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Calle Miralles

di Domenico Cogliandro

 

Sono stato a Finisterre. E’ un piccolo paese, un borgo di pescatori, smarrito tra le pieghe delle carte stradali in una certa parte della Galizia. Uno dei tanti paesi che affacciano sui mari, questo si chiama Oceano. Ha un nome enorme, grande come la sua radice che ci proviene dal mito: Oceano. Altri paesi affacciano su stretti, canali, golfi. Questo no, sta sospeso tra la notte e il giorno con accanto il manto atlantico. Finisterre che, anche per chi conosce poco il latino, dovrebbe ricordare qualcosa. O l’ultimo lembo visitabile del mondo conosciuto oppure l’ultima terra possibile, là dove non si può far altro che rifugiarsi.

[19jul2001]
A Finisterre, che sta circa a due ore da La Coruna, se si va senza mezzi propri e si deve per forza usufruire dei servizi di corriera, ci sono stato d’estate, in agosto. Lo stesso agosto torrido per alcune parti del mondo, freddo per altre, impraticabile per altre ancora, in Spagna, Galizia, proponeva un’uggia blanda, un mezzo tempo. A Finisterre ci sono luoghi d’incontro canonici per i paesi di mare, la piazza, il porto, le trattorie: luoghi topici che però lasciano stupiti, perché trascurati dalla storia, abbandonati di qua da oceaniche risacche, estremo rifugio della parola e del sogno. Bene, non so se è stato chiaro ma Finisterre è proprio lontano da qui. Da qualunque qui. Si potrebbe pensare, e io certo non riuscirei a negarlo, che Finisterre è anche lontano da lì, dal luogo in cui si trova: l’ultimo luogo della terra che ancora, protendendosi sulla roccia galiziana, tenta una sfida al maestoso Oceano. Immerso nel suo improbabile silenzio.


Venezia, Campo S. Polo, 16.10.1995 disegno di Domenico Cogliandro.

A Finisterre è venerata come signora del mare una Madonna di Porto Salvo, simile a quelle che in altri porti sorreggono le vite dei marinai, proteggono le case dai flutti, sostengono la fede nella cristianità. Ad agosto si svolge una processione a mare, sui pescherecci, lambendo le sponde del territorio a cui il popolo affida le proprie paure. Si va in un senso, si torna indietro, si va ancora avanti, si torna ancora indietro e si festeggia, come in molti paesi in riva al mondo, con delle salve in aria, con l’imperdibile vivamaria, con i fuochi d’artificio e una processione che in ogni luogo assume i caratteri delle storie che al luogo si intrecciano. Finisterre sta lì, basta andarci. Ritengo che la trattoria, come il porto, come la processione e il grande Oceano siano ancora là.

Tra queste cose, così apparentemente distanti e sconnesse, corre una strada che le unisce. Una strada che unisce i sogni alle preoccupazioni, ospiti della stessa grigia materia, e collega il regno del piacere, dei banchetti e delle libagioni, al senso del mistero, che nel blu profondo dell’Atlantico ritrova la sua misura, l’infinito della mancanza e dello stupore. Questa strada si chiama Calle Miralles, e ricorda che una volta un uomo di qua è passato pensando, sorridendo, trastullandosi con le dita sulle superfici scrostate delle case e, seduto in fondo al proprio cuore, prendendo appunti su un taccuino di carta bianca. Non penso che sia necessario verificare se quella strada si chiami veramente così, così mi piace ricordarla. Per ricordare il signor Miralles, l’architetto, il curioso ragazzo, il sognatore, il bimbo, ogni volta tale, che spalancava gli occhi al mistero delle cose realizzate. Se poi, uno di questi giorni, un viaggiatore volesse verificare la notizia in presa diretta, annoti bene quale nome è stato dato alla strada, perché a noi nomadi stanziali non manchi l’attenzione a ricordare ciò che è rimasto di chi è andato via.

Domenico Cogliandro

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