzare, invece, opere con le quali interagire. E l'interesse per le moderne tecnologie informatiche che ci costringono a riformulare i rapporti tra uomo, architettura e natura.

È questo un nodo –contro la moda ma per l'innovazione, per la morale contro il moralismo, per la storia contro lo storicismo- insieme filosofico e estetico sul quale gli studiosi dovranno riflettere. 

Al di fuori di questa prospettiva di ricerca, sono possibili tutte le caricature che ne hanno tentato i detrattori: Zevi avanguardista a tutti i costi, Zevi fissato per l'asimmetria, Zevi nemico del classicismo. 

L'altro pericolo, opposto ma in fondo coincidente, è la sua santificazione. Ridurlo a un'icona dell'architettura contemporanea, privandolo della sua carica stridente, smussando la radicalità morale delle sue problematiche. 

Ma queste appunto sono caricature che restituiscono solo un'immagine distorta e parziale di un pensiero vitale, fecondo e, soprattutto, scomodo.

Sono quindi contento che ci siano convegni come questo dove l'operazione di lettura, comprensione e di valutazione del suo pensiero siano possibili. E per questo motivo vorrei esplicitamente ringraziare l'Università di Reggio Calabria, gli organizzatori e, in particolare, l'architetto Sara Rossi.

Luigi Prestinenza Puglisi
L.Prestinenza@agora.stm.it
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