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Aria

di Domenico Cogliandro

 

La cupola, costruita d'una lava dura e leggera
che pareva partecipe ancora del movimento
ascensionale delle fiamme, comunicava col cielo
attraverso un largo foro, alternativamente nero e azzurro.
Quel tempio aperto e segreto era concepito
come un quadrante solare. Le ore avrebbero percorso
in circolo i suoi riquadri, accuratamente levigati
da artigiani greci: il disco del giorno vi sarebbe rimasto
sospeso come uno scudo d'oro, la pioggia avrebbe
formato una pozzanghera pura sul pavimento;
la preghiera sarebbe volata simile al fumo
verso quel vuoto nel quale collochiamo gli dèi


Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano





[05jul2001]
In architettura, più di una volta, si sono usati modelli di riferimento esemplificativi che hanno rispecchiato in parte o in tutto, con minime varianti, l'oggetto poi realizzato, o l'oggetto esistente e in essi rappresentato. Tali modelli, non perché esemplificativi dovessero essere, sono anche, spesso, ben definiti nei dettagli, oltre che nell'insieme, o quanto l'insieme i dettagli estremamente significativi del tema in essi riposto. Il modello è uno scrigno, il simulacro che conserva non tanto l'oggetto, o non solo, quanto il suo significato più radicale, quello che si insinua e nelle coscienze risiede: il principio primo, il contendere, l'atto risolutore. Qui si dirà del Pantheon: alcune illazioni e alcune annotazioni, dalle quali poco si può distinguere la netta fattezza dell'una e dell'altra, meno che mai la contaminazione. 

Inizia tutto con una sollecitazione che ci perviene dalla critica, più che dalla storia, ovvero dalla elaborazione di un meccanismo che, nella distinzione e definizione di un concetto, vuole esporre in che modo, nei fatti, è stata pensata una determinata cosa. La critica: quel pensiero che giunge dopo l'azione. Bene. Fatta la cosa, che sia città o architettura, adesso se ne può parlare. La critica.


Disegno di Raffaello Sanzio "Veduta interna del Panteon", tratto da AA.VV., Rinascimento. Da Brunelleschi a Michelangelo, Bompiani, 1994.

In essa si può rilevare la radice comune a crisi, krino, e a crinale. Dal crinale si osserva ciò che in basso accade, dalla crisi ci si solleva catarticamente per raggiungere l'obbiettivo punto di vista. Qui, però, si dirà del Pantheon che, per esempio, in quel ragionamento tanto utilizzato dell'inscrizione, al suo interno, di un perfetto circolo tale che la profondità dell'ambiente agrippino e la sua altezza siano parti di un medesimo ragionamento sul controllo degli spazi, e quindi dell'architettura, qualcosa non va per il giusto verso; oppure nel modello di riferimento si può fare a meno della utilitas architettonica, per dar spazio soltanto alla venustas della critica. Citeremo alcuni testi, dall'apice di una immeritevole pluralia maiestatis, a scapito delle nostre illazioni, ovvero a conforto della scienza ufficiale (incrinata) ben disposta ad accettare il modello, di cui s'è detto, come il vero prezzo del contendere, più della maestà, essa ragionevole, dell'oggetto stesso.

Chi ha letto dell'aleph scoperto da Borges in un noto suo racconto avrà certo fatto i conti con il concetto, per molti versi esteso, di infinito e con l'immagine che di esso si ha, sfera-oggetto o punto-illimite, e come tale concetto possa evolvere dentro ognuno nell'idea di spazio che ad esso comunque si informa. L'aleph è stato, ed è, per chi scrive, proprio quel nucleo invisibile, di irragionevole dimensione, piccola, grande, che cova all'interno dello spazio architettonico e dà forma al nucleo visibile che chiamiamo pareti, tetto, pavimento, per poi svanire. Fermo immagine. Ecco l'aleph, eccolo svanire.

Entra il critico. Lo spazio del Pantheon è dato dalla purezza delle intenzioni, esso contiene la geometria della sua costruzione e dà modo, a noi, di comprendere con chiarezza l'intento del suo tempo. Lo spazio realizzato è simbolico, la sfera in esso virtualmente contenuta dimostra la volontà di perfezione del costruttore. Il critico esce. Resta l'oggetto.

I viandanti da esso attratti, nei secoli, fino ad oggi, sia descrittori che teorici, hanno tutti, ognuno nel proprio modo, descritto l'interno del Pantheon in virtù della sua singolarità: lo spazio voltato, a cassettoni, potente e fragile, sovrastante il calpestìo piano, assolutamente lineare. Chiaro. Alcuni di essi sono rimasti attratti, e ne sono stati coinvolti emotivamente, dalla ampia volta, è il caso della piccola fotografia di Le Corbusier; altri, come Piranesi, dal rapporto tra l'esterno della sala, buio, e l'interno, di zenitale luminosità, ribaltamento imperativo degli spazi voltati classici; altri ancora, come Antonio Dosio, e come la maggior parte di essi, dalla sezione di cui s'è detto, proponendo essa, spesso in disegni di simulazione, il fragile rapporto tra la forma e la struttura. V'è uno schizzo di Alvaro Siza Vieira in cui lo spazio d'architettura, vuotato della gravità dei materiali, appare nella sua semplice rarefazione, nella più comune prospettiva di questo spazio a pianta circolare: convessità al suolo, concavità in alto, foro. Normale. Troppo.

Ricordo un disegno che, anni fa, ho visto tracciare ad un artista all'interno dello spazio agrippino. Convessità, concavità, foro. La congettura allora scambiata con il casuale interlocutore vedeva una convessità doppia, del suolo e del disegno, e per anni, nella memoria, questa doppia linea convessa, prima e seconda, reale e simulata, ha fomentato una curiosa illazione, appresso riportata. La proiezione della volta al suolo non è tangente ad esso, ma secante.

Rientra il critico. Assolutamente inaudito, irriverente e indegno di qualsiasi commento. Va via. Non ha tutti i torti, ma una riflessione la merita. Sarebbe possibile ammettere che la deformazione prospettica ha una sua chiarezza in uno spazio di tal sorta, peraltro difendibile anche tecnicamente. L'acqua che dal foro discende al suolo, durante le pioggie, trova in griglie di caduta perimetrali un accoglimento e un rifiuto, e il pavimento, bagnandosi, sollecita i viandanti allo stupore. La convessità pavimentale, avendo una freccia di impercettibile valore tra il centro della sala e il perimetro, e costituendo quindi l'esile calotta che anche presso la Piazza del Campidoglio si può scorgere, rimanda, alla ipotetica grandiosità della sua sfera completa, essendone la parte superficiale ed esterna. La pelle. Il rapporto tra l'individuo e lo spazio interno del Pantheon è esperibile, pur se dimezzato. Meno lo sarebbe quello tra l'ipotetica sfera ipogea e l'uomo, non fosse stato per l'ipervisione suggestiva di cenotafio di monsieur Boullée. Ma la prospettiva falsifica. Almeno quanto l'accettazione di una idea di spazio nella sua interezza.


Immagine dal film "Il ventre dell'architetto" di Peter Greenaway, tratta da A. Bencivenni - A. Samueli, Peter Greenaway. Il cinema delle idee, Le Mani Genova 1996.

Ciò di cui si discute, spesso, tra architetti, si pone in quella porzione di luogo in equilibrio nella quale parti di un'idea vengono discusse, approvate, negate, difese, aborrite. Per continui avvicinamenti e abbandoni, intorno ad un flusso di ipotesi che sottolineano, da una parte, la coscienza del proprio tempo e, da un'altra, la volontà di definirsi tra le tante voci possibili. Dentro il tempo. La curiosa illazione è, comunque, innegabilmente falsa. Lode al critico. Come la certezza che il pavimento del monumento sia piano. Non lo è. Eppure questa inderogabile condizione ha consentito a storici e descrittori di narrare la grandiosità dell'opera in virtù (anche) della sua geometrica misurabilità. In realtà, come altri hanno potuto affermare, una ragion pratica informa la citata condizione, stante la rotazione intorno al raggio di una centina in legno -anima della volta- costruita a terra e poi ribaltata. Il suolo non è però tangente al ribaltamento in basso della centina, utilizzata, forse, per la costruzione della volta, ma lievemente concavo. Così anche le prospettive, che naturalmente affiorano dal disegno interno del Pantheon, andrebbero otticamente corrette, raddrizzate. La concavità che consente lì, al centro, il deflusso delle acque meteoriche, calotta conversa di impalpabile percezione, ha un suo senso duplice, pratico e costruttivo, pur se affiorante in fase realizzativa. E' quello che i costruttori chiamano, con inconscia ed imponderabile leggerezza l'aria, lo spazio tra le cose. L'aria, che altri dicono fuga, viene lasciata, per esempio, tra lastre di marmo contigue, tra materiali differenti (in virtù di probabili dilatazioni), tra parti di strutture nuove ed esistenti. L'aria, la fuga. Qualcosa di misteriosamente musicale pervade l'architettura e le sue connesse geometrie. Il tempio agrippino lo dimostra, in particolar modo quando la sottesa invisibile presenza della sfera non tocca il suolo ma rimane sospesa su questo previsto filo d'aria.


Disegno di Antonio Dosio, "Il Panteon detto la ritonda", tratto da G. A. Dosio, Roma antica e i disegni di architettura agli Uffizi, Officina, 1976.

Ci verrebbe da pensare che in realtà tra la centina ribaltata e il suolo vi sia nascosto, luogo-legame, il nostro aleph. Il critico, da dietro una colonna, spiando, riscrive in sé l'idea e non commenta, ma lascia decantare, lenta, una riflessione. Può darsi, dice, ma il fatto è che il dominio di questo spazio attaverso i termini della geometria, la sfera ribaltata, è un dato convenzionale per spiegare quanto le condizioni di una committenza possano diventare espressioni del proprio tempo, nel quale si dà conto della tecnologia e del pensiero. Ed esce. Noi, invece, si resta qua. Tra le parole. L'aria rimane. Per noi si rivela sottile stacco, distanza, del progetto dal suo corpo, sottolineatura di un dire che trasfigura in realtà: per quanto accorto, per quanto preciso, per quanto razionalizzato, il progetto che si scontra con la realtà dei fatti, il cantiere, cambia della impercepita differenza che lo fa altro dall'irremovibile finito. La differenza rende il progetto, astratta linea su carta, corpo vivo tra le vive cose. Lo rende, in un certo modo, il modello sognato, atteso, che nella carta, tra la misura del segno e il conforto del calcolo, si trasforma nell'attesa replica esperibile di una ennesima architettura. Per cui nulla è perduto, nonostante il tempo. Bisogna attendere il momento problematico della centina agrippina, che va montata, ruotata, ribaltata e smontata, nel lento digredire del cantiere, attendendo che, posato anche l'ultimo tassello del calpestìo, l'aria rimanga inalterata distanza tra il progetto e noi.

Domenico Cogliandro

cenide@citiesonline.it
Questo intervento è stato precedentemente pubblicato in Le strutture voltate a cura di Valeria Macrì, Quaderni del Dipartimento AACM, Edizione Biblioteca del Cenide.
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